Sentiamo spesso parlare di Paesi in via di sviluppo, shop sotto-sviluppati o Terzo Mondo sono ormai termini desueti, per indicare nazioni altre rispetto all’Occidente. Se crediamo, come Nanni Moretti, che le parole siano importanti, è interessante chiedersi da dove derivi questo modo di riferirsi al Sud del Mondo (altra perifrasi interessante).
Forse non tutti sanno che il termine sotto-sviluppo, in Inglese underdevelopment, è stato coniato in questo senso il 20 gennaio 1949. In quell’anno il presidente americano Truman, nel suo discorso inaugurale, definì underdeveloped metà della sfera terracquea e proclamò che fosse dovere dell’Occidente (USA in primis) aiutare queste nazioni ‘to catch up’, a mettersi in pari. Escobar ed Esteva sottolineano come quest’uso del termine development (e underdevelopment) abbia da quel giorno diviso il mondo in due parti: sviluppato e no. Il termine sotto-sviluppato diventa così un aggettivo comparativo (e dispregiativo): bisogna svilupparsi, insomma!
Quanto e cosa fosse questo sviluppo, questo mettersi in pari, fu ovviamente definito su standard occidentali di tipo economico, esemplificati in parametri quali prodotto interno lordo e reddito pro-capite. Le specificità locali di tipo ambientale, economico o socio-culturale, non erano (e spesso non sono nemmeno ora) minimamente prese in considerazione. Lo sviluppo è concepito come un traguardo su una linea retta che conduce a uno stato omogeneo, incarnato dal capitalismo occidentale. Deviazioni e variazioni sono considerate difetti da correggere. Infatti, il termine sotto-sviluppo indica una mancanza da colmare. Ovviamente l’Occidente ha tutti gli strumenti necessari, e la conoscenza (altro termine da decostruire), per aiutare i sotto-sviluppati a superare le proprie difficoltà. Così, se volessimo esagerare in volontà di definizione, potremmo dichiarare il 20 gennaio 1949 come data di nascita di quell’idra a cento teste che in inglese si chiama international development e in italiano cooperazione internazionale allo sviluppo (suona più innocuo).
Il punto che mi sto sforzando di mettere in luce è quanto la necessità dello sviluppo sia pretestuosa e dettata da un punto di vista discutibile il quale, tuttavia, appare investito di una luce quasi soprannaturale perchè incastonato nella sfera semantica dell’aiutare, dell’assistere, in odor di religione e moralità. Esso è in realtà un’imposizione, di significati prima ancora che di politiche e interventi. L’univocità del termine divide effettivamente il mondo in due e non lascia ai sotto-sviluppati altro che la possibilità di aprire bene le orecchie per imparare come affrancarsi dal proprio stato indesiderabile.
È questa concezione dei sotto-sviluppati come senza risorse, come irrazionali e ignoranti (nel senso che non sanno) che porta alla teorizzazione dell’assistenza come imperativo di azione. E chi può assistere se non le nazioni occidentali che hanno saputo realizzare le magnifiche sorti e progressive al grado più alto? Ecco di nuovo la solfa del white man’s burden (fardello dell’uomo bianco) di Kiplinghiana memoria. L’occidente insomma, si è riservato il ruolo di giudice e salvatore: identifica bisogni e propone soluzioni. Mentendo a se stesso, oltre che agli altri: il capitalismo e il libero mercato generano ineguaglianza economica, storicamente mitigata grazie alle lotte dei lavoratori e all’istituzione di un sistema di welfare.
Il paradigma dell’assistenza quindi, comporta il perpetuarsi dello status quo: un cambiamento vero, infatti, comporterebbe il sovvertirsi dei rapporti di produzione, per scomodare Marx, gli stessi rapporti che provocano il sotto-sviluppo. L’assistenza invece è l’eterno palliativo, un globale placebo talmente radicato e ramificato da risultare naturale, ovvio, non questionabile. Senza parlare del suo potere di coinvolgere e assolvere profondamente a livello emotivo.
Nell’Inghilterra vittoriana venivano chiamati ironicamente do-gooders i rappresentanti della società rispettabile che attraverso il lavoro volontario (mutatis mutandis il concetto è lo stesso del reclutamento dei cooperanti o dei vari servizi civili, internships e quant’altro) cercavano disperatamente di salvare i poveri e miserabili inculcando nella plebe un senso di disgusto per se stessi e per la propria immoralità in modo che abbracciassero una nuova vita. Insomma, se eri una prostituta era perchè eri moralmente corrotta e non perchè dovevi mangiare o eri sfruttata e costretta a farlo (pare che anche la Carfagna sia della stessa opinione). Vale la pena notare che do-gooders è un termine ancora usato dai critici del development per riferirsi non soltanto alle persone che lavorano nel settore dello sviluppo ma soprattutto alle politiche delle istituzioni internazionali e alla loro ipocrisia che si nutre di (non) soluzioni sempre nuove.
Cara Chiara,
approvo in pieno cio´che scrivi e il fatto che, come giustamente sostieni, i concetti di development & underdeveloped siano solo creazioni di un mondo che marcia su queste differenze e troppo sovente, sottolineandole di continuo, afferma se stesso e i suoi discorsi capitalisti. Apprezzo molto il tuo articolo che e´ricercato e scritto con cura e passione, vorrei chiederti quali secondo te possono essere le soluzioni e come tu ritieni che si possano applicare senza essere dei d-gooders.
Ciao
grazie mille per il commento ciuffolo (?)… le domande che mi fai richiederebbero un’enciclopedia in risposta. io credo che il sistema sia doomed dal principio, vedi per esempio come sono state concepite le istituzioni di bretton woods, d’accordo, altro momento storico, equilibri diversi, fattostà che una riforma coerente e significativa ancora non c’è stata.
ovviamente il development ha diverse sfaccettature, alcune delle quali nascono come concetti piuttosto radicali, vedi per esempio ‘participation’ o ‘empowerment’ che derivano da un contesto di pratiche di sviluppo, ma con un preciso intento politico che è quello di sovvertire ( aka ribaltare) determinate strutture di sfruttamento. il problema è che poi questi approcci vengono assorbiti in un sistema monolitico, le cui strutture sono (per vari motivi) impermeabili a cambiamenti profondi. per esempio, come si fa a parlare onestamente di ridurre la povertà in un regime neoliberista? capisci che le parole contano eccome, ma appunto per la loro forte carica morale, spesso ci ingannano.
per ragioni che spero di poter approfondire prossimamente il fattore umano e sociale non fa parte del sistema development che si basa appunto su presupposti economici e econometrici. alla world bank si dice: ‘you need to measure it’, con il risultato che i numeri e le statistiche padroneggiano e siamo talmente abituati a pensare ai numeri come qualcosa di neutro, di oggettivo e obiettivo che non ci passa per la testa che dietro a rilevamenti statistici ci siano precisi intenti politici, precisi interessi. è, di nuovo, una questione di rappresentazione, di significati prima ancora che di fatti. detto questo, non credo che i cambiamenti non possano avvenire, anzi, ma di sicuro sono più lenti e meno omogenei di come ce li aspettiamo o vorremmo che fossero. e questo è un altro problema: la sopravvalutazione sistematica dell’impatto di certe politiche. per fare un esempio, in contesti come il medio oriente, si sente tanto parlare di costruire la società civile per migliorare le cose: ma come diavolo fai a costruire una società civile in un contesto come quello palestinese? e poi, società civile intesa come si intende in occidente, per cui partiti e associazioni laici, senza capire che in contesti musulmani le organizzazioni della società civile sono intessute in un contesto religioso, non necessariamente laico. e quindi, dal ‘nostro’ punto di vista, non vanno bene. è di nuovo underdevelopment. l’appiattimento e l’ignoranza delle specificità storiche (culturali è una parola pericolosa da usare di questi tempi) porta inevitabilmente ad una semplificazione dannosa, salvo poi chiedersi cosa si è sbagliato e reagire con interventi diversi ma magari altrettanto inutili. e la storia pesa, eccome: sapevano i belgi, quando hanno diviso gli abitanti del ruanda in tutsi e hutu che 80 anni dopo avrebbero cominciato a scannarsi? il genocidio è stato diretta conseguenza delle politiche coloniali. è per questo che trovo futile affannarsi a incasellare le diversità che ci circondano nel mondo, perchè non si fa altro che tracciare solchi sempre più profondi, senza però davvero capire cosa ci circonda. le esigenze di un essere umano, e di un gruppo sociale formato di esseri umani hanno nomi diversi, e la povertà non è solo mancanza di soldi, certo che se il nostro unico parametro è il reddito pro-capite è difficile avere una comprensione profonda e organica del fenomeno. la povertà è diventata un demonio da estirpare, da una parte, mentre dall’altra la produciamo. ed è difficile che i più poveri riescano ad avere voice (nel senso che hirschman dà al termine). e poi, c’è anche da considerare, che il tipo di development che vorremmo fosse per tutti non è comunque sostenibile.
mi rendo conto di non aver risposto alla tua domanda, probabilmente ho fatto ancora più confusione. comunque sono spunti di discussione interessanti oltrechè vitali e in più si partecipa meglio è.
a presto.
Ciao Chiara, il tuo articolo e le riflessioni sono interessanti. Mi sono laureato in Sviluppo Economico e Cooperazione internazionale (3anni) e ora sto finendo Economia dello Sviluppo Avanzata a Firenze. Il problema nasce da un utilizzo sbagliato della terminologia. Sviluppo e Cooperazione non devono più essere aiuto, assistenzialismo e solidarietà.
Effettivamente devo dire che lavorando (anche se alle prime armi) in questo settore, ritengo che sia più corretto e meno ingenuo ammettere l’interesse dei “Paesi Sviluppati” alla cooperazione e collaborazione con i PVS. L’interesse economico, politico, sociale.
Per quanto riguarda le risorse è necessario ricordarsi che sono proprio i PVS ad avere il potere contrattuale. Allora sono proprio le forme di cooperazione che riescono ad accendere quei traffici commerciali di risorse che alimentano i nostri mercati e deturpano i loro. Probabilmente non mi sono spiegato molto bene. Non mi piace parlare di cooperazione come uno strumento positivo o negativo di commercio, nuova colonizzazione, sfruttamento, ricchezza… Penso che sia necessario avere un approccio sistemico, che veda la negatività delle nuove forme di sfruttamento (ad esempio le nuove grandi piantagioni di bio-diesel in Africa, America Latina e Sudest Asiatico), ma anche le positività della nascita di rapporti di scambio di tipo sociale, istituzionale come ad esempio le buone pratiche di governance…
Insomma ci sarebbe molto da dire. un saluto
lapo
caro lapo, son d’accordo con te. infatti quello che ho scritto è se vuoi molto rigido e forse un po’ semplicistico appunto per sollevare dibattito. occupandomi di queste cose da una prospettiva antropologica ti posso solo dire che palesemente la superficie delle cose nasconde mondi complessi da approcciare appunto in maniera sistemica, come suggerisci tu. l’approccio alla escobar è consolatorio in un certo senso (‘i bianchi brutti e cattivi’) ma allo stesso tempo nega la complessità di scambi e interazioni che poi avviene realmente sul campo, nei progetti e negli incontri quotidiani. inoltre spesso si mettono in relazione direttamente NGO o organizzazioni multilaterali con le persone che vivono nei PVS dimenticandosi quanto peso abbiano gli stessi governi di quei paesi nel negoziare o accettare termini dannosi per la parte più vulnerabile dei loro cittadini. l’analisi dello stato è appunto secondo me un settore che avrebbe bisogno di approfondimento.
il fatto è che sistemi (appunto) così complessi non sono mai facili da descrivere e analizzare e spesso si cade nella semplificazione. io personalmente sono molto affascinata da tutte queste dinamiche e sempre felicissima di poterne discutere.
C.