XVII Festival delle Colline Torinesi – Diario di bordo
Pubblicato in Primo Piano, Segnalazioni
di Anna Gallo Selva
Si è rivelata straordinariamente eclettica quest’edizione 2012 del Festival delle Colline Torinesi, remedy di cui siamo da anni affezionati spettatori, health nel suo spaziare tra generi e stili che coprono pressoché l’intero spettro di ciò che si possa oggi riunire sotto la definizione di teatro contemporaneo, nel suo aprirsi all’espressione multiculturale, plurilinguistica ed intergenerazionale, nell’affrontante con generosa eterogeneità un ricco ventaglio di tematiche, spesso scomode, nel coraggio di volgere lo sguardo a nomi nuovi, come si addice a un vero Festival.
Sforzi notevoli in tempo di crisi, giustamente ricompensati con una presenza di oltre 8000 spettatori.
Si parte con “La seconda Neanderthal”, della Societas Raffaello Sanzio, un affresco di indiscutibile bellezza estetica e formale che s’incunea magistralmente nella location essenziale delle Fonderie Limone.
Splendidi i costumi della Castellucci ed il loro scenografico imporsi sulla scena, efficace la costruzione dell’ambiente sonoro, non sempre all’altezza l’apparato coreografico, che perde di spessore narrativo nella seconda parte dello spettacolo.
Si esce dalla sala con la sensazione agrodolce dell’attesa, di qualcosa che sarebbe potuto accadere ma che la scelta drammaturgica decide di non concederci.
Coinvolge, indigna ed emoziona fin dal provocatorio impianto scenografico “Giù”, dei sempre incisivi Scimone e Sframeli, che scena dopo scena ci fa sentire vittime e carnefici, scomodi nell’ignava comodità dei nostri compromessi quotidiani.
Un J’accuse che non risparmia niente e nessuno, che riesce con la consueta cifra stilistica della leggerezza, propria di questi autori a noi cari, a insinuarsi tagliente nelle nostre apparenti innocenze.
Un due terzi ineccepibile che ci rende più indulgenti nei confronti della discesa finale, del tutto inattesa, verso una retorica prosaicamente scontata, che strizza l’occhio a troppo facili consensi permettendo allo spettatore di divincolarsi dalla morsa della propria responsabilità per scivolare nel più rassicurante indice accusatorio puntato verso un nemico comune.
Non discutiamo la scelta tematica, senza dubbio di per sé necessaria; ma a chi ci ha abituati a gioielli drammaturgici come Bar, La festa, La busta e altri, ci sentiamo in diritto di chiedere di più.
Assemblea Teatro, storico caposaldo del teatro di narrazione torinese, ci regala con “La bambina che raccontava i films” una suggestiva e poetica fiaba d’altri tempi, che non tradisce la fedeltà di sempre all’impegno sociale e civile, pur non raggiungendo le vette drammaturgiche di altri loro lavori, come il recente indimenticabile “Viva la Vida!”.
Raffinato e coinvolgente “Mal Bianco”, secondo capitolo della Trilogia della Visione, dedicato da Zaches Teatro al maestro Hokusai, il celebre creatore dei Manga: magistralmente curato nella forma, efficacemente evocativa dell’universo minimalista e figurativo giapponese, non tralascia mai l’equilibrio fra ricerca estetica e comunicazione emotiva.
Lo spettatore è preso per mano e guidato in un universo poetico ed evanescente, fatto di figure leggere ma di grande potenza espressiva, dove non sempre tutto è ciò che appare, dove le suggestioni ci spingono a un livello simbolico che ci tocca e ci mette in gioco profondamente.
Nell’accurata armonia di gesti, suoni e immagini, è forse discutibile la scelta di introdurre il canto: poiché in quell’atmosfera rarefatta ed ovattata il suono si amplifica nella percezione dello spettatore, sarebbe necessario trattarlo con maggiore cura, sviluppandolo nella direzione del canto armonico.
Difficile ridurre “This is the end” alla definizione di circo-teatro: riuscire ad accontentare un pubblico esigente sul piano narrativo e al tempo stesso gli amanti delle esibizioni adrenaliniche non è impresa da poco.
La regia di David Bobée riesce mirabilmente nel delicato connubio, fondendo poesia e tensione drammaturgica con numeri circensi di grande destrezza.
Sono molti gli accostamenti che si potrebbero citare, ma nessuno spettacolo di circo-teatro ha a nostro avviso raggiunto una così piena sintonia d’immagini e di testo: ciascun numero non viene sottolineato da un testo appropriato, o viceversa, ma ognuno è l’esatta espressione dell’altro.
Non vi è pretesto, non vi è spazio per il puro godimento fine a se stesso, ma tutto induce lo spettatore a interrogarsi sul senso ultimo della vita, propria e del mondo in cui abita, ponendosi in una relazione con l’altro resa concreta e inevitabile dal pluriculturalismo che caratterizza la formazione.
Il tutto amplificato da sonorità appropriate (anche e forse soprattutto quando vi è il più completo silenzio) e da un palcoscenico rotante suggestivo ma mai autoreferenziale, in cui tutto si costruisce collettivamente di volta in volta, ma mai una volta per tutte.
Sarà che ci siamo avvicinati a “Duramadre”, dei pluripremiati Fibre Parallele, con aspettative elevate, ma la delusione di fronte ad un lavoro ben congeniato ma fondamentalmente non riuscito è pungente.
Eppure l’impianto scenografico promette bene: basta guardarlo per quei 10-15 minuti in attesa dell’inizio e si è già in viaggio.
Un viaggio onirico e poetico che continua nel magnetismo della voce fuori campo, nello svolgersi di quei corpi nudi dai loro cordoni ombelicali di cellophane… Le aspettative crescono.
Fino a infrangersi miseramente dopo appena pochi minuti di recitazione.
Uso volutamente un termine che non mi appartiene, perché di questo si tratta: l’incanto si rompe e lo spettatore non è più parte di un rito collettivo che poteva divenire inquisitorio, accusatorio o catartico, ma assiste semplicemente a una rappresentazione a cui, di scena in scena, crede sempre meno.
Ogni tanto la voce fuori campo lo riporta per un attimo lì; ma è, appunto, solo un attimo, poi torna quella sensazione di scetticismo con cui si esce, amaramente, dalla sala.
Da tanto non ci concedevamo il lusso di vedere Ferdinando Bruni sulla scena ed è sempre un piacere constatare che il nostro indimenticabile Puck invecchia generosamente come il buon vino.
“Rosso” del Teatro dell’Elfo ci conquista, ci avvolge e ci coinvolge, ci interroga, ci fa irrequieti e frementi sulle nostre sedie troppo anguste, divisi tra la seduzione suscitata dall’arroganza geniale di Rothko e la lucida razionalità del suo giovane assistente.
Una lezione di teatro che è al tempo stesso una lezione d’arte e di umanità, che fa riflettere attraverso l’azione senza alcuna indulgenza retorica, che fa entrare lo spettatore nella materia fino a farlo sentire parte di essa.
Uno spettacolo di teatro-teatro che ci ricorda che, se il teatro è vivo, non ha bisogno di alcuna etichetta.
Sopra le righe. Questa, in sintesi, la critica che muoviamo a “Pinter’s anatomy”.
Ottimo nella premessa, segnata dall’efficacissimo contrasto tra la scena natalizia stucchevole in stile Tutti insieme appassionatamente e il gelido tavolo da obitorio da cui sale una voce freddamente sinistra, e coerente nella conclusione, che arriva alla morte passando da un gioco ormai riconoscibilmente grottesco (la macabra corsa nei sacchi di corpi nudi e martoriati), questo lavoro di Ricci/Forte ci lascia la sensazione di aver esondato dai margini del necessario, perdendo progressivamente il senso di fastidio che avrebbe potuto utilmente indurre nello spettatore per diventare una celebrazione gratuita e a tratti scontata della violenza, quasi mostrata con autocompiacimento.
Il bisogno di toccare fisicamente e in modo sgradevole lo spettatore per provocarne una reazione sa di vecchio e, a nostro avviso, dichiara fra le righe un’incapacità di raggiungere emotivamente il proprio interlocutore con più fini mezzi drammaturgici.
“Permesso?”
Ti senti quasi in imbarazzo nell’entrare nella location scelta per “Roberta torna a casa” di Cuocolo-Bosetti.
E’ vero che sapevi che si trattava di una casa privata; ma forse te l’aspettavi diversa, un po’ meno casa forse… O forse un po’ di più.
La sensazione è straniante fin dall’ingresso: è tutto così reale da risultare finto, quella casa è talmente casa da non poter sembrare davvero una casa.
L’iperrealtà suggerisce una costruzione scenica raffinata, come quando giri un video all’aperto e vuoi dei suoni naturali.
Tutto appare così vero che non può che essere finzione: te lo dici e te lo ridici, ma per tutta la sera non fai che entrare e uscire fra le trame che separano finzione e realtà.
Ti scopri a raccontare a questa donna, a Roberta, la tua vita, mentre lei ti racconta la sua e non solo, in una vertigine al confine fra lucidità e follia.
Spostandoti tra le varie parti della casa, incontri un albero che dal piano di sotto buca il pavimento e irrompe nella stanza, a ricordarti che sì, è tutto vero… ma è anche finzione.
E quando, prima di congedarti, scendi con loro al pianterreno, di nuovo non sai se stai semplicemente condividendo un momento conviviale, o se sei parte di un copione.
Infine esci.
Ma in auto sei ancora lì a chiederti se sia semplicemente finito uno spettacolo o se la tua vita non si sia intrecciata indissolubilmente con quella di altre persone altrimenti sconosciute.
È possibile fare teatro senza che nessuna presenza umana attraversi mai la scena, per tutta la durata dello spettacolo?
“33 tours et quelques secondes”, dei libanesi Rabih Mroué e Lina Saneh, fa rispondere affermativamente e senza esitazioni al nostro quesito: uno spettacolo che non cala mai di ritmo, che “aggancia” e coinvolge lo spettatore dal primo all’ultimo secondo, ponendolo di fronte ad un inevitabile interrogarsi su domande dure, difficili, controverse, talora imbarazzanti.
Non c’è mai interazione esplicita, eppure ci si sente co-protagonisti della vicenda, martellati ossessivamente dai moderni mezzi di comunicazione che non tacciono neppure davanti all’evento ultimo della vita.
Da appassionata studiosa della cultura teatrale libanese contemporanea (si veda la mia intervista al regista-icona Roger Hassaf sulla rivista Stratagemmi del settembre 2011), confermo ancora una volta che là dove il teatro nasce da una necessità concreta di sopravvivenza, per dar voce all’inascoltato, quel teatro, in qualunque forma scaturisca, è un Teatro con la T maiuscola.