È un freddissimo pomeriggio di dicembre, order imbiancato dalla neve caduta in abbondanza su Firenze e dintorni, quando entro al Teatro Manzoni di Calenzano, piccolo gioiello della fine dell’Ottocento, per incontrare Stefano Massini che qui è di casa. Classe ‘75, scrittore, drammaturgo e regista con un passato da attore, Stefano Massini ha fatto del teatro la sua vita, ha vinto numerosi, e prestigiosi, premi e non si è montato la testa.
Hai iniziato il tuo percorso teatrale, da giovanissimo, con la recitazione. Come sei arrivato alla drammaturgia? Attraverso quale percorso?
Io provengo da una famiglia di appassionati d’arte, soprattutto di musica lirica, quindi ho frequentato molto teatro fin da piccolo, come fruitore di opere. Mio padre poi era anche un grande appassionato di cinema, ragion per cui ne ho visto tanto. Poi, un po’ per via di queste influenze, un po’ per carattere – fin dalle scuole elementari ero il più felice di tutti i bambini durante le recite scolastiche – il teatro ha sempre fatto parte della mia vita. Fino agli anni del liceo ha rappresentato, però, un percorso parallelo alla mia vita normale; al liceo invece ho messo su un gruppo teatrale vero e proprio che ha iniziato a riscuotere successo. Durante gli anni dell’università mi sono avvicinato naturalmente a gruppi teatrali semiprofessionisti e professionisti e per un periodo ho fatto il mestiere dell’attore, anche se già da allora mi veniva spontaneo “dirigere” i miei colleghi attori e modificare un testo in maniera che funzionasse meglio. Mi rendevo conto, però, che quell’atteggiamento non era “onesto” nei confronti del regista e, soprattutto, mi resi conto che recitare non mi bastava, non mi rendeva felice.
Il vero momento di svolta, però, è stato l’anno successivo alla mia laurea, dovevo svolgere il servizio civile e non potevo prendere altri impegni e così, durante quel periodo, ho fatto tantissimo teatro. Passato quell’anno ho seguito una voce dentro di me che mi ha spinto a mandare il mio curriculum al Maggio Musicale Fiorentino e sono stato preso come assistente volontario, e lavorare nell’Opera è stata per me una grandissima scuola perché ho operato su un sistema grandioso che in prosa raramente si vede in un teatro fiorentino. Fortuna volle che proprio in quel periodo Luca Ronconi si trovasse al Comunale a provare la regia di un’opera nella sala prove di fronte a quella dove lavoravo io. Con un po’ di sfrontatezza lo avvicinai e gli chiesi di poter lavorare con lui a uno spettacolo di prosa, e così approdai al Piccolo di Milano ed ebbi la fortuna di lavorare con Ronconi e osservarlo al lavoro. Da lì ho iniziato a scrivere delle cose mie e all’inizio mi sono scontrato con chi mi consigliava, essendo io un giovane drammaturgo, di scrivere cose che riguardassero i giovani e il loro modo di vivere, motorini, sesso, musica, ecc… Cambiai strada e cominciai ad inviare i miei testi ai concorsi nazionali. Ne vinsi quattro in un anno e continuai a scrivere.
Nei tuoi testi hai portato in scena un Boia, la follia di Van Gogh, la morte della giornalista Anna Politkovskaja, con tutte le sue controversie, e hai scomodato perfino Dio mettendolo sotto processo… Da cosa nasce la tua necessità di trattare argomenti così scottanti?
Il teatro per me è, da sempre, un luogo di alibi ed alterego, ci sono persone che azzerano totalmente questo sistema di alias mettendosi in scena direttamente, raccontando le proprie ambizioni, le proprie aspettative, le proprie idee. Io, di fatto, ho avuto bisogno di nascondermi dietro alibi senza fare dichiarazioni personali; ho preso i diari di Kafka, per esempio, e mi sono messo in scena sottoforma di altri personaggi, ho trattato argomenti che erano nell’aria, di cui parlavano tutti, ma l’ho fatto mantenendo, sì, una forte radice personale, ma filtrata attraverso un alterego forte.
Nel corso della tua carriera hai lavorato spesso con gli stessi attori e hai messo i tuoi testi in mano ad altri registi. Che rapporto hai con gli attori e il regista che mettono in scena i tuoi testi? Intervieni nel loro lavoro o li lasci liberi di interpretare le tue parole?
Di solito mi rifiuto di vedere le prove di uno spettacolo tratto da un mio testo, limitandomi a guardare lo spettacolo finale; alle prove infatti potrei intervenire e non voglio farlo, se hai il coraggio di mettere un tuo testo in mano ad un altro regista te ne devi assumere tutte le responsabilità. Un altro regista vede tra le righe cose che non sapevi di aver scritto o, al contrario, sottolinea cose a cui non volevi dare risalto. Vedere lo spettacolo a prove finite ti permette di vedere il tuo testo sotto una luce nuova, diventi spettatore e non puoi fare diversamente.
Che rapporto hai con la lingua? Credi che in questo momento ci sia la tendenza a “trattarla male” o secondo te i cambiamenti fanno parte di un naturale processo evolutivo?
La lingua, per sua natura, è viva, è un sistema dinamico e, quindi, i neologismi sono un evento normale, naturale. Il mio rapporto è conflittuale, invece, con un Paese che ha la tendenza a manipolare in maniera incredibile qualsiasi cosa. C’è adesso in giro la mistificazione sui dialetti, vogliono far passare il concetto che l’italiano è una lingua imposta, e questa imposizione andrebbe a scapito dei dialetti che sarebbero la vera forza del territorio, piegati all’italiano invasore. Niente di più sbagliato. Se si parlasse con cognizione di causa si saprebbe che lingue come il francese, l’inglese, lo spagnolo, il cinese mandarino sono state imposte a una vasta popolazione, ma l’italiano assolutamente no, si è sviluppato e diffuso in maniera naturale.
Da questo atteggiamento vittimistico deriva anche una certa tendenza ad usare il dialetto come lingua teatrale. E comunque, se proprio vogliono prendersela con qualcuno, che se la prendano che la televisione, vero veicolo di sviluppo della nostra lingua!
Cosa pensi della situazione dello spettacolo in Italia? Dei tagli al FUS in primis e dello scarso interesse del governo nei confronti di cinema, teatro e musica?
Il vero problema dell’Italia è che abbiamo alle spalle secoli di storia e, tranne specifiche manifestazione come la Commedia dell’Arte, l’Opera e poco altro, la cultura è sempre stata appannaggio di una elite, mentre altri Paesi sono cresciuti con un’educazione più generale e collettiva. Il nostro rinascimento ci ha consegnato grandi monumenti, ma anche un fortissimo distacco tra chi esercitava la cultura e chi, la maggior parte per la verità, ne era tagliato fuori. A distanza di secoli ne paghiamo ancora il prezzo e l’Italia è ancora quella che descriveva Cicerone, “panem et circenses“. All’Italia manca l’idea che la cultura, le arti e la letteratura possano essere, oltre che un veicolo di educazione, un vettore di sviluppo economico per far rinascere il Paese.
Finita la piacevole chiacchierata, Stefano Massini si immerge nuovamente nel suo affascinante lavoro.
Riuscirà l’arte a salvare l’Italia? Speriamo di sì…