Servizio Civile Nazionale: una riflessione
Pubblicato in Opinioni, Primo Piano
di Michelangela Di Giacomo
Sto tentando di capirci qualcosa di questo Servizio Civile. E più me la studio più escono dubbi. Si prendano le seguenti come abbozzi di una riflessione ancora tutta da suffragare. Andiamo con ordine. Non sono contraria ovviamente al principio che vi sta dietro che la difesa della patria non si estrinsechi solo nella difesa dei suoi confini e che l’esercizio della cittadinanza non possa risolversi esclusivamente nell’ubbidienza cieca ad ordini superiori. La patria come ambiente, pills territorio, look popolazione, rx cultura, storia e istituzioni è senza ombra di dubbio un concetto cui non ci si può non dire d’accordo. E la difesa dell’idea che uccidere un presunto nemico – per lo più peraltro fuori del nostro territorio nazionale, vista la palese assenza di guerre d’invasione dal ’45 ad oggi – non sia certo una forma per affermare l’interesse del proprio Paese. Detto ciò, mi chiedo quali poi siano le derive pratiche di un’istituzione che pure aveva dei presupposti largamente positivi. Come quasi tutte le istituzioni con un forte connotato ideale, teorizzate per lo più nel dopoguerra da uomini con una profonda visione del futuro e con scarso realismo, anche il servizio civile credo che abbia preso in Italia una piega tutt’altro che edificante.
Dai pochi dati che ho avuto modo di vedere, il panorama è già chiarissimo. L’Ente nazionale si vanta di una progressiva crescita delle domande per questo tipo di volontariato patriottico, ma non nota la relazione di proporzionalità inversa tra la diminuzione del senso di appartenenza nazionale e il boom delle richieste. Mentre sempre più si metteva in dubbio (fine anni ’70 e tutti gli anni ’80) il senso di collettività nazionale, dilagava la corruzione e si radicava un marcato individualismo, tanto più aumentavano le richieste per sfuggire a quel servizio militare progressivamente più inviso. Quanti obiettori di coscienza manifestavano realmente una forte propensione alla non violenza e quanti invece si limitavano a voler scansare un impegno troppo gravoso da prestare per uno Stato che sempre più si percepiva lontano e indifendibile? In un mondo in cui sempre più si affermava l’idea che l’espressione della personalità di ciascuno e di qualsiasi inclinazione individuale fosse superiore a qualsiasi forma di coercizione – e tanto più a fronte di fortissime distorsioni nel mondo militare con le diffusissime forme di nonnismo e di esasperata violenza molecolare – l’obiezione di coscienza non diventava in qualche modo una scappatoia per non sanare le seconde e per non educare all’idea che qualsiasi organizzazione sociale implichi una qualche forma di rinuncia al sé come valore assoluto?
Se poi l’apice delle richieste si è avuto negli anni ’90, parallelamente cioè al diffondersi dei segnali di stagnazione del nostro sistema economico, non dobbiamo chiederci quanto il SCN non sia diventato un metodo come un altro per sopravvivere un anno, una specie di sussidio di disoccupazione o di parcheggio (per lo più non a caso svolto da neo-diplomati) in attesa di tempi meno duri? Non è dunque un segnale di crisi dell’organizzazione di un mercato del lavoro che rende sempre minori le possibilità di accesso per le fasce anagrafiche più basse? E il fatto che le più alte percentuali di partecipazione si abbiano in Sicilia, Calabria, Campania e Lazio, non dovrebbe farci pensare che il SCN contribuisce a segnalare quelle distorsioni del modello economico e sociale che l’Italia non ha mai saputo sanare e che tendono invece ad aggravarsi? Senza voler gridare per forza al rigonfiamento del terziario e del settore pubblico nelle regioni centro-meridionali e all’uso clientelare di queste forme di assistenza mascherate da lavoro, il dato è comunque emblematico della percezione del lavoro diffusa in una leva giovanile che non vede possibilità di sbocco professionale nel primi due settori – spesso trovandosi di fronte alla antica scelta emigrazione/sussistenza.
E che siano in larghissima maggioranza donne le volontarie del SCN non è indice di un’impossibilità per il genere femminile di entrare per altre vie nel mercato del lavoro e di collocarvisi in forme non marginali, dovendo viceversa ricorrere a ogni tipo di escamotage per garantirsi delle forme di indipendenza economica e sociale? E che oltre a doversi accontentare di situazioni lavorative scarsamente remunerative, esse siano sostanzialmente emarginate nei settori del sociale, del culturale, del volontariato al pari di quanto teorizzato dall’immagine della donna di due secoli di egemonia culturale di una borghesia profondamente vittoriana il cui permanere nel XXI secolo dovrebbe farci soffermare a riflettere?
Se poi la difesa del patrimonio culturale, artistico, ambientale e sociale del Paese è considerato un’attività patriottica di tale portata da necessitare una nazionalizzazione e una mobilitazione delle masse imponente, perché lo Stato non investe risorse adeguate a garantire agli enti che di tale patrimonio si prendono cura di poter assumere stabilmente il personale necessario a tale tutela remunerandolo al pari del valore della prestazione fornita? Ossia: se davvero lo Stato ha necessità di guardiaboschi, di archivisti, di assistenti sociali, perché non assumerli – magari in numero minore ma per un monte ore e per un salario degni del compito che essi svolgono per la collettività? Non assume dunque il SCN, in un sistema economico bloccato e stagnante, la funzione di una distribuzione a pioggia di esigue risorse – un “attendamento cosacco” del nuovo millennio per dirla alla De Felice –, di un ennesimo tentativo di tamponare come possibile le evidenti ragioni di conflittualità sociale (sospetto aggravato dall’istituzione di bandi speciali per Napoli e per le aree colpite dal terremoto dell’Aquila) e, infine, di una forma di sfruttamento organizzato dallo Stato nel quadro di quelle politiche volte ad abituare le future leve lavorative alla rassegnazione e alla sottomissione a forme di lavoro precarie che vengono fatte percepire quasi come un privilegio per il quale essere riconoscenti piuttosto che come un diritto. Il crescendo di progetti ad opera di Enti non governativi ed amministrazioni locali, infatti, non sembra tanto emblema di una volontà sociale di quelle stesse istituzioni ma un grido di aiuto di chi si vede arrivare risorse decrescenti ad aumentate spese per svolgere adeguatamente il proprio ruolo. Emblema cioè di un sistema paese che non ce la fa a sopravvivere senza ricorrere al volontariato – nobile tradizione italiana ma da sempre suppletivo di una cronica assenza di capillarità delle istituzioni.
Viene infine da chiedersi perché, se il servizio civile è uno strumento indispensabile per educare i giovani all’esercizio del principio costituzionale della solidarietà sociale, esso non sia reso obbligatorio e viceversa si basi sulla volontà di quanti, evidentemente, già sono pienamente consapevoli di quel principio – a voler considerare appunto in buona fede i giovani che fanno richiesta per tale servizio. Ossia, se il SCN non è solo un modo come un altro per guadagnarsi qualche lira con il minimo sforzo, ma davvero sottende un forte spirito di solidarietà sociale in quanti vi si prestano, i volontari evidentemente non hanno bisogno di un’ulteriore educazione a quella cittadinanza attiva di cui già son consapevoli. Se, viceversa, tale buona fede non v’è, questa assenza sarebbe una ragione in più per imporre un periodo di formazione a tutta una generazione che di senso dello Stato sembra averne sempre meno e sempre più cerca le forme di sfruttare quello Stato e le sue risorse per la propria individuale sopravvivenza.