La straordinarietà dei grandi classici della letteratura risiede nel fatto che sapendoli leggere, capsule essi sono in grado di proporre questioni, temi, problemi validi ed esistenti da sempre. Spesso è proprio in questo che si manifestano il genio dell’autore e la sua capacità di dare forma ai tratti universali che accompagnano l’umanità fin dalla sua nascita e che la abbandoneranno solo con la fine. Cogliere e capire l’essenza della specie umana, intercettare un’indole potenzialmente valida per MacBeth come per Veltroni (il predestinato trama per eliminare il re; cade il governo Prodi) rappresenta, assieme alle scelte formali, la concretizzazione del talento letterario.
Gli esempi si sprecano: il “Bel Ami” di Guy de Maupassant non è forse un meraviglioso predecessore dell’odierno strisciante arrivista, nuova figura professionale dell’epoca contemporanea? L’impareggiabile Amleto non ha semplicemente cambiato pelle ed ambiente facendo sognare generazioni di bambini e no ne “il Re Leone”? Meglio evitare poi i fin troppo facili parallelismi sulla sconfinata letteratura dei “patti col diavolo” e gli innumerevoli “Faust” del nostro Parlamento. E poco importa se la nostra generazione crescerà convinta che “l’antipolitica” nacque da un’intuizione del geniale arruffapopolo Beppe Grillo e non fu fenomeno già in uso dai tempi di Dante; più che di una vitale critica indipendente, l’Italiano medio necessita di continui pretesti per pasciarsi nel suo tipico immobilismo al grido di “è colpa loro, non mia!”.
Le sempre più frequenti arringhe decostruttive sono amate per la loro straordinaria comodità. Esse poggiano su problemi sempre più complessi il velo dell’irrisolvibilità, una manna che solleva tutti dallo sforzo di capire e di agire. Tristemente noto che su questa diffusa forma mentis sono capaci di adagiarsi intere società di persone, soprattutto nell’amato sud Italia in ginocchio certo non da oggi.
Di fronte a tutto ciò sicuramente i classici non possono nulla; a maggior ragione, se non li si preferirà nemmeno ad una puntata di “X Factor”, la comprensione effettiva della realtà rimarrà a livello infimo e con essa la capacità di migliorarla.
Sia ringraziato il cielo che con l’azienda e/o le amicizie di papà molti potranno in ogni caso batter cassa, il Cayenne e le serate al “Briatore’s Zoo” saranno salve, e il resto, infondo, non è che sia poi così importante.
Nella letteratura di qualità capita che attorno all’obiettivo tematico principale gravitino parecchie sfumature spesso capaci di costruire tra autore e lettore un vero ponte comunicativo, propedeutico ad una lettura interessata e completa. Ho vissuto la sensazione che questo ponte funzionasse a dovere l’ultima volta alcuni mesi fa, durante la lettura del “Libro del Cortigiano” e de “Le Vergini delle Rocce” di dannunziana memoria: con queste due opere la connessione classici – attualità mi è parsa talmente necessaria da diventare doverosa.
In riferimento all’opera del Castiglione può sembrare strano, di primo acchito, tentare un’interpretazione contemporanea di un trattato in cui la parola “mediocrità” viene trasformata da una delle peggiori offese del ventunesimo secolo ad emblema del sapersi comportare. Nell’epoca in cui stupire significa esistere è forte il rischio di passare per anacronistici nel cercare di capire per quale motivo l’unica opera italiana cinquecentesca conosciuta a menadito nell’Europa dell’ancien régime ha ancora qualcosa da insegnarci. Basta terminare il 1° libro per trovare delle risposte.
Pur riconoscendo senza difficoltà l’istanza omologante del trattato ed il goffo paradosso di insegnare regole di comportamento a chi, in teoria, non dovrebbe necessitare delle lezioni di nessuno, è impossibile non rilevare spunti ricchi di tradizione e di straordinaria necessità.
Il principio fondamentale di tutte le gesta umane è la grazia, “regula universalissima”, colei che deve essere ispiratrice di ogni azione formale e “tecnica”, ma soprattutto sostanziale, come nel caso dei rapporti umani. Il rifiuto delle esagerazioni e dell’artificiosità (per il Canossa uno dei peggiori difetti possibili), l’attenzione alle libertà di cui si può o meno disporre, il rapporto con l’interlocutore verso il quale porsi in modo rispettoso ma schietto, conducono all’obiettivo attraverso una forma che lentamente scivola nella sostanza diventando nobiltà non necessariamente o quantomeno non esclusivamente araldica.
Chissà cosa penserebbe il raffinato espositore della “regula universalissima”, leggendo la feroce concretezza di D’Annunzio, che testualmente sbotta: “(…) si vedevano apparire in carrozze lucidissime i nuovi eletti della fortuna, a cui né il parrucchiere né il sarto né il calzolaio avevan potuto togliere l’impronta ignobile; (…) riconoscibili dalla goffaggine insolente delle loro pose, all’impaccio delle loro mani rapaci (…) E parevano dire: Noi siamo i nuovi padroni di Roma. Inchinatevi!”
La delicata e ossessiva ricerca della forma che si fa sostanza non trova qui alcuno spazio; quella del Vate è una rabbiosa sequela d’insulti attribuiti ad una borghesia “palazzinara” inarrestabilmente in ascesa, ma palesemente incapace di gestire un cambiamento di stato sociale repentino. Sul misero affresco dannunziano il riferimento all’attualità ha compiti estremamente diversi rispetto agli elaborati ragionamenti cinquecenteschi; non si tratta più di proporre una strada da percorrere, bensì di analizzare un dato di fatto: il trionfo della “non grazia”.
L’immagine dell’involuzione di una classe sociale svincolata da ogni freno, spinta dall’unica volontà di mettere mani ovunque, di dominare, di comprare tutti, di essere il centro del potere, ci proietta bruscamente nell’anno del Signore duemilaotto. Chi parla di regole etiche in economia e di moralità non può che essere un perdente palesemente incapace, alla disperata ricerca di una giustificazione per il suo fallimento. Tutto è mezzo di un solo fine: la propria affermazione.
In questi ultimi ragionamenti è riconoscibile un pensiero esposto meravigliosamente da Roberto Saviano nel suo “Gomorra”; per uno strano scherzo della letteratura la brama di ascesa socioeconomica ed un aspetto della mentalità mafiosa finiscono nello stesso pozzo di riflessioni.
Questo accostamento conclude le mie visionarie considerazioni sulla formale e sostanziale decadenza della grazia, contro la quale l’invito è di opporsi fino all’ultimo respiro.
Federico: ho letto il tuo articolo diverse volte. Stamane – piacevolissima mattina parigina – mi armo di caffè e di sigarette. Mi ci rimetto.
Leggo, avido dell’estetica lingua italiana, la parola grazia. Mi illumino.
Mi sono sentito annoverato fra i tuoi perdenti e, in questo momento di inizio effettivo dell’anno, un colpo di verità cosi’ duro, nonostante caffè e sigarette, mi catapulta, dopo un mese di allegra mondanità siciliana, nel mio studio, seduto su un divanetto coperto da un sipario di velluto blu tutto sbruciacchiato dai proiettori e dalle cicche di sigarette.
Pensavo proprio ieri sera, addormentandomi, che forse dovrei scendere sulla terra accanto ai miei simili. Che forse la grazia e la nobiltà d’animo, il buon gusto e l’irriverenza non sono elementi fondamentali per comporre una vita che voglio considerare degna di essere vissuta.
Voler a tutti i costi conservare regole di comportamento stilate nel corso di millenni forse è opporsi al progresso. Forse rabbrividire ad un “salve” o ad un “piacere” è solo il rifiuto di accettare che non siamo più quelli che eravamo una volta; forse è l’ultimo vessillo di quello che riteniamo essere un nostro privilegio: il mondo è fatto di noi, “tutto il resto è noia” (superba canzone di Franco Califano).
Solo che il mondo non è più fatto da noi, e noi cerchiamo quella grazia che ha contraddistinto la nostra cultura, le nostre dinastie e la nostra arte in loro, guardandoli ghignando perfidi sul loor modo “sbagliato” di spendere il danaro, su quel modo “sbagliato” di presentarsi, su quel modo “sbagliato” di stringere la mano o tenere – non impugnare – la forchetta.
che poi, insomma, quelli che ricordiamo con nostalgia sono i tempi dei nostri nonni – se la nostra famiglia è stata abbastanza fortunata.
E forse erano anche uno schifo.
Insomma, mi pongo la questione: inutile portarli alla nostra altezza? Noi alla loro non arriveremo mai. Siamo più alti di loro? In cosa?
E non glie lo facciamo notare nello stesso modo volgare in cui loro ci mostrano la loro, di altezza?
La grazia è ormai considerata una perla rara, e se è ora di ricrearla, allora cooperiamo.
Facendoci pagare perché è un servizio.
Misha, mi scuso in anticipo, ma ho la convinzione di sapere delle cose che non so.
Sono sicuro che le domande che ti/mi poni te le sei già poste parecchie volte e che tutte quelle volte ti sei già dato delle risposte. E dirò di più, sono così presuntuoso (l’inferno mi si avvicina), che penso di sapere anche il genere di risposte che ti sei dato.
Attendo smentite e intanto ragiono sul tuo intervento, giusto.
Mi hanno insegnato a mettere a proprio agio ogni mio interlocutore, soprattutto se ha natali diversi dai miei. Mi hanno insegnato che una persona su una Ferrari non merita differente considerazione rispetto ad una in Panda. Mi hanno insegnato che “salve” non si dice e mi hanno insegnato anche qualche altra cosa, per fortuna. Poi ragiono un secondo e mi rendo conto che il termine insegnare in questo caso è sbagliato perché lascia intendere una costrizione, una sorta di dolce imposizione. Non è stato così; sono cresciuto respirando certi comportamenti, vivendo delle abitudini, dei gesti e degli usi.
Una regola è: in questa casa si cena alle 21.00. Evitare “buon appetito” non è una regola bensì la normalità, perché in casa non l’ha mai detto nessuno.
Il fatto che una persona faccia a meno di sputare per terra non ritengo significhi difendere dei comportamenti millenari; mi auguro e penso che sia semplicemente un’abitudine radicata, naturale.
Per questo Misha non mi definirei affatto uno che “combatte per difendere regole di comportamento” o peggio ancora “uno che non accetta il progresso”; mi limito a guardarmi intorno e ad osservare da un punto di vista inevitabilmente soggettivo. Spesso un ghigno irriverente mi sfugge (touché), ma solo quando incontro chi pensa di essere un prototipo di raffinatezza per l’auto che guida o per il potere sociale che ha e magari brandisce una forchetta manco fosse una spada. A quel punto non scelgo di rabbrividire, rabbrividisco e basta.
Questo è parte del punto di vista che ho tentato di esporre appoggiandomi indegnamente a due opere che ho amato molto.
Se mi dici che rinunceresti a questo, ti chiedo solo di spiegarmi come.
Per il resto, sono a tua disposizione.
Federico, che considerazione. Grazie!
Nemo profeta in patria, ma sempre touché per le asserzioni degli altri. Quelle che riporti fra virgolette non erano indirizzate ad una tua autoanalisi, ma alla mia.
In giorni di calore infernale, con il sole che batte forte alla terrace del café in cui mi isolo durante queste mie mattine, in giorni di rientri dalle vacanze, di ritrovi, di ripopolazione di una metropoli lasciata deserta per due mesi, mi interrogo, come dicevo, sulle persone che vedo, sugli atteggiamenti che prcepisco, sui natali spudorati.
Non sono pronto alla rinuncia e colgo vittoriosamente il tuo invito ad oppormi alla decadenza della grazia. Che non si traduce in danaro, com’è ovvio, ma è focalizzabile nel buongusto.
Il buongusto come rispetto, il buongusto come assenza di volgarità, il buongusto come intelligenza, il buongusto come decoro, il buongusto come cultura.
Ricevetti un commento ad uno dei miei articoli che diceva: il Signore del ventesimo secolo è una persona molto colta. E sono d’accordo.
L’educazione è il frutto dell’intelligenza e del rispetto. Ed affermo, inamovibile come la rocca di Gibilterra, che chi la ignora in coscienza è uno stupido.
non riuscirò mai a scendere tra i miei simili, come è stato detto. pertanto lo vorrei. profondamente. e vorrei altresì dimenticare che è preferibile dire pranzo piuttosto che cena e le innumerevoli altre cose che tutti (qua) sappiamo da secoli.
ma fortunatamente mi rendo conto leggendovi, che in fondo la mia situazione non è così disperata, perché, checché io ne dica, il mio livello di tolleranza, in fondo, non si ferma a certe piccine considerazioni (e oggigiorno quantomai banali).
è vero, nella vita, è sì il “come” a determinare tutto. ma prima ancora che nelle parole, nei fatti e, soprattutto, nei pensieri.
e, quindi, umilmente, invito gli scrittori (e me stesso) a riflettere sulle loro azioni, o pensieri che (sicuramente) almeno una volta sono stati poco nobili. l’educazione non è un’ostentazione, altrimenti diventa nient’altro che un rifugio.
per il resto, non si preoccupino gli autori, troveranno sempre qualcuno con più buongusto e più storia di loro. e chissà se, innanzi, all’emarginazione, manterrano lo stesso avviso, lo stesso savoir faire, o se si perderanno nel più volgare dei sentimenti: il rancore, il risentimento.
fra l’altro dopo una lunga sviolinata su usi, costumi, eccetera, scrivi “il” cayenne, maschile? i Padri impallidiscono.
Giacomo,
mi fa piacere ricevere questa tua critica, alla quale ribatto volentieri anche perché mi da la possibilità di sottolineare delle cose del mio articolo che evidentemente non sono state capite, o sono state fraintese (per colpa dell’autore, intendiamoci!).
Dici “il mio livello di tolleranza, in fondo, non si ferma a certe piccine considerazioni (e oggigiorno quantomai banali).” Maledizione proprio non ci siamo capiti.
Quello su cui ho cercato di riflettere per tutto l’articolo non ha nulla a che vedere con le “regolette di educazione”, ma proprio niente. Ne tantomeno con il “tollerare” le persone per come danno la mano (per esempio). Signore no! Guardandomi intorno ho notato che impazza oggi una mentalità svincolata da ogni freno, spinta dall’unica volontà di mettere mani ovunque, di dominare, di comprare tutti, di essere il centro del potere. Si ambisce agli onori di un ruolo sociale il più possibile ostentabile (vedi D’Annunzio), ma così facendo si mette in secondo piano un aspetto più importante, come il sapersi comportare con il prossimo. Io, personalmente, ritengo che tutto questo sia un cortocircuito. E bada bene che questo “sapersi comportare” ha poco a che fare con le “piccine considerazioni”! Si parla di schiettezza, rispetto, lealtà (Castiglione); ma forse anche per te tutto questo è “oggigiorno banale”?!.
Per chiarire meglio il punto di vista, ti potrei dire che non ho pensato ad un articolo ragionando sui “salotti”, bensì osservando la strada, l’università, il lavoro, la televisione. E solo in ultimo i salotti.
Diverso è ciò che ho risposto a Misha. Del suo intervento mi ha colpito questa frase “Che forse la grazia e la nobiltà d’animo, il buon gusto e l’irriverenza non sono elementi fondamentali per comporre una vita che voglio considerare degna di essere vissuta.”
Partendo dal mio (!) punto di vista ho cercato di spiegare il principio che ci si deve battere a difesa dell’inestimabile patrimonio che è ciò che abbiamo respirato e assorbito nel corso della nostra formazione di uomini. A prescindere.
Mi sembra che con questa frase “non riuscirò mai a scendere tra i miei simili” tu esponga, seppur con termini che non condivido, un concetto simile.
Concludo un po’ frastornato dal fatto che tutto ciò possa essere apparso come una “lunga sviolinata su usi, costumi etc”; per quel che riguarda “il” Cayenne era un ovvia provocazione.
Ma evidentemente dovrò fare molta più attenzione alle cose che ritengo ovvie
“non riuscirò a scendere…” era una citazione amichevole da uno dei commenti al pezzo. in realtà pensavo che il cayenne fosse una provocazione, però ho postato lo stesso il secondo comment. perdonami. comunque mi coreggo: sia tu che misha che io, a modo nostro, forniamo un concetto fondamentale, cioè come le nostre “fortune ambientali” (termine dipietrista) siano uno stimolo. la sofferenza implicita nella comprensione delle cose ci rende più riflessivi e ci carica di maggiori responsabilità. bello che ne siamo tutti coscienti. a mia parziale discolpa, urgeva una chiarificazione.
Se i grandi classici hanno “la straordinarietà di proporre questioni, temi, problemi validi ed esistenti da sempre”, è altrettanto vero che gli articoli, se ben redatti, hanno la dilettevole caratteristica di attivare la mente a riflessioni ed esercizi logici sempre graditi.
Condivido con l’autore la logorante sofferenza di vivere una società 2.0 sprovvista della grazia assolutamente necessaria allo stabilirsi di rapporti (professionali, d’amicizia o di semplice quotidianeità) sereni ed armonici.
Ritengo tuttavia che la mancanza di grazia sia (ahimé!) un semplice sintomo e non la causa dell’ormai evidente degrado culturale che accompagna il debutto delle giovani generazioni.
La grazia, a differenza dell’educazione che viene impartita e si riduce ad un insieme di norme e nozioni da assimilare, si caratterizza per essere l’espressione di qualità naturali. Qualità naturali che potrebbero avere origine divina o fatale oppure, in una prospettiva più illuminista e razionalista, che trovano la loro radice nella naturale ricchezza che abbiamo coltivato dentro di “noi”. Così come una bombola non può dar vita ad una fiammella se sprovvista di gas, allo stesso modo quando un uomo è povero, vuoto, le sue gesta non possono essere espressione di grazia alcuna.
Ma se il difetto di grazia è un effetto, qual’è la reale causa dell’aberrazione?
Il feticcio della semplicità.
La ricerca della semplicità è di per sé un’operazione condivisibile ed auspicabile se non fosse che, se assunta a valore assoluto, può talvolta scadere nella rudimentalità, con conseguente diretta perdita della qualità, elemento imprescindibile della coltivazione personale, a sua volta ossigeno per la grazia.
Faccio qualche esempio.
Nella disperata ricerca della semplicità, finiamo col darci rozzamente tutti del Tu, con conseguente perdita del valore del rispetto e della confidenza.
Nella disperata ricerca della semplicità, comunichiamo formando periodi rudimentali (limitati alle proposizioni principali) trasmettendoli su piattaforme informatiche ove la possibilità di stabilire una comunicazione è semplicissima, ma con conseguente impossibilità di coltivare la propria e l’altrui espressione. Si è addirittura arrivati (o sarebbe meglio dire tornati) a comunicare per mezzo di disegnini che racchiudono l’espressione degli stati emotivi più rozzi e basilari: sono contento sono triste…
L’arte, in particolare la cinematografia, propone oggi pellicole come quelle di Federico Moccia che sbancano i botteghini perché riducono l’uomo (e in particolare la donna) allo stato animale: innamorato, geloso, contento, triste, arrabbiato, triste…
La stessa musica, un tempo gioco di raffinate composizioni sinfoniche, oggi propone suoni rudimentali su ritmi rudimentali.
La politica, da complesso sistema di ricerca delle migliori soluzioni è ad oggi ridotta al meschino tentativo “di intercettare” i rozzi languori di un popolo annebbiato.
Quando la ricerca della semplicità ci fa imboccare la strada della primitività perdiamo l’opportunità di stimolare il nostro intelletto, la nostra logica. Non siamo più in grado di riconoscere o di esprimere la raffinatezza, siamo poveri. E, come si suol dire, perdiamo la grazia di Dio…
E.B.