Federico: ho letto il tuo articolo diverse volte. Stamane – piacevolissima mattina parigina – mi armo di caffè e di sigarette. Mi ci rimetto.
Leggo, avido dell’estetica lingua italiana, la parola grazia. Mi illumino.
Mi sono sentito annoverato fra i tuoi perdenti e, in questo momento di inizio effettivo dell’anno, un colpo di verità cosi’ duro, nonostante caffè e sigarette, mi catapulta, dopo un mese di allegra mondanità siciliana, nel mio studio, seduto su un divanetto coperto da un sipario di velluto blu tutto sbruciacchiato dai proiettori e dalle cicche di sigarette.
Pensavo proprio ieri sera, addormentandomi, che forse dovrei scendere sulla terra accanto ai miei simili. Che forse la grazia e la nobiltà d’animo, il buon gusto e l’irriverenza non sono elementi fondamentali per comporre una vita che voglio considerare degna di essere vissuta.
Voler a tutti i costi conservare regole di comportamento stilate nel corso di millenni forse è opporsi al progresso. Forse rabbrividire ad un « salve » o ad un « piacere » è solo il rifiuto di accettare che non siamo più quelli che eravamo una volta; forse è l’ultimo vessillo di quello che riteniamo essere un nostro privilegio: il mondo è fatto di noi, « tutto il resto è noia » (superba canzone di Franco Califano).
Solo che il mondo non è più fatto da noi, e noi cerchiamo quella grazia che ha contraddistinto la nostra cultura, le nostre dinastie e la nostra arte in loro, guardandoli ghignando perfidi sul loor modo « sbagliato » di spendere il danaro, su quel modo « sbagliato » di presentarsi, su quel modo « sbagliato » di stringere la mano o tenere – non impugnare – la forchetta.
che poi, insomma, quelli che ricordiamo con nostalgia sono i tempi dei nostri nonni – se la nostra famiglia è stata abbastanza fortunata.
E forse erano anche uno schifo.
Insomma, mi pongo la questione: inutile portarli alla nostra altezza? Noi alla loro non arriveremo mai. Siamo più alti di loro? In cosa?
E non glie lo facciamo notare nello stesso modo volgare in cui loro ci mostrano la loro, di altezza?
La grazia è ormai considerata una perla rara, e se è ora di ricrearla, allora cooperiamo.
Misha, mi scuso in anticipo, ma ho la convinzione di sapere delle cose che non so.
Sono sicuro che le domande che ti/mi poni te le sei già poste parecchie volte e che tutte quelle volte ti sei già dato delle risposte. E dirò di più, sono così presuntuoso (l’inferno mi si avvicina), che penso di sapere anche il genere di risposte che ti sei dato.
Attendo smentite e intanto ragiono sul tuo intervento, giusto.
Mi hanno insegnato a mettere a proprio agio ogni mio interlocutore, soprattutto se ha natali diversi dai miei. Mi hanno insegnato che una persona su una Ferrari non merita differente considerazione rispetto ad una in Panda. Mi hanno insegnato che “salve” non si dice e mi hanno insegnato anche qualche altra cosa, per fortuna. Poi ragiono un secondo e mi rendo conto che il termine insegnare in questo caso è sbagliato perché lascia intendere una costrizione, una sorta di dolce imposizione. Non è stato così; sono cresciuto respirando certi comportamenti, vivendo delle abitudini, dei gesti e degli usi.
Una regola è: in questa casa si cena alle 21.00. Evitare “buon appetito” non è una regola bensì la normalità, perché in casa non l’ha mai detto nessuno.
Il fatto che una persona faccia a meno di sputare per terra non ritengo significhi difendere dei comportamenti millenari; mi auguro e penso che sia semplicemente un’abitudine radicata, naturale.
Per questo Misha non mi definirei affatto uno che “combatte per difendere regole di comportamento” o peggio ancora “uno che non accetta il progresso”; mi limito a guardarmi intorno e ad osservare da un punto di vista inevitabilmente soggettivo. Spesso un ghigno irriverente mi sfugge (touché), ma solo quando incontro chi pensa di essere un prototipo di raffinatezza per l’auto che guida o per il potere sociale che ha e magari brandisce una forchetta manco fosse una spada. A quel punto non scelgo di rabbrividire, rabbrividisco e basta.
Questo è parte del punto di vista che ho tentato di esporre appoggiandomi indegnamente a due opere che ho amato molto.
Se mi dici che rinunceresti a questo, ti chiedo solo di spiegarmi come.
Per il resto, sono a tua disposizione.
Nemo profeta in patria, ma sempre touché per le asserzioni degli altri. Quelle che riporti fra virgolette non erano indirizzate ad una tua autoanalisi, ma alla mia.
In giorni di calore infernale, con il sole che batte forte alla terrace del café in cui mi isolo durante queste mie mattine, in giorni di rientri dalle vacanze, di ritrovi, di ripopolazione di una metropoli lasciata deserta per due mesi, mi interrogo, come dicevo, sulle persone che vedo, sugli atteggiamenti che prcepisco, sui natali spudorati.
Non sono pronto alla rinuncia e colgo vittoriosamente il tuo invito ad oppormi alla decadenza della grazia. Che non si traduce in danaro, com’è ovvio, ma è focalizzabile nel buongusto.
Il buongusto come rispetto, il buongusto come assenza di volgarità, il buongusto come intelligenza, il buongusto come decoro, il buongusto come cultura.
Ricevetti un commento ad uno dei miei articoli che diceva: il Signore del ventesimo secolo è una persona molto colta. E sono d’accordo.
L’educazione è il frutto dell’intelligenza e del rispetto. Ed affermo, inamovibile come la rocca di Gibilterra, che chi la ignora in coscienza è uno stupido.
non riuscirò mai a scendere tra i miei simili, come è stato detto. pertanto lo vorrei. profondamente. e vorrei altresì dimenticare che è preferibile dire pranzo piuttosto che cena e le innumerevoli altre cose che tutti (qua) sappiamo da secoli.
ma fortunatamente mi rendo conto leggendovi, che in fondo la mia situazione non è così disperata, perché, checché io ne dica, il mio livello di tolleranza, in fondo, non si ferma a certe piccine considerazioni (e oggigiorno quantomai banali).
è vero, nella vita, è sì il « come » a determinare tutto. ma prima ancora che nelle parole, nei fatti e, soprattutto, nei pensieri.
e, quindi, umilmente, invito gli scrittori (e me stesso) a riflettere sulle loro azioni, o pensieri che (sicuramente) almeno una volta sono stati poco nobili. l’educazione non è un’ostentazione, altrimenti diventa nient’altro che un rifugio.
per il resto, non si preoccupino gli autori, troveranno sempre qualcuno con più buongusto e più storia di loro. e chissà se, innanzi, all’emarginazione, manterrano lo stesso avviso, lo stesso savoir faire, o se si perderanno nel più volgare dei sentimenti: il rancore, il risentimento.
Giacomo,
mi fa piacere ricevere questa tua critica, alla quale ribatto volentieri anche perché mi da la possibilità di sottolineare delle cose del mio articolo che evidentemente non sono state capite, o sono state fraintese (per colpa dell’autore, intendiamoci!).
Dici “il mio livello di tolleranza, in fondo, non si ferma a certe piccine considerazioni (e oggigiorno quantomai banali).” Maledizione proprio non ci siamo capiti.
Quello su cui ho cercato di riflettere per tutto l’articolo non ha nulla a che vedere con le “regolette di educazione”, ma proprio niente. Ne tantomeno con il “tollerare” le persone per come danno la mano (per esempio). Signore no! Guardandomi intorno ho notato che impazza oggi una mentalità svincolata da ogni freno, spinta dall’unica volontà di mettere mani ovunque, di dominare, di comprare tutti, di essere il centro del potere. Si ambisce agli onori di un ruolo sociale il più possibile ostentabile (vedi D’Annunzio), ma così facendo si mette in secondo piano un aspetto più importante, come il sapersi comportare con il prossimo. Io, personalmente, ritengo che tutto questo sia un cortocircuito. E bada bene che questo “sapersi comportare” ha poco a che fare con le “piccine considerazioni”! Si parla di schiettezza, rispetto, lealtà (Castiglione); ma forse anche per te tutto questo è “oggigiorno banale”?!.
Per chiarire meglio il punto di vista, ti potrei dire che non ho pensato ad un articolo ragionando sui “salotti”, bensì osservando la strada, l’università, il lavoro, la televisione. E solo in ultimo i salotti.
Diverso è ciò che ho risposto a Misha. Del suo intervento mi ha colpito questa frase “Che forse la grazia e la nobiltà d’animo, il buon gusto e l’irriverenza non sono elementi fondamentali per comporre una vita che voglio considerare degna di essere vissuta.”
Partendo dal mio (!) punto di vista ho cercato di spiegare il principio che ci si deve battere a difesa dell’inestimabile patrimonio che è ciò che abbiamo respirato e assorbito nel corso della nostra formazione di uomini. A prescindere.
Mi sembra che con questa frase « non riuscirò mai a scendere tra i miei simili » tu esponga, seppur con termini che non condivido, un concetto simile.
Concludo un po’ frastornato dal fatto che tutto ciò possa essere apparso come una “lunga sviolinata su usi, costumi etc”; per quel che riguarda “il” Cayenne era un ovvia provocazione.
Ma evidentemente dovrò fare molta più attenzione alle cose che ritengo ovvie
« non riuscirò a scendere… » era una citazione amichevole da uno dei commenti al pezzo. in realtà pensavo che il cayenne fosse una provocazione, però ho postato lo stesso il secondo comment. perdonami. comunque mi coreggo: sia tu che misha che io, a modo nostro, forniamo un concetto fondamentale, cioè come le nostre « fortune ambientali » (termine dipietrista) siano uno stimolo. la sofferenza implicita nella comprensione delle cose ci rende più riflessivi e ci carica di maggiori responsabilità. bello che ne siamo tutti coscienti. a mia parziale discolpa, urgeva una chiarificazione.
Se i grandi classici hanno « la straordinarietà di proporre questioni, temi, problemi validi ed esistenti da sempre », è altrettanto vero che gli articoli, se ben redatti, hanno la dilettevole caratteristica di attivare la mente a riflessioni ed esercizi logici sempre graditi.
Condivido con l’autore la logorante sofferenza di vivere una società 2.0 sprovvista della grazia assolutamente necessaria allo stabilirsi di rapporti (professionali, d’amicizia o di semplice quotidianeità) sereni ed armonici.
Ritengo tuttavia che la mancanza di grazia sia (ahimé!) un semplice sintomo e non la causa dell’ormai evidente degrado culturale che accompagna il debutto delle giovani generazioni.
La grazia, a differenza dell’educazione che viene impartita e si riduce ad un insieme di norme e nozioni da assimilare, si caratterizza per essere l’espressione di qualità naturali. Qualità naturali che potrebbero avere origine divina o fatale oppure, in una prospettiva più illuminista e razionalista, che trovano la loro radice nella naturale ricchezza che abbiamo coltivato dentro di « noi ». Così come una bombola non può dar vita ad una fiammella se sprovvista di gas, allo stesso modo quando un uomo è povero, vuoto, le sue gesta non possono essere espressione di grazia alcuna.
Ma se il difetto di grazia è un effetto, qual’è la reale causa dell’aberrazione?
Il feticcio della semplicità.
La ricerca della semplicità è di per sé un’operazione condivisibile ed auspicabile se non fosse che, se assunta a valore assoluto, può talvolta scadere nella rudimentalità, con conseguente diretta perdita della qualità, elemento imprescindibile della coltivazione personale, a sua volta ossigeno per la grazia.
Faccio qualche esempio.
Nella disperata ricerca della semplicità, finiamo col darci rozzamente tutti del Tu, con conseguente perdita del valore del rispetto e della confidenza.
Nella disperata ricerca della semplicità, comunichiamo formando periodi rudimentali (limitati alle proposizioni principali) trasmettendoli su piattaforme informatiche ove la possibilità di stabilire una comunicazione è semplicissima, ma con conseguente impossibilità di coltivare la propria e l’altrui espressione. Si è addirittura arrivati (o sarebbe meglio dire tornati) a comunicare per mezzo di disegnini che racchiudono l’espressione degli stati emotivi più rozzi e basilari: sono contento sono triste…
L’arte, in particolare la cinematografia, propone oggi pellicole come quelle di Federico Moccia che sbancano i botteghini perché riducono l’uomo (e in particolare la donna) allo stato animale: innamorato, geloso, contento, triste, arrabbiato, triste…
La stessa musica, un tempo gioco di raffinate composizioni sinfoniche, oggi propone suoni rudimentali su ritmi rudimentali.
La politica, da complesso sistema di ricerca delle migliori soluzioni è ad oggi ridotta al meschino tentativo « di intercettare » i rozzi languori di un popolo annebbiato.
Quando la ricerca della semplicità ci fa imboccare la strada della primitività perdiamo l’opportunità di stimolare il nostro intelletto, la nostra logica. Non siamo più in grado di riconoscere o di esprimere la raffinatezza, siamo poveri. E, come si suol dire, perdiamo la grazia di Dio…
Federico: ho letto il tuo articolo diverse volte. Stamane – piacevolissima mattina parigina – mi armo di caffè e di sigarette. Mi ci rimetto.
Leggo, avido dell’estetica lingua italiana, la parola grazia. Mi illumino.
Mi sono sentito annoverato fra i tuoi perdenti e, in questo momento di inizio effettivo dell’anno, un colpo di verità cosi’ duro, nonostante caffè e sigarette, mi catapulta, dopo un mese di allegra mondanità siciliana, nel mio studio, seduto su un divanetto coperto da un sipario di velluto blu tutto sbruciacchiato dai proiettori e dalle cicche di sigarette.
Pensavo proprio ieri sera, addormentandomi, che forse dovrei scendere sulla terra accanto ai miei simili. Che forse la grazia e la nobiltà d’animo, il buon gusto e l’irriverenza non sono elementi fondamentali per comporre una vita che voglio considerare degna di essere vissuta.
Voler a tutti i costi conservare regole di comportamento stilate nel corso di millenni forse è opporsi al progresso. Forse rabbrividire ad un « salve » o ad un « piacere » è solo il rifiuto di accettare che non siamo più quelli che eravamo una volta; forse è l’ultimo vessillo di quello che riteniamo essere un nostro privilegio: il mondo è fatto di noi, « tutto il resto è noia » (superba canzone di Franco Califano).
Solo che il mondo non è più fatto da noi, e noi cerchiamo quella grazia che ha contraddistinto la nostra cultura, le nostre dinastie e la nostra arte in loro, guardandoli ghignando perfidi sul loor modo « sbagliato » di spendere il danaro, su quel modo « sbagliato » di presentarsi, su quel modo « sbagliato » di stringere la mano o tenere – non impugnare – la forchetta.
che poi, insomma, quelli che ricordiamo con nostalgia sono i tempi dei nostri nonni – se la nostra famiglia è stata abbastanza fortunata.
E forse erano anche uno schifo.
Insomma, mi pongo la questione: inutile portarli alla nostra altezza? Noi alla loro non arriveremo mai. Siamo più alti di loro? In cosa?
E non glie lo facciamo notare nello stesso modo volgare in cui loro ci mostrano la loro, di altezza?
La grazia è ormai considerata una perla rara, e se è ora di ricrearla, allora cooperiamo.
Facendoci pagare perché è un servizio.
Misha, mi scuso in anticipo, ma ho la convinzione di sapere delle cose che non so.
Sono sicuro che le domande che ti/mi poni te le sei già poste parecchie volte e che tutte quelle volte ti sei già dato delle risposte. E dirò di più, sono così presuntuoso (l’inferno mi si avvicina), che penso di sapere anche il genere di risposte che ti sei dato.
Attendo smentite e intanto ragiono sul tuo intervento, giusto.
Mi hanno insegnato a mettere a proprio agio ogni mio interlocutore, soprattutto se ha natali diversi dai miei. Mi hanno insegnato che una persona su una Ferrari non merita differente considerazione rispetto ad una in Panda. Mi hanno insegnato che “salve” non si dice e mi hanno insegnato anche qualche altra cosa, per fortuna. Poi ragiono un secondo e mi rendo conto che il termine insegnare in questo caso è sbagliato perché lascia intendere una costrizione, una sorta di dolce imposizione. Non è stato così; sono cresciuto respirando certi comportamenti, vivendo delle abitudini, dei gesti e degli usi.
Una regola è: in questa casa si cena alle 21.00. Evitare “buon appetito” non è una regola bensì la normalità, perché in casa non l’ha mai detto nessuno.
Il fatto che una persona faccia a meno di sputare per terra non ritengo significhi difendere dei comportamenti millenari; mi auguro e penso che sia semplicemente un’abitudine radicata, naturale.
Per questo Misha non mi definirei affatto uno che “combatte per difendere regole di comportamento” o peggio ancora “uno che non accetta il progresso”; mi limito a guardarmi intorno e ad osservare da un punto di vista inevitabilmente soggettivo. Spesso un ghigno irriverente mi sfugge (touché), ma solo quando incontro chi pensa di essere un prototipo di raffinatezza per l’auto che guida o per il potere sociale che ha e magari brandisce una forchetta manco fosse una spada. A quel punto non scelgo di rabbrividire, rabbrividisco e basta.
Questo è parte del punto di vista che ho tentato di esporre appoggiandomi indegnamente a due opere che ho amato molto.
Se mi dici che rinunceresti a questo, ti chiedo solo di spiegarmi come.
Per il resto, sono a tua disposizione.
Federico, che considerazione. Grazie!
Nemo profeta in patria, ma sempre touché per le asserzioni degli altri. Quelle che riporti fra virgolette non erano indirizzate ad una tua autoanalisi, ma alla mia.
In giorni di calore infernale, con il sole che batte forte alla terrace del café in cui mi isolo durante queste mie mattine, in giorni di rientri dalle vacanze, di ritrovi, di ripopolazione di una metropoli lasciata deserta per due mesi, mi interrogo, come dicevo, sulle persone che vedo, sugli atteggiamenti che prcepisco, sui natali spudorati.
Non sono pronto alla rinuncia e colgo vittoriosamente il tuo invito ad oppormi alla decadenza della grazia. Che non si traduce in danaro, com’è ovvio, ma è focalizzabile nel buongusto.
Il buongusto come rispetto, il buongusto come assenza di volgarità, il buongusto come intelligenza, il buongusto come decoro, il buongusto come cultura.
Ricevetti un commento ad uno dei miei articoli che diceva: il Signore del ventesimo secolo è una persona molto colta. E sono d’accordo.
L’educazione è il frutto dell’intelligenza e del rispetto. Ed affermo, inamovibile come la rocca di Gibilterra, che chi la ignora in coscienza è uno stupido.
non riuscirò mai a scendere tra i miei simili, come è stato detto. pertanto lo vorrei. profondamente. e vorrei altresì dimenticare che è preferibile dire pranzo piuttosto che cena e le innumerevoli altre cose che tutti (qua) sappiamo da secoli.
ma fortunatamente mi rendo conto leggendovi, che in fondo la mia situazione non è così disperata, perché, checché io ne dica, il mio livello di tolleranza, in fondo, non si ferma a certe piccine considerazioni (e oggigiorno quantomai banali).
è vero, nella vita, è sì il « come » a determinare tutto. ma prima ancora che nelle parole, nei fatti e, soprattutto, nei pensieri.
e, quindi, umilmente, invito gli scrittori (e me stesso) a riflettere sulle loro azioni, o pensieri che (sicuramente) almeno una volta sono stati poco nobili. l’educazione non è un’ostentazione, altrimenti diventa nient’altro che un rifugio.
per il resto, non si preoccupino gli autori, troveranno sempre qualcuno con più buongusto e più storia di loro. e chissà se, innanzi, all’emarginazione, manterrano lo stesso avviso, lo stesso savoir faire, o se si perderanno nel più volgare dei sentimenti: il rancore, il risentimento.
fra l’altro dopo una lunga sviolinata su usi, costumi, eccetera, scrivi « il » cayenne, maschile? i Padri impallidiscono.
Giacomo,
mi fa piacere ricevere questa tua critica, alla quale ribatto volentieri anche perché mi da la possibilità di sottolineare delle cose del mio articolo che evidentemente non sono state capite, o sono state fraintese (per colpa dell’autore, intendiamoci!).
Dici “il mio livello di tolleranza, in fondo, non si ferma a certe piccine considerazioni (e oggigiorno quantomai banali).” Maledizione proprio non ci siamo capiti.
Quello su cui ho cercato di riflettere per tutto l’articolo non ha nulla a che vedere con le “regolette di educazione”, ma proprio niente. Ne tantomeno con il “tollerare” le persone per come danno la mano (per esempio). Signore no! Guardandomi intorno ho notato che impazza oggi una mentalità svincolata da ogni freno, spinta dall’unica volontà di mettere mani ovunque, di dominare, di comprare tutti, di essere il centro del potere. Si ambisce agli onori di un ruolo sociale il più possibile ostentabile (vedi D’Annunzio), ma così facendo si mette in secondo piano un aspetto più importante, come il sapersi comportare con il prossimo. Io, personalmente, ritengo che tutto questo sia un cortocircuito. E bada bene che questo “sapersi comportare” ha poco a che fare con le “piccine considerazioni”! Si parla di schiettezza, rispetto, lealtà (Castiglione); ma forse anche per te tutto questo è “oggigiorno banale”?!.
Per chiarire meglio il punto di vista, ti potrei dire che non ho pensato ad un articolo ragionando sui “salotti”, bensì osservando la strada, l’università, il lavoro, la televisione. E solo in ultimo i salotti.
Diverso è ciò che ho risposto a Misha. Del suo intervento mi ha colpito questa frase “Che forse la grazia e la nobiltà d’animo, il buon gusto e l’irriverenza non sono elementi fondamentali per comporre una vita che voglio considerare degna di essere vissuta.”
Partendo dal mio (!) punto di vista ho cercato di spiegare il principio che ci si deve battere a difesa dell’inestimabile patrimonio che è ciò che abbiamo respirato e assorbito nel corso della nostra formazione di uomini. A prescindere.
Mi sembra che con questa frase « non riuscirò mai a scendere tra i miei simili » tu esponga, seppur con termini che non condivido, un concetto simile.
Concludo un po’ frastornato dal fatto che tutto ciò possa essere apparso come una “lunga sviolinata su usi, costumi etc”; per quel che riguarda “il” Cayenne era un ovvia provocazione.
Ma evidentemente dovrò fare molta più attenzione alle cose che ritengo ovvie
« non riuscirò a scendere… » era una citazione amichevole da uno dei commenti al pezzo. in realtà pensavo che il cayenne fosse una provocazione, però ho postato lo stesso il secondo comment. perdonami. comunque mi coreggo: sia tu che misha che io, a modo nostro, forniamo un concetto fondamentale, cioè come le nostre « fortune ambientali » (termine dipietrista) siano uno stimolo. la sofferenza implicita nella comprensione delle cose ci rende più riflessivi e ci carica di maggiori responsabilità. bello che ne siamo tutti coscienti. a mia parziale discolpa, urgeva una chiarificazione.
Se i grandi classici hanno « la straordinarietà di proporre questioni, temi, problemi validi ed esistenti da sempre », è altrettanto vero che gli articoli, se ben redatti, hanno la dilettevole caratteristica di attivare la mente a riflessioni ed esercizi logici sempre graditi.
Condivido con l’autore la logorante sofferenza di vivere una società 2.0 sprovvista della grazia assolutamente necessaria allo stabilirsi di rapporti (professionali, d’amicizia o di semplice quotidianeità) sereni ed armonici.
Ritengo tuttavia che la mancanza di grazia sia (ahimé!) un semplice sintomo e non la causa dell’ormai evidente degrado culturale che accompagna il debutto delle giovani generazioni.
La grazia, a differenza dell’educazione che viene impartita e si riduce ad un insieme di norme e nozioni da assimilare, si caratterizza per essere l’espressione di qualità naturali. Qualità naturali che potrebbero avere origine divina o fatale oppure, in una prospettiva più illuminista e razionalista, che trovano la loro radice nella naturale ricchezza che abbiamo coltivato dentro di « noi ». Così come una bombola non può dar vita ad una fiammella se sprovvista di gas, allo stesso modo quando un uomo è povero, vuoto, le sue gesta non possono essere espressione di grazia alcuna.
Ma se il difetto di grazia è un effetto, qual’è la reale causa dell’aberrazione?
Il feticcio della semplicità.
La ricerca della semplicità è di per sé un’operazione condivisibile ed auspicabile se non fosse che, se assunta a valore assoluto, può talvolta scadere nella rudimentalità, con conseguente diretta perdita della qualità, elemento imprescindibile della coltivazione personale, a sua volta ossigeno per la grazia.
Faccio qualche esempio.
Nella disperata ricerca della semplicità, finiamo col darci rozzamente tutti del Tu, con conseguente perdita del valore del rispetto e della confidenza.
Nella disperata ricerca della semplicità, comunichiamo formando periodi rudimentali (limitati alle proposizioni principali) trasmettendoli su piattaforme informatiche ove la possibilità di stabilire una comunicazione è semplicissima, ma con conseguente impossibilità di coltivare la propria e l’altrui espressione. Si è addirittura arrivati (o sarebbe meglio dire tornati) a comunicare per mezzo di disegnini che racchiudono l’espressione degli stati emotivi più rozzi e basilari: sono contento sono triste…
L’arte, in particolare la cinematografia, propone oggi pellicole come quelle di Federico Moccia che sbancano i botteghini perché riducono l’uomo (e in particolare la donna) allo stato animale: innamorato, geloso, contento, triste, arrabbiato, triste…
La stessa musica, un tempo gioco di raffinate composizioni sinfoniche, oggi propone suoni rudimentali su ritmi rudimentali.
La politica, da complesso sistema di ricerca delle migliori soluzioni è ad oggi ridotta al meschino tentativo « di intercettare » i rozzi languori di un popolo annebbiato.
Quando la ricerca della semplicità ci fa imboccare la strada della primitività perdiamo l’opportunità di stimolare il nostro intelletto, la nostra logica. Non siamo più in grado di riconoscere o di esprimere la raffinatezza, siamo poveri. E, come si suol dire, perdiamo la grazia di Dio…
E.B.