Io sono l’Amore di Luca Guadagnino
La famiglia Recchi conduce un’esistenza serena e controllata, view prolungando le tradizioni e l’onore dell’alta borghesia industriale milanese. Il capostipite Tancredi e la sua bella moglie straniera, Emma, vivono, circondati da una servitù d’altri tempi, nella villa di famiglia con i loro tre rampolli, Gianluca, Elisabetta ed Edoardo, che si apprestano ad intraprendere le loro carriere nell’industria familiare. Nelle loro vite, regolate da rapporti formali e ingessati, irrompe Antonio, giovane cuoco di talento estraneo a questo mondo borghese e ipocrita. Un incontro non senza conseguenze, capace di fendere il muro di fredda compostezza che governa le relazioni umane, per suscitare il desiderio, l’amicizia e l’amore.
A dispetto della trama, apparentemente non troppo originale, e del titolo, che potrebbe farci confondere facilmente con uno degli ultimi film di Moccia, questo film è una piacevole rivelazione.
Guadagnino pattina sinuosamente sul cliché dell’alta borghesia milanese e del melodramma da saga familiare, per insinuarvi un’altra storia, ben più classica: quella dell’anima di una donna che, alla luce di un incontro, passando attraverso il dolore e la prova, rinasce e riscopre la vita. La storia di Amore e Psiche.
A partire dall’incontro con Antonio ogni personaggio e ogni aspetto dell’esistenza ritrova la sua autenticità e verità, nel bene e nel male. In una retorica sorretta da rapporti analogici e correlativi oggettivi si stemperano amore, memoria e morte.
Le afose colline liguri di ponente incarnano, in contrappunto con la fredda città, una natura non idealizzata, ma che è la forza dirompente di un ordine nascosto della realtà, non più esibito ed esposto come nelle ascisse marmoree delle architetture metropolitane.
L’alta cucina milanese si converte in correlativo dell’amore: il cibo si fa oggetto del desiderio, veicolo della cura – materna, fraterna, amicale – dell’amore. In un gioco proustiano di immagini, sapori e ricordi, Emma ritrova la memoria della sua patria, la Russia, e la intesse con il presente.
In una teoria di spigoli e piani incrociati appaiono le ultime tracce nascoste di una Milano che non esiste più e che sembra destinata ad una poetica e tragica morte. Come moderno Giotto, il regista adatta al suo quadro le linee rette e le curve di Villa Necchi Campiglio, primo singulto del razionalismo lombardo che fa da sfondo all’intera vicenda, per offrirci una Milano ridisegnata e trasfigurata da questo montaggio che diviene esso stesso architetturale.
La regia di Guadagnino è formalmente splendida, ma anche molto compiaciuta : architettata e anzi architettonica. Da un lato si sprecano le citazioni hitchcockiane, fino allo chignon di – una sorprendente – Tilda Swinton, che sembra uscire da La donna che visse due volte, dall’altro l’insistito montaggio parallelo tra il sesso e le api che impollinano i fiori è davvero insostenibile, ma diciamolo, l’impressione finale è che Guadagnino se lo possa davvero permettere.