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Casa Zimbabwe

1 luglio 2009
Pubblicato in Dossier
di Rocco Polin

Al tramonto sul tetto“San Francisco e la metà degli anni sessanta erano un bel tempo e un bel posto dove vivere. Forse ha significato qualcosa. O forse no, alla lunga… ma nessuna spiegazione, nessun insieme di parole o musiche o ricordi può toccare la consapevolezza di essere stato la, vivo, in quell’angolo di tempo e di mondo. Qualunque cosa significasse…
C’era una fantastica, universale impressione che qualunque cosa si facesse era giusta, che si stesse vincendo…Avevamo l’abbrivio noi: stavamo cavalcando un’onda altissima e meravigliosa…
Ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una qualsiasi collina a Las Vegas e guardare verso Ovest, e con gli occhi adatti potevi quasi vedere il segno dell’alta marea – quel punto in cui l’onda, alla fine, si è spezzata per tornare indietro”
Da “Fear and loathing in Las Vegas” di Hunter S. Tohmpson

Credo che dalla collinetta di Las Vegas, guardando a occidente alla ricerca del segno dell’alta marea, con gli occhi adatti si scorgerebbe un grosso edificio di pietra posizionato in posizione sopraelevata sul lato settentrionale del campus dell’Università di Berkeley. Quell’edificio giallo è rimasto attaccato alla sua collina e all’utopia degli anni in cui fu creato come certe cozze rimangono attaccate agli scogli, incuranti della marea che prima le sommerge e poi si ritira.

E’ una cooperativa studentesca, una comune, un centro sociale… chiamatela come volete, ufficialmente si chiama Casa Zimbabwe, in lingua Shona significa house of stone (facile il passaggio a “house of stoned”), in sigla CZ (da cui il soprannome Czars per i suoi abitanti) e conosciuta a Berkeley anche come Crakistan (questa non credo ci sia bisogno di spiegarla). Io ci ho vissuto un anno, studente in scambio presso l’Università’ della California e quella casa, la sua cultura e i suoi abitanti, sono stati l’elemento centrale e definitorio del mio anno all’estero.
Un anno all’estero che pensavo sarebbe stato all’insegna dello studio in una delle migliori università del mondo e che invece si è gradualmente trasformato in un’esperienza psichedelica in quello che ancora resiste della controcultura degli anni Sessanta. La morale dell’articolo è forse meglio anticiparla si dall’inizio: la parte migliore delle proprie esperienze all’estero è quella di cui alla partenza non si sospettava l’esistenza.

Casa Zimbabwe è una delle 17 case gestite dalla Berkeley Student Cooperative. Ce n’è una vegana, una afro, una gay, lesbian and transgender, alcune più alcoliche, altre più hippy, altre ancora silenziose e intellettuali. Ogni casa è gestita dal consiglio dei suoi abitanti che si riunisce la domenica sera e provvede a eleggere i managers (chi si occupa di riscuotere gli affitti, chi dell’approvvigionamento alimentare, chi della manutenzione della casa) e a discutere dei problemi della casa. Ogni membro è tenuto, in cambio di vitto e alloggio, a versare un affitto mensile e a fare cinque ore settimanali di lavoro. Le mansioni sono le più diverse: chi cucina la sera, chi lava i piatti, chi si occupa dell’orto di pomodori sul tetto, chi organizza feste nel weekend, chi si occupa del riciclaggio rifiuti, chi di scaricare film da internet… Una domenica sera, durante un consiglio particolarmente delirante, si è deciso che le ore di lavoro fatte nudi valgono il doppio e cosi, verso la fine del mese, con l’avvicinarsi del periodo delle multe, è frequente incontrare per la casa ragazzi e ragazze completamente nudi e armati di ramazza.

Abituarsi non è stato facile. All’inizio, quando ti invitano a meditare sul tetto, a fare yoga la domenica mattina, ad arrampicarsi nudi sugli alberi e a suonare la chitarra vorresti sbatterglielo in faccia il fallimento di quegli anni Sessanta di cui loro non sono che patetici avanzi. Vorresti farli vergognare dell’egoismo individualista della loro scelta, il sistema loro non lo combattono, lo ignorano. E il sistema, grato, li ignora a sua volta, permettendo il fiorire di questa isola di anarchia dove anything goes, le droghe sono accettate, il confine tra etero e gay e’ sempre più sfumato e un’ora di lavoro nudi vale doppio. La protesta è fallita, ormai rimane la provocazione. Una volta a semestre si corre tutti nudi per la biblioteca del campus. Cosa vuol dire? Gli viene mai in mente che in Iran e in tante altre parti del mondo nostri coetanei muoiono per il diritto di esprimere un’opinione libera? Che forse correre nudi in aula magna per scandalizzare il rettore è più insultante per le tante ragazze che non hanno nemmeno diritti ad un’istruzione in virtù del loro sesso che per il povero rettore costretto a vedere i nostri giovani culetti nudi?

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Poi però, seduti sul tetto con una birra, osservando gli incredibili colori del tramonto sopra la Baia di San Francisco, il fascino di questo strano posto di devianti e sognatori comincia a colpirti. Centoventi studenti: cristiani, induisti, ebrei e mussulmani, nerd informatici, spacciatori di ogni tipo di droga, europei in scambio, suonatori di chitarra, ottimi cuochi, pessimi cuochi, un pitone, un ratto, un cane, un uccello, un coniglio… come nella celebre canzone per bambini non c’erano i due unicorni ma a volte, in particolari stati mentali, capitava di vedere anche quelli.

Quando alle due di notte tornavo dalla biblioteca del campus dopo una notte di studio avevo la certezza di trovare qualcuno in cucina ad infornare biscotti. Mezz’ora dopo, intorno al tavolo della cucina, ai biscotti appena sfornati e ad una bottiglia di whisky ci si ritrovava in una decina a spettegolare degli amici comuni, a progettare demenziali feste a tema per i giorni successivi o a discutere di medio oriente (siamo pur sempre studenti di Berkeley, per Diana!).

Nota per il lettore: qui dovrebbe finire l’articolo, l’ultimo paragrafo è un mio delirio probabilmente incomprensibile, frutto in gran parte di meditazioni sintetiche.
Quello hippy potrebbe essere l’ultimo stadio di una civiltà occidentale ormai troppo prospera e viziata e finalmente al tramonto (nomen omen). Dietro a meditazioni, veganesimo e filosofie orientali in salsa hippy potrebbe forse in effetti nascondersi solo vuoto pneumatico. Una reazione sterile alla vittoria definitiva del mercato (con la sua sovrastruttura liberal-democratica), una reazione dovuta alla naturale e universale allergia ad ogni ordine definitivo. La storia si fa a Teheran e a Pechino, certo non a Casa Zimbabwe. Essa rimane però uno dei posti più piacevoli dove sedersi ad aspettare i barbari.



2 Responses to “Casa Zimbabwe”

  1. Riccardo scrive:

    Complimenti.
    Bello l’articolo, bella la foto con il Campanile che, forse permeato di spirito mediorientalista, diventa, nella luce del tramonto una novella torre almohade. Non lo ricordavo così: devi aver colto profondamente il punto di vista di CZ.
    Sono stato troppo poco e troppo fuori stagione a Berkeley: giusto l’istante per cogllier lo spirito del luogo, anche se in maniera razionale, purtroppo, senza viverlo.
    Neanche il tempo per riuscire a superare le mie diffidenze, il mio rifiuto di quell’aria che ancora pervade la zona (o almeno certe parti e persone del campus e delle vie intorno): peccato.
    Un genio che vive da quelle parti ed abita bella House of the rising sun, mi ha detto che la California è il Post-west.
    Mi ha fatto sorridere ritrovarlo qui. Il punto più estremo dell’occidente, il posto insieme più occidentale e quello meno: ai posteri capire di che razza e colore sia davvero il post(ancora)materialismo. O se esiste, magari perso nel Gourmet Ghetto.
    Forse siamo davvero troppo ad occidente, ed il mondo è rotondo, come mi ricordavano i mille occhi sottilissimi.
    Tutte le contraddizioni: chi va verso il tramonto per rinascere, chi nel tramonto ci si crogiola. Brutto vizio il nostro, dall’età dell’Oro a Spengler, fino ad oggi: sempre la stessa storia. Irrimediabilmente ego(euro)centrici.
    Ma in fondo continuare a tramontare, più che una posa huysmaniana e romantica, può esser la soluzione per risorgere ancora ed in continuazione: l’occidente prima o poi finisce, comincia la rinascita.
    Ecco gli hyppies mi hanno fregato ancora: dimenticavo da dove scrivo.
    Volunteers…

  2. rocco scrive:

    Bello Post-West, molto.
    Yehudah Halevi, poeta ebreo nella spagna islamica scrisse “I am at the ends of the West but my heart lies in the East”, ci pensavo spesso sul tetto guardando il tramonto sul Pacifico (vuoto di storia e di dei) e sognando il mio Mediterraneo (“ove vergine nacque Venere”).