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Collezionismo e memoria in un film di Olivier Assayas

9 giugno 2008
Pubblicato in Opinioni
di Giovanni Biglino

In apertura vediamo una coppia di Labrador e tanti bambini che corrono nel parco di una grande casa di campagna (tipicamente francese). Una famiglia riunita per il settantacinquesimo compleanno della matriarca, prescription Hélène, search una signora secca ed elegante. I suoi figli si ritrovano, see in un clima rilassato e confortevole: Frédéric, professore di economia a Parigi alle prese con la promozione del suo libro, Adrienne, designer tra New York e Tokyo, e Jérémie, responsabile di produrre “les baskets Puma” in Cina. E con loro ci sono mogli e figli e il ricordo dello zio di Hélène, Paul Berthier, pittore celebre dal quale Hélène ha ereditato una collezione importante. Nel clima della festa si insinua una vena di malinconia: prendendo da parte Frédéric con un pretesto, la madre tocca il tema spinoso della sua eredità (e di conseguenza della sua morte, cosí improbabile nel giorno della festa). Elencando i mobili e i quadri piú importanti (tutto schedato e ordinato nei cassetti del tavolo Louis Majorelle) compare per immagini la storia di una vita (quella di Hélène e di riflesso dello zio Paul). Arriva il momento della partenza e vediamo (in una bellissima inquadratura) Hélène da sola seduta nel suo studio in penombra che confida alla storica governante: “Avevano la testa altrove, pensavano già alla loro partenza”.

La morte di Hélène è il catalizzatore di una serie di eventi. La casa venduta, il disaccordo improvviso tra i fratelli: pur comprendendo i problemi reciproci, Frédéric non riesce a capacitarsi del fatto che i due fratelli vogliano vendere la casa di famiglia e la collezione d’arte dello zio Paul. Frasi dette a metà, le decisioni prese con poca convinzione – Jérémie alza la voce nello studio del notaio. Compaiono cosí fantasmi di una vita che loro tre non hanno vissuto: Hélène fu davvero amante dello zio? Frédéric non riesce a farsene una ragione, mentre Adrienne quasi intrigata sorride nel constatare quanto il fratello venerasse la madre (“maman intouchable”).
La casa si svuota, i quadri vengono imballati, i carnets dello zio Paul con i loro preziosi appunti ad acquerello prendono il volo per New York dove verranno venduti pagina per pagina da Christie’s. Non resta tempo per il rimpianto: il tavolo di Majorelle è esposto all’Orsay, i vasi disposti nelle vetrine del museo.
Ma non tutto è perduto. Prima di chiuder casa definitivamente, i nipoti di Hélène organizzano una festa: le stanze vuote si riempiono di musica e di giovani, la casa-museo vive un ultimo momento di splendore. La nipote Sylvie in particolare porta il fidanzato nei campi attorno alla casa e con naturalezza racconta della nonna, della casa, dei quadri e soprattutto dei ricordi legati a quei quadri. Unico rimpianto: i suoi figli non conosceranno niente di tutto ciò. “Tu pleures?”. Il fidanzato le poggia una mano sulla spalla in un’inquadratura dolcissima presa in prestito da Rohmer – la luce calda – e si mettono a correre verso la casa.
Olivier Assayas scrive una sceneggiatura interessante, delineando caratteri complessi. Ad interpretarli troviamo un cast scelto con attenzione. Frédéric ha il volto di Charles Berling, un “habitué” dei film di Assayas (“Les Destinées sentimentales“, “Demonlover”), e nei panni di uno dei suoi figli recita suo figlio, Emile Berling. Adrienne è invece Juliette Binoche, ancora bionda da “Le voyage du ballon rouge” e un po’ maldestra – nei gesti vagamente impacciati e anche nella tematica dei rapporti familiari e delle relazioni con gli oggetti e i segreti che essi racchiudono ci ricorda Valeria Bruni Tedeschi nel suo “Il est plus facile pour un chameau” – mentre il suo fidanzato è interpretato da Kyle Eastwood (musicista, figlio di Clint). Jérémie è reso bene da Jérémie Renier nel suo ruolo di bambino di casa (il terzo dei tre fratelli che sente la pressione di dimostrare che, sí, è diventato adulto). Infine nel ruolo di Hélène, signorile nella sua semplicità, troviamo Edith Scob, già indimenticabile nel suo cammeo ne “Le temps retrouvé” del maestro cileno Raoul Ruiz in cui interpretava Oriane de Guermantes.

Ma ci sono altri personaggi nel film: gli oggetti, i mobili, i quadri. Prendono quasi vita, nelle parole dei personaggi e nelle lunghe inquadrature. Il tavolo e la vetrina di Louis Majorelle, il mobile di Josef Hoffmann, i vasi di Antonin Daum, l’argenteria danese di Georg Jensen, due tele di Corot, i pannelli decorativi di Odilon Redon (“bisogna assolutamente restaurarli”, dice Hélène, apprensiva per la sua collezione), una maquette di Degas che i bambini ruppero quando erano piccoli (“quella fu una catastrofe” ricorda Frédéric), senza contare tutti i disegni dello zio Paul, racchiusi in preziosi quaderni gelosamente custoditi da Hélène.
I ricordi come sempre affiorano attraverso i cimeli di famiglia che, oggettivamente preziosi, diventano inestimabili. “L’heure d’été” è un film piacevolissimo proprio in questi anni in cui leggiamo continuamente di prezzi folli nelle aste internazionali e se da un lato grandi collezioni private vengono smembrate (avendo citato Valeria Bruni Tedeschi, ricordiamo ad esempio l’importante vendita della raccolta di suo padre, il compositore Alberto Bruni Tedeschi, messa all’asta per beneficenza da Sotheby’s nel marzo 2007 a Londra) abbiamo l’impressione che ci sia anche una nuova generazione di compratori che manca della delicatezza di spirito (non vogliamo insinuare della cultura) che permette ad un personaggio come quello di Hélène di vivere per i suoi quadri e i suoi mobili. Come ricorda la figlia Adrienne, Hélène era in grado di “entrare nelle pitture di Paul”. Se alcune persone che affollano le gallerie di Londra o New York ci presentano tutto intero (e un po’ fastidioso) l’aspetto “modaiolo” dell’arte, il film di Olivier Assayas ci fa ritrovare il piacere delle pareti di casa, delle storie legate ai nostri oggetti e ai nostri ricordi d’infanzia.
La casa di Hélène, i quadri, i vasi, tutto è investito di quel senso magico che ritroviamo nelle pagine dei libri: possiamo pensare alle pagine dedicate ai saloni di Plessis-lez-Vaudreuil da Jean d’Ormesson in “Au plaisir de Dieu”, a Simone de Beavoir che rievoca il parco di Meyrignac nelle sue “Mémoires d’une jeune fille rangée”, e ciascuno può citare il suo romanzo preferito.
Il segreto di una collezione privata e il suo aspetto più magico sta proprio in questa antologia di cose non dette (ma vissute). È questo che rende il mercato dell’arte un mondo affascinante: la storia dei quadri ed i loro passaggi di proprietà. Ritrovandoci davanti alla “Adele Bloch-Bauer” di Klimt alla Neue Gallery di New York, ad esempio, non possiamo non pensare alle peripezie del quadro. Allo stesso modo una statua cinese con le dita spezzate o un disegno possono racchiudere infinite storie – e la magia sta poi, per chi le ha vissute, nel riviverle alla sola vista dell’opera (“la madeleine de Proust”, ancora una volta). Al di là del pregio e del valore, troviamo la fatica e il piacere di chi ha realizzato l’opera, la passione di chi l’ha voluta e i ricordi di chi l’ha vissuta.

 

 



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