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L’album di Annie Leibovitz

6 febbraio 2009
Pubblicato in Dossier, Fiori
di Giovanni Biglino

Nelle parole del fotografo ungherese André Kertész: “La macchina fotografica è il mio strumento. Grazie ad essa do una ragione a tutto ciò che mi circonda”. La citazione si addice certamente anche alla grande ritrattista contemporanea Annie Leibovitz, advice se si esplorano gli strati che vanno a comporre la sua arte soprattutto attraverso la ricca retrospettiva alla National Portrait Gallery di Londra, viagra comprendente più di centocinquanta fotografie e conclusasi il 1 febbraio, il libro A photographer’s life, 1990-2005, un’importante edizione curata da Random House, e il documentario Annie Leibovitz, Life through a lens, diretto da sua sorella Barbara e distribuito dall’Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra. Avvicinandosi dunque a questo personaggio a tratti goffo (nell’andatura), geniale (nella composizione dei suoi ritratti), ruvido (nella voce) ed estremamente sensibile (nel capire i soggetti) scopriamo una donna moderna che va ad inserirsi nel filone delle grandi signore della fotografia: accanto a Berenice Abbott, Martine Franck, Cindy Sherman e Diane Arbus, oggi Annie Leibovitz è circondata da un grande alone glamour.
Nata nel 1949, gli esordi professionali coincidono con la nascita della rivista Rolling Stone, dopo che ebbe modo di studiare Robert Frank e Henri Cartier Bresson al San Francisco Art Institute. Una giovinezza rock, divisa fra un backstage degli Stones ed un periodo di disintossicazione, mentre la giovane Annie – che inizialmente pensava di diventare un’insegnante di storia dell’arte – filtrava già il mondo (il suo universo privato, il suo microcosmo familiare, ed anche il mondo della musica degli anni Settanta) attraverso il suo occhio, la sua lente. Un susseguirsi di scatti. Poi, nel 1980, “lo” scatto: John Lennon e Yoko Ono, lei stesa sul pavimento, lui completamente nudo avvinghiato a lei. Poche ore dopo, Lennon fu assassinato all’uscita del suo appartamento di Central Park West. Sulla copertina di Rolling Stone dell’edizione commemorativa per John Lennon campeggiava, sola, su fondo bianco, la foto di Leibovitz. Una copertina geniale che, venticinque anni dopo, nel 2005, è stata riconosciuta dalla American Society of Magazine Editors come la copertina più efficace degli ultimi quarant’anni.

Col passare del tempo le collaborazioni si sono moltiplicate, Leibovitz è diventata una firma importante e sono giunti così gli anni di Vanity Fair, inizialmente sotto la direzione di Tina Brown, e di Vogue, sotto l’egida di Anna Wintour. Un susseguirsi di successi e di immagini-simbolo degli anni Novanta, come il ritratto di Demi Moore incinta e completamente nuda, un’immagine forte che Leibovitz e Tina Brown trasformarono in un’altra copertina di incredibile impatto mediatico. Davanti alla sua lente – sempre più fine e attenta – scorre una galleria di volti celebri. Annie Leibovitz – le sale della National Portrait Gallery così come le pagine dei libri e dei cataloghi illustrati confermano – è diventata ufficialmente la fotografa delle celebrità. Si alternano Brad Pitt fasciato in improbabili pantaloni leopardati e Nicole Kidman che emerge da un abito vaporoso, Leonardo Di Caprio con un inquietante cigno adagiato intorno al collo e Cindy Crawford nei “panni” di una Eva tentatrice. Meryl Streep, George Clooney, Julia Roberts, Kristen Dunst, Whoopi Goldberg, Jack Nicholson, Susan Sarandon: ci sono tutti. E Leibovitz è sempre fotografa dei musicisti, sulla scia delle copertine di Rolling Stone, ed ecco Patti Smith e Bruce Springsteen.
Ma non solo. Leibovitz è anche la fotografa dei potenti. Ai ritratti di un giovane Bill Clinton appena entrato nello studio ovale e di una Hillary Clinton eletta al Senato si accostano quelli dell’amministrazione Bush. Nelson Mandela è immortalato in uno splendido bianco e nero. La regina Elisabetta II è stata recentemente ritratta in una serie di immagini alquanto solenni cui lo studio sapiente della luce e la regalità del soggetto hanno conferito quasi l’aspetto di dipinti d’epoca. E nell’estate 2008 anche la nuova première dame francese, la bellissima Carla Bruni, non è sfuggita all’obbiettivo di Annie Leibovitz, che l’ha “sorpresa” mentre si aggirava sui tetti dell’Eliseo avvolta in una abito rosso di Christian Dior.

Leibovitz è anche fotografa dei volti noti dell’establishment culturale. Sempre suoi sono i ritratti dello scrittore William Burroughs, del pittore e brillante regista Julian Schnabel, della scrittrice ed acuta saggista Joan Didion. Ogni ritratto racconta una storia, una vita o un segreto ed il grande talento di Leibovitz è di raccogliere tutto in una sola immagine, talvolta estremamente costruita (si narra di richieste molto insolite per i suoi set, quasi capricci di un’artista-diva) ma altre volte semplicissima nel bianco e nero più classico.
Il grande pubblico ha anche imparato a riconoscere il suo stile un po’ lucido e molto elegante in grandi campagne pubblicitarie, come nel caso di Louis Vuitton. Per conto della maison Annie Leibovitz ha creato una serie di ambientazioni con forte potere narrativo o molto seducenti nelle quali compaiono l’affascinante Catherine Deneuve, Gorba?ëv, Agassi e Steffi Graf, Sean Connery, Francis Ford Coppola e sua figlia Sofia, Keith Richards e Laetitia Casta.

Un universo patinato, una carrellata sterminata di grandi nomi dello spettacolo, della moda, del bel mondo. In realtà mezzo universo. Perché accanto alle copertine di Vanity Fair e ai servizi di moda, troviamo – complementare – l’antologia fotografica della vita privata di Annie Leibovitz. Grandi pareti sulle quali le fotografie si mescolano. Lei – con le sue camicie da uomo, gli occhiali inconfondibili, i capelli sciolti e un po’ selvatici – filtra sempre attraverso la sua lente. Filtra i giorni, in cui agli assignments per le testate più note si alterna tutta un’altra fotografia per mano della stessa fotografa.
In ambito privato le fotografie sono decisamente dominate dalla presenza di Susan Sontag. Sontag fu un personaggio di grande impatto intellettuale nella scena americana (e non solo) e fu la compagna di Annie Leibovitz dal loro primo incontro nel 1989, in occasione della promozione del suo libro L’AIDS e le sue metafore, fino alla sua morte, risalente al 2004. Scrittrice, saggista, studiosa della società, Susan Sontag andò a completare con le parole un mondo fatto di immagini. Come notano i critici, e come la stessa Leibovitz ha confermato, fu Susan Sontag a rendere più profondo il suo lavoro. Nel 1993 Sontag partì per Sarajevo e volle che la sua compagna la seguisse per documentare la tragedia della guerra, degli ospedali, di un bambino in bicicletta colpito da una bomba. Il frutto di questo reportage sono immagini in bianco e nero di forte impatto emotivo – niente assistenti, nessuna grande rivista, riappropriarsi di una prospettiva. E, immagine dopo immagine, ritroviamo Susan Sontag: a Berlino, a Venezia, a Sarajevo in uno scantinato, a New York, su un battello sul Nilo. Un aspetto interessante è che negli anni 1973-76 Sontag scrisse un saggio, Sulla fotografia, nel quale emergono il suo forte interesse per il mondo dell’immagine e la sua spiccata sensibilità riguardo alle possibilità e ai significati che le immagini offrono e rappresentano. Possiamo così leggere Leibovitz attraverso Sontag.
Sempre restando nella sfera privata, troviamo i ritratti dei vari componenti della famiglia Leibovitz e delle tre bambine che Annie ha avuto recentemente attraverso la fecondazione artificiale. Ma soprattutto troviamo un profondo studio del dolore e del distacco, attraverso una serie di foto che documentano la morte del padre ed il calvario di Susan Sontag nella sua lotta contro il cancro. Sono immagini scomode, viste accanto ai ritratti di qualche languida attrice in un accostamento volutamente violento. Troviamo il degrado della malattia, un senso di dolore molto fisico, la voglia di esorcizzare il dolore stesso, e forse anche un atto di egoismo. Eppure una fotografia è questo ma anche molto di più. Nelle parole di Susan Sontag: “La fotografia dell’amante nascosta nel portafoglio di una donna sposata, il poster fotografico appeso sopra il letto di un adolescente, il distintivo con l’immagine di un uomo politico appuntato alla giacca di un elettore, le istantanee dei figli di un taxista tenute sul parabrezza e tutti gli altri usi talismanici delle fotografie esprimono una tendenza che è insieme sentimentale e implicitamente magica: sono tentativi di entrare in contatto con un’altra realtà o di avanzare pretese su di essa”. E sempre Sontag sottolinea la componente di egoismo e quella di narcisismo che aleggiano su questo mondo ora sfavillante nel colore ora seducente nel bianco e nero. “Le fotografie permettono finte forme di possesso: del passato, del presente, persino del futuro” e “la fotografia, che ha tanti usi narcisistici, è anche un potente strumento per spersonalizzare il nostro rapporto con il mondo”.

In tutto forse però possiamo vedere lei, colei che ha visto – filtrato – attraverso la propria lente. Tutto: i divi del cinema e la sua compagna, la guerra nelle strade di Sarajevo e la campagna della linea di intimo di Calvin Klein che segnò uno stile negli anni Novanta, il volto più vero dell’America (ha detto Hillary Clinton: “[Leibovitz] ha realizzato un grande lavoro di cronaca del nostro mondo, delle cose cui teniamo, di ciò che pensiamo”) ma anche il fascino del bel mondo internazionale. Un po’ come Richard Avedon prima di lei, che mescolava le fotografie per Vogue, un ritratto a Marella Agnelli e la rappresentazione del mondo rurale degli Stati Uniti. Riguardo a questa possibile dicotomia, Leibovitz ha ribadito: “Non ho due vite. Questa è una sola vita e le immagini personali ed il lavoro per le riviste ne fanno ugualmente parte”. Troviamo una conferma nel fatto che anche nei ritratti non strettamente legati al suo mondo (Susan, le bambine, i genitori) spesso si nota un tocco intimo molto forte. Nel caso della foto che ritrae Mikhail Baryshnikov e Rob Besserer su una spiaggia, ad esempio, troviamo un mondo di tale perfezione e semplicità che è naturale pensare alla complicità profonda tra il soggetto e l’artista. Chi meglio di Susan Sontag spiegherebbe a questo riguardo l’aspetto voyeuristico della situazione. Un’immagine che dipinge un grande equilibrio ed un momento privato. La osserviamo. Poi distogliamo lo sguardo. Per non disturbare.



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