Niente bagaglio a mano, ampoule ask questa volta. Niente code al check-in, viagra sale né odore asettico di aeroporto. Niente business class o economy per questo viaggio, diagnosis né pasti riscaldati impacchettati in scatole di plastica.
Abbiamo scelto di raggiungere la Turchia in treno per permetterci la rilassatezza di quel viaggio che l’aereo non ti regala. Un’idea corsara, passata di moda, il gusto del viaggiare come spostamento, come movimento più che come meta, la sofferenza di lunghe, spesso scomode ore che sono preludio di soddisfazioni maggiori, più bella la meta quando è guadagnata. Il treno ti fa sentire viaggiatore molto più che turista, e trasmette il senso effettivo dello spostamento, permettendo a chi si muove di rendersi conto delle distanze, di avvicinarsi cautamente alla meta abituandosi al diverso, a nuovi sapori, nuovi odori e nuovi paesaggi lungo la strada. E allora Istanbul non è più a due ore di volo, intervallate da due ore di asettici non-luoghi aeroportuali. Istanbul è quattro giorni di viaggio, e tutto il paesaggio che c’è intorno permette di percepirne l’avvicinarsi nell’aria, negli odori, nei colori della terra e nel profilo dell’orizzonte, prima di riuscire a conoscerla, ad incontrarla direttamente.
Già dal finestrino del treno che dalle periferie romane ci fa scivolare fino a Bari si srotolano immagini di campagne sempre più piatti, scompaiono i profili ondulati dei Monti Lepini per lasciar posto ad interminabili distese pianeggianti dove lo sguardo si perde. Da Bari prendiamo una nave che ci culla fino a Igoumenitsa, scendiamo in un’alba greca dove abbiamo difficoltà anche solo a capire in che zona del mondo siamo. Nell’alba tutto si mescola e si confonde e ogni luogo diventa altro da se stesso. Riusciamo a perderci tra le viuzze di un Paese che vedremo solo per pochi istanti e finiamo per farci rubare dieci euro da un tassista che probabilmente, vista la nostra stanchezza, non ci pensa due volte ad allungare il giro per portarci alla stazione dei treni. Ma i treni in Grecia non funzionano, almeno non nel nord del Paese, troppo montuoso per poter essere attraversato da binari. Optiamo allora per un autobus che ci fa dondolare dolcemente per troppe ore, tra le cime dei Monti Rodopi. Fuori la temperatura scende bruscamente, l’alba ha lasciato il posto ad un sole grigio e la musica folk greca ci impedisce il sonno dei giusti. Siamo costretti a restare svegli. Ci immergiamo nella lettura dei viaggi di Ibn Battuta, il Marco Polo arabo, e finiamo per addormentarci sognando la Turchia di ottocento anni fa. Ma il sogno dura poco e ci sveglia un burbero autista greco che ha tutta l’aria di aver finito la sua ultima corsa e di voler tornare a casa.
Siamo a Thessaloniki, ci rendiamo conto che Istanbul è ancora lontana, e il viaggio in realtà deve ancora iniziare. Ma già il treno ci ammalia col suo andare ritmico, e la mezzaluna smerigliata sul vetro del finestrino ci consola, è una speranza, un’idea, un sogno. Il treno ondeggia sui binari in questo trasandato, ipotetico Orient Express. Dopo una notte insonne fatta di svariati controlli di passaporti – mai scherzare con i doganieri turchi dall’aria severa e grandi baffi bianchi – la vera consolazione è il paesaggio. Non è più Europa e non è più Grecia.
Ad Edire incontriamo il nostro primo minareto, e questa scoperta ci riempie di entusiasmo. Niente di bello in realtà, una piccola costruzione in legno bianco e verde. Ma è un altro segno che fa presagire qualcosa di nuovo, che l’Europa si allontana e l’Oriente, quell’oriente solo immaginato, si sta avvicinando. Questo è un viaggio fatto di presagi, di segni, di indizi.
Fuori corre la brulla campagna turca. Immagini ancestrali, paesaggi dimenticati. Un bambino sui dieci anni tiene al pascolo un gregge di pecore sotto un albero e resta immobile al passaggio del treno, ci guarda fisso negli occhi, il tempo che questo treno lentissimo scompaia all’orizzonte. Una stazione che è una lingua di terra battuta fra le sterpaglie. Poi ancora sterminata, pianeggiante campagna. Infine il treno rallenta, e siamo ad Istanbul.
Usciamo dal vagone stanchi, sporchi, frastornati, e la città ci risucchia con il suo traffico di automobili in coda, clacson, odore di smog e di Kebab. Dobbiamo avere l’aria talmente spaurita che un uomo gentile ci si avvicina e ci accompagna a cercare un posto per la notte. Solo a questo punto ci rendiamo conto di dove siamo, finalmente “vediamo” Istanbul. Donne e uomini di ogni colore e razza e lingua e religione invadono i marciapiedi, turisti occidentali pantaloncini e T-shirt, vaporose ombre nere coperte di un lungo velo dal quale si intravedono occhi disegnati con Kajal e rimmel. La città è un crocevia di culture e di storia, è luogo dove l’oriente e l’occidente si fronteggiano e si mescolano costantemente: Aya Sofia è separata dall’immensa e meravigliosa Moschea Blu da un piccolo parco, la costa europea e quella asiatica sono distanziate solo da una lingua di mare larga poco più di cinquecento metri. Istanbul, in cui si finisce, passeggiando per il Gran Bazar, per accettare infinite tazze di the servite in bicchieri a forma di tulipano ed uscire dal negozio con qualcosa che non si pensava in grado di acquistare. Istanbul è città di frontiera, è quel cartellone giallo sulla sponda orientale del Bosforo che annuncia, satirico, “benvenuti in Asia”. Istanbul è continenti che si mescolano, così beatamente sdraiata tra l’Est e l’Ovest. Istanbul è il richiamo dei Muezzin che ti sveglia la mattina troppo presto e ti rincorre per le viuzze della città, ovunque cerchi di nasconderti, ti segue con il suo suono lamentoso e si mescola alle grida dei venditori della strada, dei barcaioli che, sulle sponde del corno d’Oro, preparano immense grigliate di pesce appena pescato e si perdono nel fumo denso della brace. Istanbul è una città che incanta e affascina. È i suoi hammam, i suoi vapori e le sue confidenze troppo segrete. Istanbul se non stai attento ti rapisce e ti fagocita nel suo immenso stomaco fatto di oltre 12 milioni di abitanti, come ha fatto con tanti Europei venuti qua prima di noi e poi rimasti incantati dalle sue vie, dalle sue case di legno con i balconi come letti a baldacchino, dagli odori di spezie e dalla dolcezza dei suoi tramonti sull’acqua del mare che si fa d’oro quando riflette gli ultimi raggi.
E allora ci riposiamo, dopo questo interminabile viaggio. Bevendo rakia, il mio compagno di viaggio fantastica di un altro futuro, possibile viaggio in treno, chissà, o in bicicletta, un po’ più a Est questa volta. Forse solo per fare finta che questo lento modo di viaggiare non si fermi qui, alle porte dell’Oriente.
Cara Chiara… come ti ho già detto per email, complimenti per il tuo articolo bellissimo. Credo anch’io che certe forme di viaggio vadano riscoperte, e il viaggio in treno verso Oriente è un qualcosa che ti invidio un sacco. Continua a scrivere per noi, sarà sicuramente apprezzato da tutti.
Ciao Chiara è stato affascinante leggere il tuo articoletto. Io dovrò fare lo stesso tragitto verso Istanbul e vorrei chiederti alcune info tecniche sul viaggio, e più esattamente sul treno che da Salonicco porta a Istanbul…é necessario prendere le cuccette con i letti? tu come ci consigli di viaggiare? E’un treno tranquillo? Grazie mille. Alice