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By Michelangela Di Giacomo • 31 May 2009 • 9 CommentiSorry, this entry is only available in Italiano.
Michelangela Di Giacomo Nata a Roma nell’anno 1983, cullò dalla tenera età velleità da palcoscenico e da pennino a china. Dopo aver perso qualche diottria traducendo greco antico, scartate come possibilità di carriera le pulsioni all’arte, al design e al giornalismo, decise di diventare uno storico. Cinque anni in Sapienza, sette mesi a Madrid, si avvia ora in terre senesi per intraprendere un dottorato. Interessata a tutto, appassionata alla vita, tenta di cogliere spunti di riflessione nel caos comunicativo dell’era contemporanea. Tra i suoi svaghi, il ballo in tutte le sue forme, il teatro, il fumetto, l’arte e la lettura. Tra le sue ambizioni, un libro con Einaudi e la Presidenza della Repubblica. Ci sta lavorando su.
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Super articolo, interessante e molto denso. Apre diverse interessanti questioni. L’eurocomunismo e Berlinguer avviarono il PCI sulla strada della social-democrazia? non credo, Come -mi par di capire- Pons credo si sia trattato di un tentativo fallimentare di trovare un’alternativa proprio alla social-democrazia. Gli ex PCI hanno rifiutato fino all’ultimo di accettare e di ammettere la vittoria storica del socialismo. Persino dopo il crollo del muro e lo scioglimento del PCI hanno dato vita al PDS dove S stava per Sinistra e non per Socialismo. Se non mi sbaglio l’oggi presidente Napolitano fu tra i pochi che capirono che ammettere la sconfitta del comunismo senza riconoscere la vittoria storica della social-democrazia (gli odiati nemici) era un’operazione ipocrita e di corto respiro. Perse la sua battaglia.
Il PCI allora non capì e non ammise la vittoria del socialismo e si cullo in illusioni quali eurocomunsmo, Progressisti e Democratici di Sinistra. E ora? Ora che sono nel PD alcuni ex comunisti vorrebbbero approdare alla social-democrazia. Troppo tardi. Non solo non credo sia una prospettiva realistica, non mi stupirei ne mi scandalizzerei se gli ex margherita non volessero morire socialisti, ma non credo che sia nemmeno auspicabile. Veramente crediamo che sia il socialismo a fornire la chiave interpretativa di cui abbiamo bisogno nel mondo del 2000? Tornare a Turati, alla centralità del lavoro, ai sindacati? Io preferirei Mazzini, Cattaneo, Cavour, il partito d’Azione, il pensiero liberal-democratico. Pur provando una sorta di rispetto sacro per la nostra costituzione non mi convince tanto l’idea di una Repubblica Democratica fondata sul lavoro piuttosto che sulla liberta individuale.
Non voglio per carita negare l’importanza del pensiero social-democratico per la sinistra ma se gli ex PCI volevano fare un partito social-democratico temo che avrebbero dovuto pensarci prima, quando ancora era possibile e sensato.
vero rocco, non c’è intento socialisa nel pd
Forse non c’è intento socialista nel PD, ma una tensione sottile alla socialdemocrazia riformista è innegabile. Ci siamo dimenticati di quando Veltroni riempiva i palazzetti dello sport di toscana ed emilia invitando Joshka Fischer (perdonate la poca padronanza nello spelling ma io ed il tedesco siamo antinomici), Segolene Royal e parlavano di democrazie consociative e nordeuropa? Con l’anomalia “italiana” a sinistra (nella definizione del più noto nonno Giovanni Sartori) e le confluenze democristiane nel PD, quale può essere l’altra strada? Un revisionismo marxista in senso biblico? Una dottrina sociale rivista in salsa tosco-romagnola?
Purtroppo l’eurocomunismo, anche storicamente, ha mostrato i limiti del provincialismo tolemaico del PCI italiano: mi è capitato per circostanze contingenti di analizzare i documenti del dipartimento di Stato americano nell’era Carter, ovvero in pieno Eurocomunismo ed ho trovato pochissime allusioni, tutte negative, ad esso. Ciò era bipartizan: sia russi che statunitensi credevano fosse una trovata ideologica che avrebbe esaurito nei cafè parigini e romani tutta la propria spinta propulsiva, rimanendo una forbita retorica piuttosto che una dottrina di campo.
Ciao, ho letto con vero interesse l’articolo e i commenti, per cui per la prima volta partecipo. In particolare riguardo ad una certa invidia che scorgo nei confronti di ciò che è stata ed è la socialdemocrazia europea. Sarò un po’ prolisso rispetto all’obiettivo, mi scuso.
L’idea che mi sono fatto è che non esiste qualcosa come la socialdemocrazia europea, intesa come progetto politico riconoscibile. Cerco di riassumere la Socialdemocrazia storica (che non è il socialismo): cercare di superare l’uguaglianza formale attraverso l’allargamento progressivo dei diritti sociali per far raggiungere a tutti uno status di uguaglianza al di là del posto toccato in sorte nell’assetto produttivo. Questo si ottiene essenzialmente attraverso una gestione generosa del welfare state. La teoria su cui si fonda è l’equivalenza tra incremento del welfare e cittadinanza, ovvero tra diritti sociali e partecipazione democratica. Con questi elementi si poteva sperare, per citare Gaber che vedo apprezzato in questa rivista, in una “libertà diversa da quella americana”. L’analisi sociale di base comprendeva: 1) la rigida divisione tra lavoro libero e lavoro alienato dipendente (che si sarebbe emancipato tramite diritti sociali), 2) la crescita economica continua (per rendere sempre progressivo il potenziale emancipatorio della cittadinanza), 3) una economia a base nazionale (per poter tassare le imprese e redistribuire risorse). Tutti e tre i punti sono completamente saltati! Ma proprio completamente. E così la teoria che legava in maniera diretta diritti e cittadinanza. Ad oggi, non ha nè capo nè coda. Se il comunismo ha perso in maniera rumorosa, la socialdemocrazia, silenziosa, è morta per lunga inedia, fallendo in maniera comunque evidente.
Certo, c’è stato l’aggiornamento della Terza Via, che brutalizzo così: invece dell’emancipazione c’è la realizzazione personale, e invece che una critica alle ingiustizie dell’economia politica una spinta alle eguali opportunità di partenza. Con questa base non è stato più prodotto nulla di innovativo in quello che mi sembra oggi il tema centrale: il rapporto tra economia e società, economia e politica (inteso come luogo dove si produce la legittimità democratica).
Se quanto ho scritto vale non ne dedurrei che bisogna allontanarsi dai padri o dalle tradizioni (socialiste o altro), anzi, ma che non c’è nessun modello attuale a cui guardare, e che i partiti di sinistra europei dovrebbero ripartire un po’ da capo, fornire un’analisi dell’attuale economia politica e vedere attraverso quali azioni si aumenta l’autonomia individuale e quali la castrano. Condivido insomma le riflessioni a fine articolo, ma mi sembra che a dover lavorare non sia solo il PD. Adda passà ‘a nuttata.
caro vincenzo, grazie del contributo interessante ed evidentemente preparato che hai dato al dibattito (al quale spero ti affezionerai e continuerai a partecipare :D) .
Sono perfettamente d’accordo con te quando dici che occorrerebbe produrre qualche cosa di innovativo. In assenza di tali capacità, tuttavia, ritengo che non sia opportuno dar per morte - più o meno violentemente - le ipotesi formulate nel passato.
Negli anni ‘70 si diceva che Lenin aveva rivisto Marx, che Gramsci aveva rivisto Lenin e che spettava ai contemporanei rivedere tutto ciò in base alle esigenze del tempo presente. Le vere “rivoluzioni” (mi si passi il termine) non son quelle che si chiudono in una dottrina ma quelle che riescono ad evolversi senza snaturarsi.
E non escluderei che una valida prospettiva possa essere quella rosso-verde, per radicare nuovamente sviluppo, società e politica.
Non credo che solo il PD debba lavorare, ma l’articolo esprimeva il punto di vista che alcuni suoi dirigenti hanno esposto durante questa campagna elettorael, e anche prima in realtà, quindi ovvio che dei leader di un partito tendano ad attribuire alla propria formazione politica un compito alto e tendenzialmente esclusivo..
grazie ancora delle osservazioni
(ps per antonio….
mi permetto di annotare sull’eurocomunismo
la tua obiezione al riguardo è perfettamente coerente con quanto una certa scuola storica ha prodotto ultimamente - vedasi su tutti Pons S., “Berlinguer e la fine del comunismo”, Einaudi, 2006.
TUTTAVIA ritengo che limitarsi ad osservare che non v’era spazio effettivo nel gioco bipolare per la politica dell’eurocomunismo sia alquanto riduttivo. Per un breve periodo, infatti, gli USA e gli URSS erano sicuramente d’accordo sull’ostacolare qualsiasi spinta che potesse aprire uno scenario di distensione diverso dal mantenimento dello status quo. MA era proprio questo che gli eurocomunisti tendevano a proporre: un’europa rafforzata, terzo polo nel processo di distensione, equidistante dalle due superpotenze. Ed è proprio perciò che dava fastidio a tutti… )
Permetti l’obiezione Michelangela,
sono perfettamente d’accordo con la tua nota ideologica da un punto di vista formale ed anche a livello dottrinario. A livello pratico, tuttavia, dal 1977 al 1980 i partiti comunisti non-moscoviti europei ebbero una capacità d’influenza ed un peso politico sulla scena internazionale praticamente nullo. Non è mio interesse in questa sede entrar nei meriti/demeriti dell’eurocomunismo come dottrina politica di rottura con lo status quo-ante la sua nascita, semplicemente mi limitavo a sottolineare in maniera realistica (come giustamente fa Silvio Pons) la portata e la dimensione del fenomeno. Se si analizzano attentamente i media in quegli anni, scopriamo che il termine eurocomunismo appariva con costanza solamente nei giornali italiani e raramente in quelli francesi. Pravda, NYtimes, Washington Post erano ad esso completamente alieni. Idem per il Frankfurter Allgemeine o per i giornali di partito cinese,
Non era forse l’ennesimo caso di provincialismo tolemaico del belpaese, in cui ci illudiamo che il nostro machiavellico “particulare” possa mutarsi in “universale” solamente perchè lo scriviamo sui nostri giornali o ne discutiamo in tv?
trovare nullo provinciale ecc la sd in europa ci può stare, non il Pci, l’italia e la possibilità di comunismo in europa. se vogliamo, l’italia è stata l’unico fronte di guerra in occidente dopo il 45. i nostalgici destrorsi dovrebbero ringraziare tito, invece di annichilire un’epoca intera. periodo in cui fra l’altro l’europa la costruivano le destre carolinge (o solo quelle golliste) e non certo i provincialismi tolomaici - ti prego non ripeterlo più - della sinistra. beleza
Ad assolutamente “parziale” e spuria conferma di quanto sostenuto da me sopra:
http://www.corriere.it/politica/09_luglio_15/Garibaldi_veltroni_berlinguer_b06da232-7107-11de-b1fb-00144f02aabc.shtml
Ciao.