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La grande macchina di Sorrentino

4 giugno 2013
Pubblicato in Segnalazioni
di Anna Caterina Dalmasso

Ogni film di Sorrentino ha la caratteristica di plasmare un mondo, levitra un universo a sé, mind irreale e allo stesso tempo coerente, view immaginario ma abitato da un’armonica logica interna – il calcio, la mafia, la politica, l’America. A questi microcosmi stilizzati si aggiunge ora l’Italia, o meglio, Roma. Ma questo mondo, quello reale così come quello immaginario, è pieno di crepe. L’amarezza di una generazione piena di buone intenzioni che vive la propria decadenza psicologica e fisica. La grande bellezza rappresenta la crisi di mezza età – sì, perché oggi la crisi di mezza età si ha a 65 anni – di un intero Paese (non c’è botox o risanamento del debito che tenga).

Tuttavia questo mondo è stato già smascherato, da altri film – da Caterina va in città a To Rome with Love, passando per Boris e Reality – e forse si è smascherato da solo. Allora, per non essere troppo didascalici – e il rischio è sempre dietro l’angolo –, non resta che indagare i clichés di questo mondo, i codici rappresentativi e i codici critici, per mostrare un universo talmente cinico e blasé che si confonde perfettamente con quell’altro mondo che in teoria biasima, in realtà sorregge e ne è sorretto. Detto altrimenti, che senso ha “fare cultura” in Italia, se la cultura è un parlarsi addosso pieno di buone intenzioni? Tuttavia una risposta non arriva, o meglio, ne arrivano molte, ma nessuna convincente. Niente tiene, né l’amore, né i soldi, magari la fede, se ce n’è una, il ricordo della giovinezza e la presenza di pochi vecchi amici, che di quella giovinezza siano stati testimoni. Se da ogni parte si è parlato di un film felliniano, allora in questo Satyricon, in questa Dolce vita, in questo Casanova, forse c’è troppo amarcord.

Difficile fare film per “lo zoccolo” – come dice Jep Gambardella, quello zoccolo di pubblico che non si fa abbindolare. Allora se la caricatura non basta, andiamo oltre, portiamola ai suoi eccessi, facciamo sconfinare i modi di rappresentazione sulla rappresentazione: facciamo sentire il vuoto. Da qui la struttura a singhiozzo del film, colma di effetti de-rappresentativi: una colonna sonora estraniante perché datata, una fotografia altalenante che scambia realismo e irrealtà, un ritmo narrativo che sembra sempre decollare ma che si arena in continuazione.

Si alternano così a sprazzi dei tentativi di comprensione del senso della vita, la ricerca di una spontaneità e di una freschezza perdute, e il cinismo radicale, un cinismo onesto – tipicamente italiano – che nel guardare il proprio fondo ritrova simpatia per la vita. Persino il product placement sembra debordare sulla diegesi – arriviamo a fissare uno spremiagrumi, solo in scena, per diversi secondi – ed entra a far parte del sistema dei personaggi, delle conoscenze, delle produzioni, delle scritture.

Però, nell’ebbrezza e nell’esuberanza dei mezzi di produzione, lo stile intimo di questo microcosmo stenta a prendere forma, resta soffocato e oberato dai dolly, dalle locations, dai cammei. Resta una grande e pesante macchina che esibisce se stessa. Fellini sembra trovarsi poco a suo agio con il green screen e l’elaborazione digitale. La giraffa non sparisce perché non è mai stata lì. Forse dobbiamo ancora imparare a credere a quello che vediamo.
 



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