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Seven stops to make you a man

2 novembre 2008
Pubblicato in Attualità
di Vincenzo Ruocco

Mi trovo nella stazione della Subway. Ho appena scattato due foto a qualche topo tra le rotaie intento a cercare qualcosa da sgranocchiare. Ingurgito da un pacco enorme colorato di bianco e raffigurante la faccia di Paul Newman patatine al guacamole incapaci di donarmi la sottesa allegria che provo ogni qualvolta mi trovi a cenare nel miglior ristorante messicano di Bologna.

Attorno a me persone, help le guardo. Corpi, che potrebbero avere mille facce. Non ne rammenterei nemmeno una arrivato alla fermata che mi aspetta. Silenti compagni di viaggio, fruitori di questo ottimo servizio che l’Mta di New York riesce a mantenere.

Continuo a scrutare around qualcuno di interessante a cui scattare una foto, questo lui, inconsapevole della sua efficacia, dispensatore quasi vittima del mio bagaglio di ricordi.

Alle mie spalle, ancora non ne sono cosciente, sta una bella donna, negra voglio dire. Utilizzo questo termine, politically incorrect, di proposito perché mi piace così. Una donna con la pelle negra. Mi volto, la vedo, anzi la guardo, no, la osservo. Per un attimo, tutta. Mi rivolto, mi guardo in giro ma già la fotografia è scattata. Ovvio, dal mio cervello. Mi chiedo se quello che ho appena visto mi sia piaciuto. Non amo le donne nere. Mi piace la pelle bianca sulle donne.

Cerco di sembrare indifferente, la riguardo. Non capisco cosa stia facendo. Credo che sia lei ad avermi visto, anzi a guardarmi o forse no, che mi stia osservando? A che gioco giochiamo? Che il destino beffardo voglia farmi indossare i panni del topo? Probabilmente è ancora troppo presto per dirlo. Sono portato a viaggiare con la mente. La terra, la terra. Devo stare con la testa inchiodata alla terra. Pragmatismo. Dirigismo?

Penso sia una bella donna. Non sono un fine descrittore dell’aspetto. Una bella donna, accontentatevi di questo. Elegante vestito color verde, pantaloni e giacca. Sotto, una camicetta. Le maniche di quest’ultima escono, straboccano dalle maniche della giacca. Che sia di moda? Che siano di pizzo?

Arriva il treno. Resto fermo ad aspettarlo. Aspetto in realtà di accorgermi quale direzione prenda lei, quale entrata. Invano, entro. Alla mia destra c’è una panca color blu. Scelgo di sedermi nel mezzo mantenendo lo spazio simmetrico da entrambi i lati. Alla mia destra, di nuovo, si siede una donna che scorderò in un secondo. Sulla sponda opposta, dove batte il mio cuore, si siede lei. Che possa sentirlo? La guardo rapidamente, click! Fatto. Mi sembra ancora bella, anche da vicino. La sua immagine è riflessa nel vetro di fronte a noi, in alto sopra i finestrini. Io lo so, lei lo sa. Io la vedo, lei mi vede. Ci stiamo guardando, riflessi l’un l’altra. Lei si volta alla sua sinistra, io sono alla sua destra, io mi volto alla mia sinistra. I suoi capelli sono soffici, mi piace la linea. Lisci con qualche ondulatura. Sono come nere nuvole, leggere. Sta per rivoltarsi, io pure. Come danzatrici nell’acqua seguiamo all’unisono un balletto mai provato prima, dettato dalla voglia di scoprire senza mostrarsi.

Mi accorgo che negli ultimi, forse due minuti, forse tre, forse cinque, non ho fatto altro che pensare a lei. Non conosco la prossima destinazione della metropolitana. Quante fermate ci separino dall’abbandono. Controllo la mappa illuminata posta sulle portiere automatiche. Ho il cervello impegnato a fare altro, non riesco a fare il conto. Penso che debba muovermi. Mi rivolto verso di lei per guardarla meglio. Possibile che mi piaccia una negra? Mi sorprendo. Non faccio in tempo a metterla a fuoco che mi rendo conto di essere già stato identificato come da un killer esperto. Muove l’arma quanto basta fino a fare in modo che il mirino si trovi esattamente dove vuole, sul bersaglio, su di me. Così è lei a scoprirmi. Adesso sì, ci stiamo guardando negli occhi, non riflessi ma dal vero. I fili delle cuffie dell’iPod che dalle orecchie si tuffano sotto la giacca sembrano ancora più bianchi sulla sua pelle. Accenna un sorriso come può fare una donna gentile ad uno sconosciuto. Reagisco d’istinto, mi rintano. Freddo, di colpo, cerco di mantenere un distacco. Meglio guardarla riflessa. Passa qualche secondo di gelata indifferenza, di sguardi gettati altrove. Poi il ritorno. Ci stiamo ancora fissando attraverso il vetro, generatore di un doppione tanto impacciato quanto almeno uno dei due soggetti reali, ovvero io, ahimé. Cosa sto aspettando? “Questa è una donna”, mi dico. “Hai sempre sognato di avere una storia con una donna, una donna. Ora è lì. Ti guarda. Che fai? Ti caghi sotto eh? Ora sta in te. Basta la prima parola e se lei vuole è fatta. Una cosa qualsiasi”. Controllo il percorso, quattro fermate. “Buffone, prendi tempo, perdi tempo. Speri che scenda alla tua stessa promettendoti di rivolgerle la parola in una situazione migliore. C’è troppa gente nel vagone insieme a noi. Cosa penseranno nel vedermi attaccar bottone? Probabilità che scenda davvero alla mia fermata poche o nulle”. Alloggio nella zona privilegiata di Manhattan, lei è elegante non c’è dubbio. Due fermate. La guardo, ho capito che mi piace. Una fermata e poi il nulla. “Che faccio? Agisci!”, mi dico. Mi ammonisco con frasi retoriche e banali. “Alcune venticinquenni non mi considerano neppure, perché mai dovrei stuzzicare la fantasia di una donna sui quarant’anni?”. La voce automatica all’interno del treno sentenzia: “THE NEXT STOP IS 77 ST.”, è la mia fermata. Vorrei scendesse. Potrei portarla a bere qualcosa da qualche parte. Potremmo parlare, rilassati finalmente. Magari ridere continuando a guardarci negli occhi. Potrei invitarla a salire da me sperando non ci siano nessuno. “Il professore d’arte che mi ospita non c’è mai, perché proprio stasera?”. Vorrei baciarla e averla. “Che strano effetto mi fa pensare al contrasto cromatico tra le lenzuola. Giusto! Ho delle bellissime lenzuola rosso scuro, come sangue coagulato, liscie. I nostri corpi, il contrasto vincerebbe”.

Sono arrivato, è la mia fermata. Mi alzo sicuro sperando mi segua. Si aprono le porte, esco. Testa alta, cammino. Sarà dietro di me? Non ci spero già più. “È stata l’ennesima occasione perduta?”. Troppo pura la mia fantasia, troppa la voglia di leggere laddove nulla era scritto, la voglia di stupire me stesso, di stupirmi o instupidirmi, la voglia di giocare, di rischiare, di rischiare di vincere per la paura di perdere. Questo avrei dovuto fare. “Agire!”, dicevi, agire prima ancora di pensare. “Pasolini dove sei? Solamente questo può salvare il mio essere borghese, oh quanto sono borghese, proprio stasera che non mi sentivo borghese”. Il treno riparte. Sono convinto di aver partorito un sogno castrato da me medesimo. “Ancora faccio l’indifferente? Povero sonnambulo metropolitano”. Corre veloce il treno, primo, secondo, terzo vagone. L’ho persa. No, la vedo. Un tempo infinitamente lungo. Sì, la vedo. “È lei”. Mi sta guardando, ancora. Il treno corre veloce. Camminando, penso di averla persa per sempre. Ci siamo guardati un’ultima volta.

Cosa sono sei fermate della metropolitana? Forse una scopata perduta, forse una bella notte di sesso, forse una storia di sesso, forse… ma è inutile pensare. Salgo le scale, arrivo in superficie, è buio, cammino, è l’unica cosa che mi resta da fare.

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2 Responses to “Seven stops to make you a man”

  1. misha scrive:

    Vivo, Vincenzo, attraverso il tuo obiettivo.

    Sento, Vincenzo, il riflusso d’aria di quel treno della metropolitana che raggiunge la 77th. E scendi tu. Il mio mantello smette di gonfiarsi appena il primo vagone si affaccia al dock.

    Il cappello, se non l’avessi in mano, sarebbe volato. O forse me lo sarei tolto per salutarti.

  2. Vincenzo Ruocco scrive:

    Vivo, Misha, attraverso le tue parole e già sento la voglia di abbracciarti.

    Prima o poi ci saluteremo dal vivo, ci incontreremo alla fermata di qualche subway, magari parigina?, e saliremo in superficie sospinti dal vento caldo della metropolitana in partenza sconfitti da ritmi troppo veloci per noi. Come sempre, come gli adolescenti, avendo negli occhi il riflesso di un eterno affanno, quel fiatone cronico che colpisce chi ha voglia di vivere, esigendo e rivendicando il diritto di perdersi nel mondo.

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