Una, nessuna, centomila nazioni: quante Italie per le donne?
Pubblicato in Attualità, Fiori
di Michel Serafinelli e Pamela Campa
In Italia, cialis sale se sei nato in provincia di Lecce (dove Lecce sta per Potenza, ambulance Bari, order Caltanissetta, Napoli e così via), è probabile che da bambino la tua giornata scolastica finisca per ora di pranzo; il pomeriggio la mamma ti aiuta a risolvere il problema di matematica mentre stira le camicie, prepara la merenda, lava i panni, accompagna il fratellino al calcetto. Se sei nato in provincia di Milano (dove Milano sta per Bologna, Trento, Torino, Belluno e così via) è molto più probabile che pranzi in mensa con i tuoi compagni di classe; nel pomeriggio la maestra ti affianca tra compiti, lezioni e attività ricreative; finché la campanella non suona la fine della giornata di scuola, e se la mamma e papà fanno tardi al lavoro la staffetta di zia-nonna-babysitter ti traghetterà fino a sera.
Parlare di probabilità ci mette al riparo da sospetti di generalizzazione. E a queste probabilità possiamo dare una consistenza numerica più o meno precisa.
Non è un mistero che in Italia il tasso di occupazione femminile (15-64) sia tra i piu’ bassi in Europa, pari al 47% nel 2007, mentre il tasso di occupazione maschile nello stesso anno era del 71%1. E’ meno ovvio notare che c’è una forte eterogeneità del tasso di occupazione femminile tra regioni italiane. E’ ancora meno scontato scoprire delle forbici che si aprono anche all’interno della stessa regione, tra provincia e provincia.
La figura della mamma non lavoratrice onnipresente sulla scena domestica è molto più forte al Sud che al Nord d’Italia. Ma è anche molto più forte a Venezia che a Belluno, più a Caltanissetta che a Messina2. Nella penisola nel 2003 su 100 lavoratori solo 38 erano donne. Al Nord la proporzione era di 41 su 100, al Centro di 40 su 100, al Sud di 31 su 100. Parlare di donne occupate su 100 lavoratori significa “ripulire” il dato dagli effetti di un mercato del lavoro depresso che al Sud penalizza tutta la popolazione attiva, indipendentemente dal genere. Significa immaginare che in ogni provincia italiana lavorino solo 100 persone, e di queste a Siracusa le donne siano 27, a Biella 46, a Roma 40, a Milano 42.
Insufficienza dei servizi di assistenza all’infanzia (asili nido), scarsa adozione dei contratti part-time, eccessiva durata dei congedi di maternità e discriminazione salariale, sono tra le cause candidate a spiegare la bassa occupazione femminile nel Bel Paese.
Recentemente però gli economisti, usciti dall’orizzonte ristretto dell’homo economicus, hanno anche guardato a risposte che non rientrano nei paradigmi dell’economia neoclassica, perché legate a comportamenti “irrazionali”. L’importanza di fattori “emozionali”, quali la cultura, i valori, le idee, nelle scelte individuali, ha ricevuto nuova dignità nella ricerca economica.
E allora viene il sospetto che in Italia una parte degli alti livelli di gender-gap possa essere spiegata da queste componenti “emozionali”: da un marito che attribuisce alla donna il ruolo di “angelo del focolare”, da una madre lavoratrice tormentata dai sensi di colpa per non prendersi sufficientemente cura del figlio.
In Italia, nel 1999, all’affermazione “Essere casalinga è altrettanto soddisfacente che svolgere un lavoro retribuito” si è dichiarato d’accordo il 55% degli italiani. L’81% concordava con l’affermazione “I bambini in età prescolastica soffrono di più quando la madre lavora”, mentre il 27% ha risposto positivamente al quesito “Quando il lavoro è scarso gli uomini dovrebbero avere più diritto a lavorare rispetto alle donne” (una percentuale apparentemente bassa, ma comunque superiore alla media di accordo nei Paesi dell’Europa a 15)3.
La distribuzione territoriale di queste percentuali di accordo nelle province italiane riflette in modo abbastanza fedele l’eterogeneità del tasso di occupazione femminile. Test statistici confermano l’esistenza di un’alta correlazione tra la “cultura di genere” in ciascuna provincia e il rispettivo livello di gender-gap nel mercato del lavoro. Ovvero, il fatto che le donne in alcune regioni italiane godano di maggiori opportunità occupazionali rispetto a quanto accade in altre aree del territorio, è in parte spiegato da un sostrato culturale più favorevole ad un ruolo attivo della donna nella società. Ci sono molte aree del Sud d’Italia dove pregiudizi ancestrali sulle differenze di genere non sono ancora stati superati: la condivisione degli incarichi domestici e di cura dei bambini tra marito e moglie è inesistente, e allora la donna non può conciliare i suoi doveri di moglie e madre con quelli di lavoratrice; la fiducia nelle capacità e possibilità della donna di competere alla pari con gli uomini nel mercato del lavoro è bassa, e allora le ragazze tendono a istruirsi senza però aspirare a una realizzazione professionale che capitalizzi il loro investimento in capitale umano.
Da dove vengano queste differenze culturali tra le diverse aree territoriali della Penisola italiana, e quali siano gli strumenti di cui la politica dispone per potersi confrontare con queste diversità, sono quesiti fondamentali per una maggiore coesione del Paese, non solo nel territorio delle differenze di genere ma nell’insieme del suo sviluppo economico e civile.
Nel caso specifico del gender gap, i risultati messi in evidenza propongono nuove aree di intervento per favorire l’occupazione femminile, che agiscano in modo più capillare sul territorio, tenendo conto delle differenze che caratterizzano le province italiane. Laddove la popolazione è propensa a riconoscere l’importanza della presenza delle donne nel mondo del lavoro al pari di quella degli uomini, e a non credere alle conseguenze negative della stessa per il benessere della famiglia, le istituzioni devono insistere nelle politiche di facilitazione della conciliazione di lavoro e vita familiare; la promozione presso le imprese del lavoro part-time e la diffusione sul territorio di asili d’infanzia sono tra le misure risultate più efficaci nel resto d’Europa. Nelle province in cui invece si osservano maggiori resistenze a vedere nella donna un soggetto attivo nel mondo del lavoro, al pari dell’uomo, le forme di intervento devono essere diverse; è necessario capire innanzitutto se sia utile e giusto tentare di modificare il tessuto culturale esistente, e concepire gli strumenti più idonei a farlo. La scuola, come luogo di istruzione ma anche di socializzazione e confronto, è una delle sedi di promozione di un’idea di uguaglianza nelle opportunità tra i due generi. Sarebbe importante individuare metodi di intervento in grado di diffondere nuove forme di divisione del lavoro nella vita domestica, in cui il padre si assuma le responsabilità di genitore tanto quanto la madre; anche in questo caso una formazione che educhi indistintamente bambini e bambine alla collaborazione domestica sin dalla prima infanzia sarebbe ottimo viatico di una cultura di genere più matura.
Il rischio è che, in presenza di un sostrato culturale deficitario, gli interventi istituzionali volti a favorire il lavoro delle donne diventino un’arma contro lo stesso. Basti pensare alla legge che prevede la possibilità, in Italia, di rimanere a riposo dal lavoro durante tutti i nove mesi di gravidanza nel caso in cui questa sia a rischio. Le alte percentuali di donne che beneficiano di tale provvedimento sono state additate da alcuni imprenditori come fenomeno disincentivante le assunzioni di figure femminili. Il sospetto è che tante lavoratrici “abusino” della previsione legislativa, vuoi per scarso “attaccamento” al lavoro, vuoi per eccesso di impegno domestico, che riduce al minimo le energie disponibili nel periodo di gravidanza per adempiere anche agli obblighi lavorativi. Tanto un’abitudine a percepire il lavoro come fonte di realizzazione personale, più che come “condanna” da cui fuggire non appena sia possibile farlo (le condizioni di lavoro devono favorire questa “percezione”), quanto una maggiore condivisione delle responsabilità domestiche all’interno della famiglia, possono correggere cattive tendenze del tipo sopra evidenziato. In tal caso la previsione legislativa opererebbe seriamente come strumento protettivo delle donne, piuttosto che come fonte di discriminazione delle stesse.
La conclusione importante è che l’esistenza di un sostrato culturale adeguato è condizione necessaria perché ogni misura di tipo economico-istituzionale in favore dell’occupazione femminile possa realizzare gli scopi per cui è stata concepita. Intervenire su una componente tanto resistente e radicata come la cultura è impresa ardua e controversa; ma è in gioco la valorizzazione di tanto capitale umano di cui le donne italiane sono portatrici e di cui il nostro Paese ha bisogno; è un gioco che vale la candela!
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Note:
1) La fonte di tutti i dati sul mercato del lavoro citati nel presente articolo è ISTAT: www.istat.it
2) Il tasso di occupazione femminile (15-64) nelle province citate è uguale a: Venezia 50%, Belluno 61%, Caltanissetta 24%, Messina 36%.
3) Fonte: World Values Survey
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PER SAPERNE DI PIÙ:
Fernàndez, R. (2007), Women, Work and Culture. NBER Working Paper No. 12888. Cambridge, MA: NBER, February.
Fernandez, R. (2006), “Culture and Economics”, mimeo NYU
Guiso, L., P. Sapienza, and L. Zingales (2005) “Does Culture affect economic outcomes?” Journal of economic perspectives 11, 299-304.
Inglehart, R. (1997) “Modernization and Postmodernization: Cultural, Economic and Political Change in 43 Societies” Princeton: Princeton University Press.
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Credo sia questo il cardine dell’articolo:
“La conclusione importante è che l’esistenza di un sostrato culturale adeguato è condizione necessaria perché ogni misura di tipo economico-istituzionale”
il problema è che un sostrato culturale, per citare una famosa legge della termodinamica, non si crea nè si distrugge. Quindi le cose rimarranno così ancora a lungo, a mio parere.
Comunque complimenti alla coppia di economisti
grande pammmi
l’articolo è meraviglioso!
quello della parità di trattamento e delle pari opportunità tra uomo e donna sul lavoro cositutisce uno dei problemi (ancora aperti) del diritto del lavoro..ed è incontestabile che alla soluzione si debba arrivare per approssimazioni successive dal momento che essi richiedono innanzitutto un profondo cambiamento nella cultura prima ancora che nella politica legislativa di un certo sistema sociale..
ma non si può negare che non pochi passi sono stai compiuti in questa direzione (soprattutto grazie al diritto comunitario..)..basti pensare che fino agli anni 60-70 erano presenti clausole contrattuali che prevedevano la risoluzione del rapporto lavorativo in conseguenza del matrimonio o il licenziamento in caso di gravidanza..
ha ragione però William..prima di giungere ad una ‘parità sostanziale’ dovrà passare ancora del tempo…
william ha più che ragione. come del resto hai ragione tu a ricordare i passi avanti fatti grazie a previsioni legislative che suppliscono alle carenze della nostra cultura di genere. il problema è che la legge ha gioco più facile nell’intervenire a livello “macro” (pensa alle quote rosa in politica) o nel cercare di modulare i comportamenti all’interno delle imprese (legge contro il licenziamento, appunto). invece diventa difficile entrare tramite il diritto tra le mura domestiche, cambiare gli equilibri che esistono all’interno di una coppia, dove c’è una sorta di “bargaining” tra marito e moglie per la divisione dei compiti in casa e per la cura dei figli. è lì a mio avviso che si annida la sfida più grossa. perchè non è possibile varare una legge che prescriva “uomo e donna devono ugualmente contribuire al lavoro domestico”, oppure che assicuri che “i bambini non soffrono se la madre lavora”. bisogna creare gli incentivi giusti per creare i comportamenti desiderati, non imporli. e la portata di un’operazione del genere è immane.
un grande problema per esempio è la tendenza delle madri italiane (e ancor di più di quelle meridionali) ad essere mediamente più apprensive nei confronti dei figli rispetto alle altre donne in europa. il rapporto dell’istat “essere madri in italia” porta alla luce la condizione di molte donne italiane che dichiarano di sentirsi in colpa perchè lavorano e dedicano poco tempo ai figli. Un bel paper di Fernandez-Fogli (2007) mostra come le donne “rivedano” queste loro credenze nel momento in cui possono confrontarsi con altri modelli positivi di madri che lavorano e vivono dei rapporti sereni con i figli. esiste la possibilità di contagio, insomma. è difficilissimo “aggiornare” la cultura avete ragione, si tratta di trasformazioni che operano su tempi lunghissimi, ma non siamo senza speranza. e proprio perchè i tempi saranno lunghi prima si prende in considerazione questa dimensione del problema meglio sarà per tutti!
Complimenti davvero.
La questione, in ogni caso, è molto complessa, ma ciò non giustifica l’immobilismo. Effettivamente si parla di tempi lunghi, vere ere geologiche per la politica, capace di navigare a vista, in un mare di nebbie ed incertezze, con orizzonti temporali dell’ordine di poche settimane. Tanto che, anche supposta la volontà di intervenire a sostegno della parità (elemento non scontato, conoscendo le resistenze familiste/tradizionaliste di gran parte dell’arco parlamentare italiano), si dovrà vedere quale potrà essere l’effettiva capacità di un governo di intervenire a riguardo. Intendiamoci, il sostrato culturale non si crea né si distrugge, ma è tutto fuorché immutabile. Tempo fa si è capito che ogni tradizione non è altro che un’invenzione, che anche il rito più antico, nel cercare di rimanere uguale a se stesso, si modifica inevitabilmente. Seppur lentamente, le cose cambiano e sono destinate a cambiare. Bisogna vedere quanto tempo si perderà, prima di capire in che direzione si sta andando.
Voi però sottovalutate un aspetto importante della questione. I “progressi” degli ultimi 30-40 anni non vengono esclusivamente da leggi sociali, ma soprattutto da cambiamenti economici. Voi sottovalutate la componente “uno stipendio non basta più”, cioè.. la donna lavora per necessità o per piacere personale?
Io sinceramente, se potessi e se avessi un figlio, gli starei dietro come una mamma del sud italia.
Credo che in un mondo utopico nessuno lavorerebbe: Adamo ed Eva se ne stavano tutto il giorno a mangiare sotto gli alberi..
william sbrega,
A) troviamo interessante lo spunto nella prima parte del tuo
intervento, perchè tocca una questione fondamentale nel “viaggio tra economia e società”, quello di “cosa determina cosa”.
nell’articolo successivo a questo sul gender-gap accenniamo al problema della “casualità”, che può andare nei due sensi 1. Cultura —->
Outcomes Economici, ma poi anche 2. Outcomes Economici (“Cambiamenti” nel
tuo intervento) —-> Cultura.
Torrente di Fuoco (..) direbbe “l’uomo è ciò che mangia, è un tubo
digerente”. L’ipotesi alternativa quindi è che non sia la cultura
a portare le donne a lavorare di più, ma piuttosto siano i cambiamenti economici a causare un aggiornamento dei beliefs.
gli economisti chiamano questo problema “endogeneità”, e quelli seri adottano degli appositi strumenti statistici per accertarsi che
quella che stanno catturando sia una variazione “esogena” della cultura.
non sarà mai in ogni caso risolvere il dilemma marx vs weber
inoltre tu sembri parlare direttemante di scelte delle donne, e non hai in mente beliefs e preferenze (che sono misurate dai sondaggi) ma direttamente le scelte (che nella tua idea sono causate da altro, non dalla “cultura”)
allora la tua critica è forse più vicina all’idea che mancano variabili di controllo
insomma osservo tante cicogne e tanti bambini, o se le son portati nel fagotto, oppure manca qualcosina nel modello eh eh
in realtà queste sono solo intuizioni, la questione non è così semplice, e poi ci sono diverse possibili soluzioni in letteratura
ma sarebbe lunga
in ogni caso hai colto nel segno
B) invece sull’affermazione “se potessi e se avessi un figlio, gli starei dietro come le mamme del sud italia” invece, ci
sentiamo di commentare ulteriormente in un senso diverso dal tuo
in brevis
1)in generale noi giovani dovremmo auspicare ad una società in cui ognuno impieghi il proprio tempo “al margine”,
dando alla società quello che sa fare meglio (se una donna ha studiato ingegneria la società vorrebbe che facesse quel mestiere). oggi in Italia le donne sono una risorsa spesso sprecata, visto che sempre più ragazze raggiungono livelli di istruzione elevati.
cio’ non significa che debbano lavorare sempre, nè “esternalizzare i sentimenti”.
semplicemente potrebbero trovare conveniente usufruire di un determinato set di servizi
(childcare, per citarne uno) e utilizzare appunto il tempo e le energie liberate per fare quello in cui si sono specializzate.
2)ci crediamo che tu staresti dietro a un figlio come una mamma del
sud italia. ma per quanto tempo? lo faresti sempre? sarebbe ottimale per
la società?
3)dando uno sguardo ai dati c’è comunque un problemino.
supponiamo che vogliamo prenderci davvero più cura dei figli.
perchè a siracusa su 100 lavoratori solo 27 sono donne? se la “vicinanza” ai bambini ci sta tanto a cuore
allora ci aspetteremmo 50 donne e 50 uomini al lavoro, e 50 donne e 50 uomini a casa a fare i genitori.
4)supponiamo che vuoi stare a casa con tuo figlio, e poi un bel giorno quando lui è grande e va a scuola, ha i suoi amici, i suoi interessi, tu ti stanchi e decidi di voler lavorare. in una società sviluppata dovresti avere il DIRITTO di farlo, senza che nessuno, che sia la tua compagna di vita o un imprenditore, ti discriminino sulla base del tuo sesso. in una società sviluppata ci deve essere uguaglianza di opportunità, perchè ognuno abbia la libertà di scegliere la vita che più gli piace. “development as freedom” è la grande idea con cui amartya sen ha rivoluzionato il concetto di sviluppo. è una società ideale, irrealizzabile, ma a cui la realtà dovrebbe sempre tendere. e allora diamo alle donne
che vogliano lavorare la possibilità di farlo, poi sceglieranno loro, e non i mariti o i datori di lavoro, se stare a casa con i figli oppure no!