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Gruppo di famiglia

20 ottobre 2008
Pubblicato in Dossier
di Giovanni Biglino

Nota un tempo come “il naso dei nasi”, treatment Martine Fougeron ha abbandonato il mondo della moda e del lusso per lanciarsi nell’esplorazione del mondo adolescenziale attraverso la fotografia. Nata a Parigi, si è sempre divisa fra la Francia e New York: figlia di un manager della Michelin e nipote di collezionisti d’arte, la giovane Martine frequenta il Lycée Français di New York, nel 1968 torna a Parigi giusto in tempo per cogliere sul nascere il fermento del maggio ’68, e sempre si divide fra le due capitali – dinamismo ed eleganza. Fondatrice e presidente di una compagnia di consulenza per la creazione di profumi di successo per grandi marchi quali Lancôme, Estée Lauder e LVMH, mette la propria creatività al servizio dei grandi della moda e della cosmesi lavorando per anni su sensazioni olfattive. Già in questo contesto in realtà Martine Fougeron combina l’esperienza olfattiva a quella visiva: il suo segreto – ha raccontato – era visualizzare la struttura e la composizione di un odore. Studentessa di fotografia in bianco e nero presso il Wellesley College, a 17 anni è folgorata da alcune fotografie di Edward Steichen. E in casa una Leica è sempre a portata di mano. Una passione coltivata nel tempo, che cresce e si evolve di pari passo con le esperienze della vita, unita ad un raffinato senso della composizione: nel 2002 Martine Fougeron si converte definitivamente alla fotografia. Non un capriccio. Non un divertissment di una donna affermata e cosmopolita. Cresciuta attraverso un costante e naturale contatto con l’arte, abituata a tradurre i profumi in immagini, Martine Fougeron decide di esprimere la propria creatività.

Dopo i primi studi piuttosto contemplativi, Fougeron ha concepito, a partire dal 2005, il progetto Tête à tête, per il quale oggi è maggiormente apprezzata. Diviso in quattro serie (Tête à tête I, II, III e IV) ed esposto per la prima volta nella sua interezza nel febbraio di quest’anno presso la Peter Hay Halpert Gallery di New York, il progetto è focalizzato su Nicolas e Adrien, i due figli adolescenti dell’artista. Uno studio che si svolge nell’intimità delle pareti domestiche, portato avanti per più di due anni. Due ragazzi in principio ritrosi – impazienti durante la messa a fuoco – poi, mentre il loro volto si evolve e si completa immagine dopo immagine, ritratto dopo ritratto, incuriositi – infine complici. Fougeron pianifica le sue fotografie e al contempo i suoi soggetti sono le persone delle quali ha una conoscenza più intima, quasi al di là della conoscenza stessa. Il risultato di questa combinazione è l’assenza di casualità: i ritratti sono sì estremamente spontanei, ma al contempo possiedono la qualità del dipinto, della scena d’interni – per dirla con Luchino Visconti, del gruppo di famiglia. Uno scatto è il prodotto dell’attesa e la somma di cento e cento scatti simili, nel ripetersi dei gesti privati: il divano sul quale leggiamo il giornale, il nostro golf preferito, la tazza abbandonata sulla scrivania, la sensazione rassicurante del nostro mondo, del nostro microcosmo. O, in questo caso, quello di Nicolas e Adrien. La scena dell’interno domestico diventa il ritratto del mondo interiore di un ragazzo adolescente. E se spesso all’adolescenza svariati artisti, fotografi o registi hanno associato le tematiche del disagio e della ribellione, qui sta la novità: nei suoi figli Martine Fougeron non vede il disagio, non ci ripropone una storia di terza mano, quella del conflitto genitore-figlio; al contrario lei scava per trovare in quei simboli di quotidianità (il libro, la tazza, le scarpe da tennis, il letto disfatto) un tassello in più dell’anima dei suoi figli, per leggere al di là degli oggetti e vedervi invece i sogni. Si mescolano così la dolcezza, il garbo e l’apprensione di una madre con la curiosità, la pazienza e il senso compositivo della fotografa. Come ha affermato: “Ho pensato che una visione più aggraziata e più introspettiva del mondo degli adolescenti avrebbe avuto una risonanza fresca, priva di sentimentalismi ma arricchita di intimità”.
La qualità oggettiva delle immagini e il tema certamente intrigante hanno subito determinato il successo del progetto Tête à tête. Rappresentata a New York dalla Peter Hay Halpert Gallery e a Parigi dalla Galerie Esther Woerdehoff, Martine Fougeron fotografa riceve ora commissioni da testate prestigiose (non ultimo, il New York Times) mentre prosegue il suo lavoro alla ricerca di ritrarre il mondo della teen tribal life, quel mondo fatto di usi, costumi, di codici e linguaggi che mutano da una stagione all’altra. Ma l’intelligenza di Martine Fougeron sta nel ricercare i segreti, i sogni, i disagi di un adolescente fra le pareti di casa, dove l’armatura (quella con la quale ci si protegge dal giudizio altrui e della proprie insicurezze) viene appesa nell’armadio e ci si addormenta sul divano con un sorriso sulle labbra. Come lei ha affermato, una moda non è necessariamente uno status ma può diventare una seconda pelle: “a second skin that enhances one’s inner awareness and sensuality”. Oltre all’intelligenza riconosciamo in lei anche un grande coraggio: studiare in modo così approfondito e con un tentativo di distacco (almeno parziale) i propri figli è in fondo un gesto di forte autocritica, mettersi in gioco, scoprire sì i loro sogni e le loro complessità ma anche quei difetti, quelle illusioni e quei segreti che sono stati loro trasmessi quasi per osmosi. Il cordone ombelicale.

In termini di fotografia, non mancano referenze interessanti, come quelle al lavoro di Nan Goldin o di Sally Mann. Forse abbiamo già visto la testa rasata di Adrien nella fotografia Victoria line 2000 del tedesco Wolfang Tillmans, che condivide con Martine Fourgeron il senso della composizione, i colori bagnati da una luce morbida, soprattutto il gusto per il dettaglio: nel caso di Tillmans sono il naso, il sopracciglio, i capelli rasati, il braccio e il cinturino dell’orologio di un ragazzo (assorto? assopito?) in metropolitana, nel caso di Fougeron è quella miriade di talismani che fanno parte della vita di un ragazzo di sedici anni.
Possiamo trovare anche paralleli cinematografici: abbiamo citato Visconti, ma indubbiamente alcune immagini potrebbero essere fotogrammi di qualche pellicola di François Ozon: Melvil Poupaud straiato a letto o riflesso nello specchio in Le temps qui reste, qualche immagine di Regarde la mer o Sitcom. Del resto una caratteristica distintiva di un certo cinema francese è la sensazione di aprire e chiudere casualmente uno spiraglio su uno spaccato di vita, così come Martine Fougeron ci permette di sbirciare su momenti casuali (ma in realtà attesi con la pazienza di un predatore) della vita di Nicolas e Adrien. Inoltre, l’uso della luce è fortemente cinematografico.
In termini pittorici, Martine Fougeron fa esplicito riferimento alla tradizione fiamminga della pittura d’interni e il suo maestro in questo senso è Vermeer. Un genio in fatto di delicatezza, Vermeer è oggi un favorito del pubblico, fra trasposizioni cinematografiche e rifacimenti letterari (da La ragazza in blu di Susan Vreeland alla notissima Ragazza con l’orecchino di perla di Tracey Chevalier). Forse però è Martine Fougeron a rendergli veramente omaggio, in quanto è stata in grado di leggere tutta la poesia dei suoi dipinti e poi di tradurla in chiave moderna. In questo modo quel mistero domestico che erano una donna che legge una lettera alla luce di una finestra, una lezione di musica o – magistrale – una ragazza che versa del latte da una caraffa, ora sono illuminati da una luce diversa e diventano così due ragazzi che mangiano un hamburger in cucina, che guardano il panorama seduti su una panchina, semplicemente due ragazzi che crescono.

In questo senso il lavoro di Martine Fougeron non può non essere disgiunto da una sensazione di voyeurismo. Eppure non si tratta di un sentimento scomodo, non siamo a disagio nell’intrufolarci (in punta di piedi) in casa sua, a New York, e nell’osservare una serie di momenti privati. In un certo senso questa sorta di studio fotografico può avvicinarsi a quel concetto di voyeurismo espresso in The dreamers da Bernardo Bertolucci in relazione al cinema. Tre ragazzi che hanno appena abbandonato l’adolescenza, il maggio del ’68, Parigi. Tutti e tre immersi in una vasca da bagno – noi, nel triangolo del voyeurismo, li osserviamo in questo loro momento di intimità mentre discutono proprio del nostro “peccato”. L’americano Matthew commenta: “A filmmaker is like a peeping tom, a voyeur. It’s as if the camera is the key-hole to your parents’ bedroom, and you spy on them, and you’re disgusted, and you feel guilty, but you can’t look away. It makes films like crimes and directors like criminals”. Al che il francese Théo risponde: “My parents always left the bedroom door open”. Ed ecco un altro parallelo cinematografico: Nicolas che legge sul divano ricorda Louis Garrel (Théo) nel film di Bertolucci.
Al contrario di un eventuale progetto nel quale un padre ritraesse le figlie adolescenti – in questo caso lo spettatore percepirebbe inevitabilmente la sensazione di trovarsi di fronte ad una o più Lolite – le immagini di Martine Fougeron sono pulite e delicate, uniscono alla grazia un forte senso di complicità madre-figlio. Immagini che potrebbero trovare (e l’autrice stessa non lo esclude) un completamento perfetto in un libro, nel qual caso Tête à tête si tradurrebbe su carta in un dettagliato diario a colori. Fondendo il tema della memoria con l’esperienza visiva degli anni più recenti e quella olfattiva di quando era “il naso dei nasi”, Martine Fougeron ha già anticipato quale sarà il prossimo passo: una serie nella quale mescolare la Memoria e il Profumo. In un’intervista rilasciata a Double Exposure ha rivelato: “I would like to create very individualistic scent-memory portraits, which could be meanigful ‘madeleine de Proust’ evocations”.



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