Dove sta di casa la Rive Gauche nell’anno 2012?
Pubblicato in Opinioni
di Luca Ammirati
“Quella fu la fine della vita a Parigi. Parigi non sarebbe mai più stata la stessa anche se era sempre Parigi e tu cambiavi mentre cambiava lei. […] Per Parigi non ci sarà mai fine e i ricordi di chi ci ha vissuto differiscono tutti gli uni dagli altri. Si finiva sempre per tornarci, case a Parigi, cialis chiunque fossimo, viagra comunque essa fosse cambiata o quali che fossero le difficoltà, o la facilità con la quale si poteva raggiungerla. Parigi ne valeva sempre la pena e qualsiasi dono tu le portassi ne ricevevi qualcosa in cambio. Ma questa era la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici.”
Ernest Hemingway
Vale senz’altro la pena di citare testualmente la sublime chiusura di “Festa Mobile” per contestualizzare i tòpoi per antonomasia della cultura (letteraria e non solo) del Primo Novecento: Parigi e la sua Rive Gauche. La porzione della capitale a sud della Senna fu teatro e palcoscenico delle memorabili gesta compiute dagli scrittori, poeti, pittori, scultori, mecenati e artisti più significativi della cosiddetta Era Moderna.
Un impareggiabile meltin’ pot di differenti nazionalità, erudizione e intellettualità senza frontiere e per tutti i palati. Anzi, molto di più. Una sorta di epoca d’oro, capace di ergersi a vero e proprio immaginario collettivo, come da ultimo testimoniato in “Midnight in Paris”, opera del più freudiano dei registi, al secolo il Maestro Woody Allen. Un consiglio sempre attuale per chi desidera godersi una pellicola deliziosa, un riferimento cinematografico puntuale e preciso che omaggia i luoghi di tali nobili e mitologici misfatti nonché, con tutta probabilità, il sogno bagnato di chi ha girato il film (così come di chi vi scrive queste futili parole e di chiunque ambisca a forgiare, anche all’infuori di se stesso, un autore). Pensate un po’ quale indescrivibile bisboccia bersi un bicchiere col buon Ernest, che frattanto vi concede la grazia di dispensare qualche preziosa imbeccata sullo stile; o entrare in un locale e adocchiare gli spocchiosissimi (e ingestibili) coniugi Fitzgerald, mentre al pianoforte si esibisce l’eleganza arguta e sottile di Cole Porter; oppure ancora, in alternativa, non sarebbe magnifico andare a prendere un tè nell’ameno salotto di Gertrude Stein, avvalersi di costei nella veste di editor qualificato cui affidare il vostro ingarbugliato manoscritto e, nel bel mezzo della conversazione, essere interrotti dall’arrivo di un nuovo, gradito, interlocutore del calibro di Pablo Picasso?
Sfido io, dopo tutto questo entusiasmante ben di Dio, a non essere investiti dal sacro fuoco dell’ispirazione e a trarre in men che non si dica un romanzo di enfasi inusitata!
Tuttavia e come sempre, la verità ama farsi scudo con la più scintillante apparenza, e a nessuna consolazione valgono le infiltrazioni che tentano di squarciare le maglie di quest’ultima, per quanto patinate. Dietro i soliti monologhi nevrotici e i collaudati siparietti psicoanalitici di Mastro Woody, dietro la hit parade delle rimembranze e delle nostalgie da rivangare di “Festa Mobile”, dietro buona parte del disincanto generazionale sollevato dall’intera produzione fitzgeraldiana (in particolar modo nelle short stories), c’è un magone struggente, un SOS lanciato nell’oscurità del mare aperto, un richiamo della foresta non raccolto da anima viva. C’è quello che potremmo comunemente definire “il fascino irresistibile della malinconia”. Una malinconia quasi fisica verso anni irripetibili che se ne vanno, pur con le loro avversità sostanziali e con tutte le loro brave frustrazioni, e che non torneranno indietro. Mai più.
Riconsideriamo per un attimo lo spicciolo vademecum dell’intellettuale, comparando la Eldorado di allora con la Waste Land odierna. Oggigiorno, l’aggregazione degli scrittori e dei liberi pensatori avviene in prevalenza virtualmente, sui blog letterari o, peggio ancora, nell’indisciplinata e sovente stucchevole “sezione commenti” di un qualunque sito d’informazione, disinformazione o social network. Con annessi tutti i “se” e i “ma” del caso.
Ieri, gli amici Ernest e Francis Scott mangiavano ostriche e trangugiavano fiumi di vino insieme, litigavano e si prendevano a male parole, discutevano animatamente di donne, dissertavano con ardore (e ardire) indomito sull’utopia di una perfetta pulizia stilistica e circa la ricerca di una prosa che fosse simultaneamente fluida e onesta. Oggi, lo scambio di cibo nutriente per la mente appare svilito perché inflazionato mediante una banale connessione a internet, senza che nessuno più si preoccupi o faccia piuttosto caso alle connessioni concettuali, imprigionate tra le quattro mura di casa perché tanto è sufficiente un click o la pressione del tasto “Invio”.
Ieri, Ernest e Francis Scott stuzzicavano il loro intelletto risvegliando i sensi in pranzi che diventavano tardi pomeriggi, che si trasformavano in serate, che sfociavano infine in notti interminabili.
Dov’è oggi tutto questo? Dove sono gli Ernest, i Francis Scott e la Rive Gauche del 2012? Dov’è quel vagabondare meditabondo per le città percepito come esperienza che innalza lo spirito, dov’è quell’aria da perdenti cronici che fa a pugni ferocemente con la smania inarrestabile di perseguire le proprie aspirazioni e assecondare le proprie inclinazioni?
Forse questo è il costo da pagare per le semplificazioni estreme della tecnologia. Forse è la reticenza a crescere con le sole nostre forze, il nostro ostinato voler essere sempre come bambini che saltano sul lettone di mamma e papà finché il fiato sostiene l’azione. Forse, a ben vedere, è la condanna a vivere con la consapevolezza congenita che niente è più delicato e difficile del pieno apprezzamento del proprio presente e della propria Storia contemporanea. Specialmente a fronte di un passato nel quale ogni cosa era cultura e si riusciva persino ad essere “molto poveri e molto felici”.
Dove sono? Probabilmente sono altrove, dove lo spirito del tempo è più vivo e pulsante. Istanbul, Mumbai, Pechiino, New York, Sao Paolo… Chissà. E dove l’essenza dell’intellettuale non si riduce ad un giochino di cliché a passeggio e topoi da cartolina per turisti ingrassati, ma in una ricerca del vero. che è oltre la nostalgia per i tempi che furono.
E la tecnologia, in fondo, non c’entra nulla. A meno che non si voglia ritornare a fare gli Scriba sui papiri, per sentirsi più puri, veri ed intellettuali. Che in fondo, Gutenberg, è stato ben più devastante di Internet.
(per la verità, non è infrequente che intellettuali, in genere muniti di regolari consorti o irregolari badanti uzbeko-afghane, si ritrovino in osterìe de charme dell’alta Langa, dell’estremo Ponente ligure o altrove e, sorbendo lenti rossi di territorio ovvero alcoolici a gradazione attendibile, discutano de’ secoli trascorsi: non già in quanto superbi e sciocchi ma così, tanto perché il tempo passi)
Gentili signori,
anzitutto vi ringrazio sentitamente per i commenti, in buona misura dissenzienti quanto basta per affermare che il dibattito può essere particolarmente vivido e frizzante.
Partendo dalle osservazioni di Giovanni, non intendevo affatto mettere in dubbio l’esistenza di roccaforti di intellettuali nelle osterie di località geografiche più o meno disparate (concordando in special modo sulle motivazioni che spingono costoro ad aggregarsi). La mia riflessione era più che altro volta a ragionare sull’unicità di una situazione quale fu quella che si verificò nella Parigi di quegli anni. Cosa che, con tutto il rispetto, ad oggi non pare essersi ripetuta nel Ponente Ligure (a meno che non mi sia perso qualcosa), nelle Langhe, in Versilia o chissà dove altro.
Con questo, rispondendo anche a Franceso (o forse Francesco, mi scuso se sono in errore), non si vuole rimpiangere il passato o qualificarlo come migliore a tutti i costi. Probabilmente, come sempre, spetterà ai posteri l’ardua sentenza, ma come si può non riconoscere la straordinarietà della presenza di tanti e tali geni (di calibro mondiale assoluto) nel raggio di pochi chilometri? Mi ponevo altresì il dubbio se, potendo usufruire di internet e di una chat e senza incontrarsi mai, le cose sarebbero andate allo stesso modo. Magari sì, magari no: in fondo il bello è poterselo domandare e provare a fornire una chiave di lettura.
Le città citate sono meravigliose, l’una più dell’altra, ma ad oggi io resto con la Parigi che fu (e gli stessi intellettuali che ho citato, del resto, furono tremendi viaggiatori e cosmopoliti). E non perché magari sia un cliché trito e ritrito, altrimenti i cliché li potremmo tirare in ballo ovunque e quantunque (sulla possibilità di libero pensiero vigente in India e Cina ci sarebbe lungamente da discutere, ad esempio).
Ammetto, con sincerità e in ultima istanza, di essere magari un po’ di parte e di subire indiscutibilmente il fascino che esercitano, nella loro ricerca del vero, le vicissitudini e gli stati d’animo di quei mostri sacri della scrittura. Ma dopotutto, per chi vorrebbe umilmente tentare di ricalcare almeno un alluce delle loro orme, è poi possibile non subirlo?
ZELDA: Se n’è andato per tutta l’estate e l’inverno da circa cento anni. Non tornerà più a casa con le tasche piene di promesse e il cuore gonfio di nuove speranze. Scott, gli alberghi rumorosi si fanno desolati. Il passo è lento e strascicato. I vini sono deboli: i corni e i violini sono flebili, stasera. Oh Scott. Ho voglia di fare un falò di tutto il presente e di offrirlo al passato. Sullo schermo appare la parola FINE. Il rullo di coda può continuare a scorrere con la scritta seguente “Il 10 marzo 1948, nella cucina dietetica dello Higland Hospital di Asheville, divampò un incendio. Le fiamme salirono su per l’angusto condotto di un montavivande fino al tetto, e si propagarono a tutti i piani. Scale e corridoi si riempirono di fumo. Si vide un paio di calze appese a un filo sotto un portico all’ultimo piano danzare follemente nel vento suscitato dal calore dell’incendio. Perirono molte donne, sei delle quali intrappolate all’ultimo piano. Con loro morì Zelda. Il suo cadavere fu identificato grazie a una pantofola carbonizzata. Erano passati otto anni dalla morte di Scott”.