Buon Compleanno, Torino Film Festival!
Pubblicato in Segnalazioni
di Anna Gallo Selva
A pochi giorni dall’insediamento del nuovo Direttore, diagnosis Paolo Virzì, e mentre si stanno avvicendando nelle sale alcuni fra i tanti film che hanno saputo incantarci nel corso della 30° edizione del Torino Film Festival, ripercorriamone le tappe a nostro avviso più salienti, a partire dal poetico Wadjda, uscito i Italia col titolo “La bicicletta verde”, esordio al lungometraggio di Haifaa Al Mansour e primo film interamente girato in Arabia Saudita, con il quale la regista ci offre un coraggioso spaccato sulla condizione delle donne nel proprio Paese, aprendo una finestra di speranza sull’emancipazione delle giovani dotate di grandi potenzialità e di una buona dose d’audacia.
Per continuare con il surreale Ruby Sparks, che conferma il talento onirico della coppia cinematografica Dayton-Faris, già creatori del pluripremiato Little Miss Sunshine, che per l’occasione tirano fuori dal cilindro la commedia dolce-amara di una creatura immaginaria a cui viene offerta l’opportunità di una vita reale… con tutti gli alti e bassi che la realtà le potrà offrire.
Mentre aspettiamo impazienti l’uscita dell’indimenticabile Le fils de l’autre, della francese Lorraine Levy, che dà vita ad un profondissimo confronto interculturale attraverso l’escamotage narrativo di uno scambio di neonati fra due famiglie, rispettivamente israeliana e palestinese, scoperto solo quando i due figli hanno ormai raggiunto l’età adolescenziale ed hanno la propria visione del conflitto tra le due culture, maturata in seno al proprio ambiente di vita, ben sintetizzata nella dolorosa battuta di uno dei due ragazzi: “Io sono il mio peggior nemico, ma devo amarmi lo stesso”, volgiamo la nostra attenzione a quei film che più difficilmente vedremo all’interno delle programmazioni ufficiali.
Come il geniale Final Cut – Ladies and Gentlemen, dell’ungherese Gyorgy Palfi, ovvero la dimostrazione di come si possa realizzare un buon prodotto anche in tempi di severa recessione, se si hanno buone idee e raffinate capacità tecniche.
Come fare un film in un Paese che ha smesso di finanziare la cultura? Palfi non si rassegna e riunisce un cast d’eccezione, il più corposo della storia del cinema, chiamando a raccolta i più grandi interpreti cinematografici di tutti i tempi.
Nasce così Final Cut, che non è solo un giocoso puzzle di scene (molte indimenticabili) di film che hanno segnato la storia del cinema, ottimo spunto per una serata ad “indovina chi” fra amici, ma una vera e propria storia, che si nutre di frammenti di altre storie arrivando ad una sintesi originale.
Una nuova sceneggiatura, dunque, che dopo un po’ riesce a catturare lo spettatore fino al punto da fargli a tratti dimenticare che tutto quanto sta vedendo è, in realtà, un déjà vu.
Un’idea senza dubbio interessante, sostenuta da un lavoro capillare e maniacale di conoscenza, visione, analisi e montaggio di un numero incredibile di film di ogni epoca e genere.
Se Ken Loach, pur punendo un Festival che senza dubbio non lo meritava e che è tra i pochi ad investire ancora realmente sui giovani, ha avuto il coraggio di un gesto di coerenza estrema con le sue tematiche di sempre, rinunciando ad un prestigioso e meritatissimo riconoscimento per solidarietà con la drammatica condizione dei lavoratori precari del settore cultura (e non solo) in Italia, quella di Palfi è un’altra forma di denuncia allo stesso problema, giocata con grande senso di ironia ma non con minor consapevolezza.
O il peculiarissimo The Pervert’s Guide to Ideology, dell’eclettica Sophie Fiennes, un prezioso documento in cui il filosofo sloveno Slavoj Zizek ci mostra, in modo graffiante ed ironicamente impietoso, come la massificazione creata dai media condizioni fino a schiacciarla la mente dell’uomo contemporaneo.
Poetico ed intimista, Abigail Harm, di Lee Isaac Chung, trae spunto da un’antica leggenda coreana per narrare la storia di una donna matura che “osserva la vita senza viverla”, che si ritira dal mondo reale per addentrarsi in quello dell’immaginazione, dove finalmente può innamorarsi.
Ispirandosi al realismo di Cassavetes ed al suo lavoro sull’improvvisazione, Chung scrive una sceneggiatura che lascia poi scorrere tra le pieghe della sensibilità artistica della protagonista, l’intensa Amanda Plummer: ne nasce un’opera delicata, carica di immagini evocative e di un’atmosfera malinconica, sognante e rarefatta.
La giovanissima videoartista argentina Jazmin Lopez, classe 1984, sceglie un tema complesso per il suo esordio al lungometraggio.
Leones è una riflessione sulla morte, tanto più dolorosa in quanto riferita ad un’età in cui essa non dovrebbe essere presente.
La regista, operando la non convenzionale e non facile scelta di girare quasi in un unico piano sequenza, costruisce intorno ai suoi protagonisti un alone di sospensione spazio-temporale, facendo sì che lo spettatore sia proiettato in prima persona nella vicenda, co-protagonista inconsapevole fino al tragico momento di un’agnizione che non lascia scampo.
Delicato e al tempo stesso durissimo, Couleur de peau: miel narra la storia del suo regista e sceneggiatore, il coreano d’adozione belga Jung, a partire dall’omonima graphic novel da lui stesso scritta. Una pregevole opera prima sulla ricerca delle radici e sulla costruzione dell’identità, realizzata con la collaborazione di Laurent Boileau.
Probabilmente lo vedremo presto nelle nostre sale e sicuramente non mancherà di suscitare polemiche l’imperdibile The sessions di Ben Lewin, che ha il merito di affrontare senza fastidiose pruderie un argomento molto delicato e spesso considerato un vero e proprio tabù -i disabili e il sesso- regalandoci momenti leggeri e godibili e coinvolgendoci al tempo stesso in una riflessione intensa e profonda sulla necessità di essere protagonisti della propria vita a qualunque costo.
Ancora sulla fragilità e la caducità del genere umano, ma giocato in chiave leggera e giocosa, Robot & Frank, di Jake Schreier (sorprendentemente al suo esordio nel lungometraggio!), ci parla in modo gustoso ed originale di resilienza, ovvero della capacità dell’essere umano di far fronte in maniera positiva alle circostanze avverse, riorganizzando la propria vita e dandole nuovi slanci ed opportunità.
Ci spiace non abbia avuto i riscontri che a nostro avviso avrebbe meritato Terrados, amara ed attualissima opera prima dello spagnolo Demian Sabini (anche interprete) sulla difficile situazione dei tanti giovani (e meno giovani) precari e disoccupati in Spagna, coerentemente girata low budget e con l’apporto amichevole di attori e musicisti.
Riuscire a mantenere un tono complessivamente leggero, pur non risparmiando i retroscena di una condizione in cui atrocemente possono rispecchiarsi intere generazioni di tutta l’Europa, ci pare operazione degna di risalto morale ed artistico.
Sul versante documentaristico, impossibile non citare il giapponese The Cat that lived a million times, di Tadasuke Kotani, delicata e toccante storia sulla vita, sulla morte e sul senso di appartenenza, narrata a partire dalle pagine dell’omonimo libro di Yoko Sano, autrice ed illustratrice per l’infanzia molto poco convenzionale.
Immenso il rapporto estremo fra uomo e ambiente narrato da Leviathan, girato con sguardo etnoantropologico da Lucien Castaing-Taylor, docente presso l’Università di Harvard, che si è imbarcato sui pescherecci del Massachusetts, sopportandone i disagi per settimane, per calarsi nei panni non solo dei pescatori, ma anche degli animali d’acqua e d’aria e di tutti gli elementi naturali che rendono questo documentario vero, spietato ed affascinante al tempo stesso.
Chi abitualmente scrive di teatro non poteva infine tralasciare due “giganti” della scena di sempre e di quella contemporanea, eccezionalmente portati sul grande schermo.
In Concerto per attore solo, Ferruccio Marotti, docente ad autore di numerosi saggi e documentari di storia del teatro, ci offre uno sguardo dietro le quinte su un intenso lavoro di Carmelo Bene, qui eccezionalmente ripreso nell’inedita veste di regista.
Una vera e propria lezione di “anti-recitazione”, in cui il gesto e il suono si compongono su una partitura fisica e vocale mai data a priori, ma strenuamente cercata e trovata nel corpo dell’attore.
È un Macbeth grottesco, eccessivo, dissacrante ed impietoso, quello costruito da Carmelo Bene, regista rigoroso ed implacabile, che si propone di “evitare il pelo mentale attraverso l’osceno”, offrendoci “il terribile e, contemporaneamente, la parodia del terribile”.
È un geniale ed irriverente Amleto quello che l’amatissimo Filippo Timi ci regala in versione cinematografica 3D grazie all’innovativa regia di Felice Cappa: un’operazione che riesce a superare gli scetticismi e a restituire amplificata un’opera già di per sé di grande potenza, trasfigurandola e porgendola, intatta nel suo valore intrinseco, ad un pubblico non solo teatrale. Provare per credere!