“Mi fermo, sovaldi sale poi riparto, poi mi fermo ancora e osservo la strada che si colora,
c’è un faccia in vetrina, mi guarda e va via…
chi è lo straniero a casa mia?…casa mia…” da Hollywood, Negrita
Chi vive a Milano sa quanto sia facile incappare nel malfunzionamento dei mezzi pubblici. Traffico, ritardi, salto delle corse: tutto all’ordine del giorno. Ma il malanno più gettonato dall’ATM – la società dei trasporti – è il famigerato “guasto tecnico” nelle stazioni della metropolitana, che può bloccare la circolazione per ore. Proprio in questo disastro mi sono venuto a trovare intorno alle 13.30 di un giorno qualsiasi di giugno. Esco dall’ufficio e mi avvio alla metropolitana per affrontare le tredici fermate che mi separano da casa, ma quando scendo nel mezzanino scopro che la linea 1 è chiusa su tutta la tratta che attraversa il centro (da Pasteur a Pagano, per chi se ne intende). È esattamente la strada che dovrei fare io, che abito dall’altra parte della città rispetto a dove mi trovo; ho fame e devo studiare per l’esame del giorno dopo. Nonostante tutto sono di un umore formidabile e non riesco ad arrabbiarmi per il disguido: salgo in superficie e vado a prendere l’autobus, la 91. Urge qui una spiegazione per chi pensa che la 91 (e la 90, che fa lo stesso giro nel senso opposto) sia un mezzo come un altro: la 90/91 è la filovia che fa tutto il giro della circonvallazione e in breve può essere definito l’autobus degli stranieri. Sarà perché facendo il giro di Milano passa un po’ dovunque, o perché la circonvallazione è il luogo dove maggiormente si concentrano le zone abitate dagli immigrati, ma ormai i Milanesi sono convinti che la 90 sia un brutto posto. Io ho usato questo mezzo per anni su alcune brevi tratte e non posso dire che sia rassicurante, ma a volte non ci sono alternative: decido quindi che se voglio arrivare a casa entro sera quella è l’unica strada, così il mio viaggio diventa un’occasione per osservare e riflettere.
Mi apposto in fondo, dove si concentra “la crème”: è gente di ogni etnia, ma il colore della loro pelle mi può aiutare a distinguere la loro provenienza. Si va dalla carnagione chiara degli Europei dell’est a quella mediterranea, tipica dei Turchi e degli Arabi, dal colore sempre più intenso di Afghani, Pakistani e gente dell’Asia centrale, fino allo carnagione scurissima degli Africani. In questo quadro spiccano i lineamenti particolari di chi proviene dai Paesi dell’Indocina. C’è proprio gente da tutto il mondo (orientale) e mi sento in colpa quando mi accorgo di viaggiare con il computer ben stretto tra i piedi e le mani sempre vicine alle tasche dei pantaloni. Le situazioni che si verificano sono al tempo stesso delle più normali e delle più strane, ma noto sempre un criterio alla base: l’instabilità di una vita sospesa.
Un ragazzo è seduto e dorme, ha tirato su il cappuccio della felpa e non si vede nemmeno da uno spiraglio il colore della sua pelle; i suoi vestiti sono sporchi e sgualciti come se li avesse da giorni e sembra che da altrettanti giorni non dorma. Dietro di lui è seduto un altro ragazzo di età indefinibile che potrebbe essere laotiano o vietnamita. È vestito in stile vagamente hiphop e le cicatrici sulla sua faccia non sono promettenti. Parla al telefono ad alta voce e non capisco nemmeno un suono di quello che sento. Che strano, quando sono all’estero non mi va di farmi sentire troppo a parlare italiano. Accanto a me c’è invece un arabo con la barba tipica del musulmano. Anche lui telefona, ma parla a voce talmente bassa che posso sentirlo solo io; risponde a monosillabi, ma mi colpisce l’unica frase intera che dice: “Sto andando in moschea”. Non starà parlando così piano – mi chiedo – per paura che qualcuno lo senta? E vorrei dirgli quanto sono contento di sentire qualcuno che alle 2 del pomeriggio si ricorda di andare a pregare. Alla fermata della Stazione Centrale salgono tre uomini che etichetto come Turchi, che rimangono in piedi e pranzano con i panini appena comprati da McDonald’s. Che strana la globalizzazione, a me piace così tanto il kebab e loro mangiano hamburger americani. Un altro Arabo nel frattempo è salito e telefona a voce talmente alta che tutti sull’autobus hanno capito che non vuole cambiare operatore. Il suo italiano è disastroso, ma si capisce che ha difficoltà a venire fuori da questo problema di contratti telefonici. Il ragazzo che dormiva all’improvviso si alza e solo dopo che è sceso mi accorgo che è nero e che indossa la felpa azzurra dell’Italia. Che strano il patriottismo, io non indosserei mai una felpa del genere. Osservo fuori e constato che la situazione non è tanto diversa: i negozi lungo la strada sono principalmente gestiti e frequentati da stranieri, kebab e pizzerie, Internet point, minimarket e via di seguito.
Il mio viaggio sulla 90, iniziato in piazzale Loreto, si conclude al capolinea in piazzale Lotto, dopo aver attraversato mezza città, e da qui proseguo su un altro autobus che in una decina di minuti mi porterà fino a casa. Gli stranieri che sono stati miei compagni di viaggio fino al capolinea si sono dispersi all’apertura delle porte, come svaniti, inghiottiti da una città che non li vede e per la quale probabilmente non significano nulla. Nessuno si è infiltrato nelle mie tasche, tutto è ancora al suo posto. È un sollievo scendere, perché mi libero dall’aria pesante che si respira sulla filovia, dallo sporco che c’è sul pavimento, dalla ressa e dal rumore della gente che parla a voce troppo alta. Eppure vorrei restare su e continuare a osservare, perché so che l’ultimo pezzo di viaggio che inizia ora sarà di gran lunga meno interessante (gli unici stranieri che incontrerò saranno poche filippine che lavorano nei ricchi appartamenti intorno allo stadio). È la prima volta dopo anni che sono grato all’ATM per un guasto in metropolitana, senza il quale non avrei potuto tuffarmi in questo mondo così lontano, pur trovandosi solo a pochi chilometri da casa mia.
È infatti tutta un’altra Milano quella che mi si presenta al termine della corsa, quando arrivo nel mio verdissimo e italianissimo quartiere di periferia, dove gli stranieri sono ancora un’eccezione. E in fondo un po’ mi dispiace, perché la vita qui non è così colorata. Meno pericolosa, senza dubbio, meno grigia, perché i parchi sono tanti, ma anche meno varia. Chissà se un giorno, per la mia gioia, anche qui qualcuno aprirà un chiosco di kebab.
Pensavo…se questa esperienza ti ha dato cosi’ tanto da desiderare un chiosco di kebab sotto casa tua…se hai apprezzato cosi’ tanto il “colore” di cui parli e sei rimasto affascinato da quella vita…perchè non ti trasferisci in una di quelle mille case ormai totalmente abitate da soli immigrati per la maggior parte (ahimè…e “ahiloro”) clandestini?
Troppo facile per uno nato e vissuto in un verde e sicuro sobborgo milanese trovare piacevole osservare quel mondo…peccato che non siamo in uno zoo e che quello in cui tu vedi magia e colore sia solo un dramma a cui questi individui diversi rinuncerebbero volentieri.
Probabilmente infatti non si tratta globalizzazione ma di necessità, dal momento che con il costo di un kebab ci si comprano 7 hamburger di mc donald’s (50 cent, staz. centrale).
E portare tre giorni la stessa felpa, anche se dell’italia, non è proprio patriottismo.
Se devo essere sincera sono anche stupita di come una persona che, a quanto pare, prende tutti i giorni o quasi la metropolitana e vive a milano, possa essere sorpresa dal “colore” e dalla varietà di tali situazioni.
Se si uscisse un pò più spesso dal proprio giardino incantato forse si riuscirebbe anche a percepire la realtà di quei drammi.
La mia prima reazione è che in realtà non sia solo una caratteristica della 90/91, ma della maggior parte dei trasporti pubblici milanesi. Trovo che la domanda da porsi sia “perché si vedono per la maggior parte delle volte immigrati e raramenti milanesi sui bus e tram cittadini?”. La ATM funziona tutto sommato bene, costa pochissimo comparata ad altri paesi (in Svezia si paga 3 volte tanto, e non stiamo a menzionare Londra), i mezzi sono frequenti anche se bisogna totalmente ignorare le tabelle degli orari.
Perché molti milanesi non usano i mezzi?
Certamente l’ironia che ho usato per descrivere la situazione è un’ironia molto amara: non è stato affatto piacevole entrare, seppure di striscio, dentro questa realtà che peraltro conosco piuttosto bene, avendo io sempre vissuto a Milano e occupandomi di immigrazione nel mio percorso accademico. Il mio viaggio è stato tutt’altro che una “visita allo zoo”, e non credo ci sia bisogno di specificare quanto mi faccia soffrire vedere queste realtà. Il fatto che io viva in un quartiere tranquillo non significa che non abbia amici stranieri che vivono situazioni di difficoltà e certo non li sto a guardare inerte mentre annaspano nell’indifferenza della mia città. Proprio questo era il mio intento infatti, sottolineare l’indifferenza con cui i milanesi passano attraverso (o magari semplicemente evitano) certe zone, ignorando il problema dell’immigrazione e bollandolo come un crimine, senza chiedersi mai quali pazzesche e dolorose storie ci siano dietro ogni persona.
Il discorso dell’utilizzo dei mezzi a Milano richiederebbe invece un articolo a parte, che io riassumerei in: “i mezzi a Milano costano troppo in rapporto a quanto male funzionano, per contro i milanesi non accetteranno mai di alzare le loro comode chiappe dalla macchina”.
Caro Andrea, il tuo punto di vista riesce sempre a non scadere nella banalità, lo stupore è nei tuoi occhi, complimenti.