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Take a picture Oliviero, take a picture

9 ottobre 2008
Pubblicato in Attualità, Fiori
di Vincenzo Ruocco

Eccomi qui, ed nella stanza di casa mia a Bologna, con le tende tirate giù nel tentativo invano di mascherare l’inevitabile, la pioggia, l’umidità che a poco a poco si fa padrona delle nostre strade, dei nostri parchi, dei muri dei palazzi, e poi, senza nemmeno chiederci il permesso, dei nostri corpi. WET. Respiriamo la pioggia. Bologna, una città umida. Odio l’inverno di Bologna perché non è un inverno normale. E’ freddo sì, ma non è il freddo del Trentino. L’estate, calda, troppo, non come Roma, calda ma vivibile o quanto meno piacevole, sì, godibile ancora. OH MY GOODNESS. Bologna, cosa ci faccio qui? Prendo tempo, perdo tempo. Devo avere coraggio, affrontare questo foglio bianco, ancora troppo bianco. Devo scrivere le mie sensazioni, “il diario emotivo”, che poi è diario soggettivo, ovviamente. Comunicare, sempre, questo è quello che devo a me stesso. Scrivere della mia esperienza di Manhattan oggi, oggi in questa umida giornata bolognese, non è facile. Forse è colpa di casa mia, troppo comoda, troppo silenziosa; che fastidio! Dov’è quella voce? Le sirene dei pompieri, delle ambulanze, i clacson delle macchine, vive, inferocite. La gente che si muove, che cammina, che corre anzi, dove? A volte ti ritrovi a correre anche tu, semplicemente così, segui l’orda di persone che vanno in una direzione e tu, se non hai studiato il percorso prima di uscire di casa, ti ritrovi gettato nella mischia, spaesato, AT THE BEGINNING, come potrebbe capitare a un ROOKIE di una squadra di football nel bel mezzo del SUPERBOWL. Manhattan parla, stride, graffia, respira a volte affannosa, altre col ritmo impostato regolare, lo stesso dei corridori di CENTRAL PARK (1856) la domenica mattina.

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È sporca, non potrebbe essere altrimenti. È una metropoli in cui la moltiplicazione dei livelli ha concesso alloggio a un numero impressionante di figure umane che lì vivono e lavorano, o forse sarebbe meglio dire, cercano di sopravvivere, spaccandosi la schiena sei giorni a settimana, dodici ore al giorno, per pagare un affitto, magari nel Queens o a Brooklyn o nel New Jersey, comunque troppo alto. O magari l’affitto di una casa in una zona di Manhattan, AREA, certo non SoHO, ma perché non Harlem? “Dicono”, REPEAT dicono, che il mercato immobiliare dei prossimi anni si sposterà a nord, oltre com’è ovvio l’Upper Side, incontrando proprio le abitazioni di Harlem, edifici ancora belli esteticamente, funzionali nel prossimo futuro. D’altronde in una città in cui la metropolitana, SUBWAY (1904), è una realtà capace di offrire il servizio di trasporto al meglio, dove se perdi un treno sai che attenderai tre minuti di orologio e poi sarai libero di andare, viaggiare da sud a nord e il contrario, o uscire dal distretto, BURROW, dove potrai perderti da solo con te stesso per poi ritrovarti sempre e comunque solo, non senti il bisogno della macchina. Sei un viaggiatore tra milioni di altri viaggiatori. La tua mano bianca stretta al palo del vagone condivide quella piccola porzione di spazio che altre mani, di altri colori, le concedono. Sei aggrappato a un palo, sì, e ti viene in mente Oliviero Toscani, quale foto scatterebbe? TAKE A PICTURE OLIVIERO, TAKE A PICTURE. La foto di mani di colori diversi, tutte vicine aggrappate allo stesso palo. Mani di bianchi, di bianchi newyorkesi o europei, dei WESTERN come li chiamano, come ci chiamano, e mani di EASTERN, di ASIAN, mani di pakistani, di indiani, di japanese. Colori, profumi, fragranze, odori, anche cattivi, ma che ricchezza! Una comunità estesa che condivide, forse, ideali comuni, o comunque spazi comuni. Ecco allora che si impara il rispetto, il giusto rispetto, non la tolleranza che è un concetto sbagliato di cui in Italia troppo spesso si parla; bisogna cambiare prospettiva a volte per vedere la realtà nel modo migliore, LESSON ONE del Rinascimento (tra la metà del XV e la metà del XVI secolo), questo sì italiano, l’italiano di cui vai fiero nel mondo. Cos’è l’Italia oggi? Cosa vogliamo/possiamo imparare nel nostro Paese? Cosa ci insegna di buono? Eppure vendiamo. A Manhattan, lungo il FASHION DISTRICT ci siamo tutti noi italiani, tutti i nostri stilisti. Ci sentiamo rappresentati? Cosa unisce me e Cavalli, Prada, Armani, Benetton, Valentino, Ferragamo?

C’è “chi non se la tira”, potremmo dire, a Manhattan. Sei per strada e incontri il protagonista della tua serie tv preferita. Spazi comuni appunto. I nostri politici, anche locali, quali spazi condividono con noi? Quando esci la mattina in auto blu dalla tua villa sui colli di Bologna, inaccessibile a chiunque, controllata a vista, monitorata a cadenza oraria. Una villa col cancello che porta le iniziali del tuo nome, le stesse iniziali con cui hai griffato, “ma dai, pure tu uno stilista?”, le poltrone delle tue sale. Una villa che abbandoni appunto ogni mattina per recarti in ufficio in pieno centro, passarvi dieci ore al giorno per poi andare in Consiglio Comunale perché ti hanno votato come rappresentante del popolo, o di una parte di esso, ecco questo mi chiedo: ma tu cosa ne sai di quello che succede nella strada? Politici sempre più lontani da noi, in altri Stati, prendono decisioni che riguardano il nostro quotidiano e magari non saprebbero nemmeno indicarci la via che porta alla biblioteca pubblica. Cosa sono le distanze? Oggi bastano otto ore di volo per SKIPpare l’Oceano Atlantico, ormai una pozzanghera tra noi e il Nuovo Mondo eppure certe distanze sono e saranno incolmabili, sempre.

A Manhattan ho conosciuto la libertà, non solamente quella privata, ma il senso di libertà. L’energia che si percepisce nell’aria, la gente che fa continuamente qualcosa, più cose. Nessuno che ti giudica, forse perché non hanno il tempo per guardarti? Non so, potrebbe essere, ma non è questo l’importante. Non mi occupo della causa, subisco l’effetto, ed è piacevolissimo. Una persona libera, finalmente, una persona, una, uno, un numero che non porta compassione da parte della mamma o della zia, o del vicino di casa, o della cara vecchia amica. Sei un uno, cosciente di questa condizione che ti accorgerai non appena ritornato a casa tua, nella tua casa di Bologna, valere oro per te. Un uno che si muove, che chiacchiera con altri soli, con altri uno, che sono milioni, che diventano comunità, gruppo sociale, non massa amorfa. Tutti leggono in metropolitana e chi non legge ascolta l’iPod. La chiacchiera è naturale, con chi ti sta a fianco mentre pranzi al bancone di un ristorante perché sei da solo e non vali tanto per occupare un tavolo da quattro o anche solamente da due persone. E parli con chi ti trovi vicino, il perché vi troviate lì e cosa stiate combinando nella vita, cosa vi piace della città e cosa odiate della città finendo per scambiarvi i biglietti da visita, finendo per non rivedervi mai più. Chiacchiere con sconosciuti che non diventeranno amici, rimangono incontri fugaci che non valgono nulla, si penserebbe, ma che valgono tanto in una città come Manhattan, sono compagnia.

Eccomi qui, ancora, nella mia casa bolognese. Controllo, eppure ho scritto più di una pagina. Non è facile per me che mi ritrovo a scrivere quando ne sento il bisogno, la necessità corporea di gettar fuori le emozioni che porto dentro. Difficile che capiti, appunto. Accaduto a Manhattan, due volte in un mese, TWICE. Per questo motivo queste righe appena scritte non hanno il senso di quelle scritte laggiù, perché quelle sì erano parole rimesse, vomitate per pura necessità corporea. Queste sono considerazioni proposte nel tentativo di percepire l’eco di esperienze vissute, non ancora troppo lontane da me. Ma certo manca quella pressione nella mia testa che faceva scivolare veloci le mie dita sopra questa stessa tastiera del mio mac, compagno di viaggio, silente ma affidabile confidente nelle notti newyorkesi di segreti. Mancano le fanciulle coi visi di chimere che mi riportano a Gozzano e per questa ragione, così lontano, mi faccio in disparte e mi congedo concedendo ai suoi versi il proscenio a chiudere questo discorso, SPEECH, a cancellare il rimorso per le colpe non commesse, per le occasioni perse, per quel vivere non vissuto che mi tormenta nel freddo e nella pioggia di questa città che devo ricominciare a considerare casa mia. Sì, ecco, sono nella via del rifugio, ora sono nella poesia:

Amanti, miserere

miserere di questa mia giocosa

aridità larvata di chimere!



8 Responses to “Take a picture Oliviero, take a picture”

  1. Giorgia scrive:

    Ti rinnovo i miei complimenti, per come riesci ad esprimere e dipingere nella mente di chi legge i colori, i suoni, gli odori, della vita, prima ancora che di New York. Grazie Vincenzo.

  2. Anna scrive:

    I have only one thing to say to this author: GET BACK THERE, LIVE NY TO LIVE! Tornare, vivi NY per vivere!

  3. Aessandro(ALLO) scrive:

    ..VIVI come un gabbiano senza ali,lascia andare la tua voglia di ESSERE senza pensare troppo al nulla e concedi al tu SE’,anima e corpo di poter assaporare la VITA..
    vivi con amore,passione e liberta’ tutto cio’ che vuoi fare ma FALLO!!!

    VIVERE la vita è l’essenza dell’ESSERE

    al prossimo viaggio ALESSANDRO

  4. Miša Capnist scrive:

    Odori e sapori, colori e calori mi carezzano. Mi carezza la disinvolta compiacenza di uno sconosciuto che ti sorride per il tempo di un caffé. Dividere la vita con una Città quando la propria persona non è ancora arrivata.

    La poesia e il rumore della solitudine. L’altro come attore sociale e come garanzia di un’esistenza. Come prova della vita.

    Il tuo scrivere sono versi, sono ritmo, sono vita.

    Mi inchino alla tua intelligenza, alla tua opulenta generosità, a quella mente virtuosa che con esperimento piacere, spesso rimpianto per altre ragioni, pulsa nel tuo cuore. Pulsa nella tua sensibilità estetica e nel tuo senso delle proporzioni.

    Sono stato felice di leggere il tuo articolo.

    Questo rigoglioso Tamarindo trova in te una delle sue voci, un’astuta penna capace di creare quei mondi che non conosciamo, quei mondi che ci raccontiamo, i mondi degli altri, quelli che vogliamo o vorremmo che siano.

    Seducente Vincenzo, ti prego, scrivici ancora!

  5. ulli scrive:

    vivi,te lo dicono tutti ma nessuno lo fa realmente…è condizionato dalla coscienza da una morale preimpostata… la libertà nn esiste crediamo di essere liberi ma in realtà siamo incatenato nei pregiudizi altrui ma sopprattutto siamo vittime di noi stessi e della frenesia ke ci contagia ogni giorno… cmq bell articolo speriamo slo un giorno di arrivare a dire sn stato libero veramente libero di vivere.

  6. Vincenzo Ruocco scrive:

    ciao misa, mi hanno fatto molto piacere le parole spese nel commento. certo mi caricano di responsabilità.

    non so se sarò in grado di scrivere altre cose capaci di generare lo stesso apprezzamento. non mi considero così intelligente come tu dici, sensibile ecco questo sì.

    Accaduto a Manhattan, due volte in un mese, TWICE. ed ora? non credo dipenda da me, o non solamente. dovrei continuare a vivere magari anche per scrivere ma in fondo non devo niente e forse scaricando un po’ di quella responsabilità troverò altre cose da dire e da condividere con tutte le persone che avranno voglia di leggere.

    V

  7. Vincenzo Ruocco scrive:

    ciao ulli.

    credo che il tuo giudizio sulla condizione umana sia molto netto e severo. il tuo sguardo disincantato sulla vita mi spinge a supporre di interagire con una persona molto sensibile. mi chiedo chi tu sia e da dove mi stia scrivendo, quando e quanto tu abbia creduto di essere libero e i pregiudizi di quali persone abbiano finito per condizionarti.

    .

    esistono tante forze e tante variabili in grado di condizionarci MA se il fulcro della nostra persona vuole DAVVERO e con tutta FORZA prendere una direzione riesce a fare il primo passo, e poi il secondo e il terzo.

    un abbraccio, V

  8. GIORGIA scrive:

    Probabilmente ogni persona vorrebbe essere libera. Mentalmente, capace di utilizzare solo i parametri di giustizia e correttezza del proprio sentire. Molte volte si cede, tutti, credo, cedono…ma alla fine non penso che sia questo il problema. La frenesia, che impedisce di fermarsi ed assaporare il gusto del tempo, il piacere dei pensieri, dei ricordi, ma anche e soprattutto del presente, è il più grande ostacolo della libertà mentale, non dà tempo, di capire, di sentire, di appropriarsi delle sensazioni, emozioni, pensieri…che passano sopra e scivolano, senza fermarsi, senza lasciare nulla, perchè non se ne ha avuto il tempo, perchè non si è prestata sufficiente attenzione. Credo che Ulli intendesse questo, credo che si riferisse più ai condizionamenti che ciascuno, senza accorgersene, a volte, si impone da solo, non tanto a quelli che si subiscono dal mondo esterno…ma forse è solo una riflessione mia, nata dalla considerazione di quanto ti sia rimasto dentro del movimento, del ritmo, della velocità che ti ha travolto a New York, e di quanto tu l’abbia resa tua. Un bacio.