Non tutte le elezioni sono uguali. Come diceva il buon Veltroni (sia pace all’anima sua) in alcune si cambia un governo in altre si cambia il paese. O per lo meno si segna una svolta decisiva nella sua storia politica.
La moderna storia americana, cialis come quella di tutte le democrazie, è scandita da un’alternarsi di presidenti e di diverse maggioranze al Senato e alla Camera dei Rappresentanti: un’accavallarsi di elezioni, di vittorie e di sconfitte a cui non è però semplice dare un senso complessivo.
Una delle interpretazioni più comuni è quella che vuole la storia dell’ultimo mezzo secolo divisa in due grandi periodi: un’epoca progressista che va dalla prima vittoria di Roosevelt nel 1932 alla vittoria di Nixon nel 1969 e un’epoca conservatrice che, iniziata proprio con Nixon, potrebbe (inshallah) concludersi con la vittoria di Obama il 4 Novembre 2008.
La lunga presidenza Roosevelt (unico presidente ad aver servito più di due mandati) indubbiamente rappresentò una svolta epocale. Gli Stati Uniti sotto la sua guida abbandonarono isolazionismo e liberalismo economico per abbracciare New Deal e impegno internazionale. Sotto la sua leadership il Partito Democratico americano guadagnò il sostegno, da allora fondamentale, dei neri americani: un’importante minoranza che aveva fino ad allora sostenuto il Partito Repubblicano (che dopo tutto era pur sempre il partito di Lincoln). La lunga presidenza Roosevelt cambiò quindi per sempre non solo la politica estera ed economica degli Usa ma lo stesso panorama elettorale.
Nel 1953 il candidato repubblicano, Dwight David Eisenhower, venne eletto presidente e lo rimase fino al 1962. Un nuovo consenso era però nato nel paese e l’insieme di riforme del New Deal non poté venire smantellato . L’epoca democratica non era dunque finita e a dimostrarlo vennero le successive vittorie di Kennedy e Johnson. Fu proprio sotto la presidenza di quest’ultimo, probabilmente uno dei presidenti più sottovalutati della storia americana, che l’era progressista raggiunse il suo culmine con il passaggio del Civil Right Act e delle riforme sociali che vanno sotto il nome di Great Society.
Nel 1969 la “maggioranza silenziosa” decise che ci si era spinti troppo in avanti. Era tempo di riprendere il controllo del paese mandando alla casa bianca un repubblicano, Richard Nixon. Lo scandalo del Watergate contribuì alla vittoria democratica del 1976 ma non v’è dubbio che la breve e poco gloriosa presidenza Carter non interruppe l’era conservatrice.
Questa raggiunse anzi il proprio culmine durante le due presidenze Reagan. Il consenso progressista che era stato alla base del New Deal e delle riforme della Great Society era ormai definitivamente tramontato: the state is not the solution, the state is the problem.
Come durante la presidenza di FDR, anche gli anni ’80 furono anni di radicale cambiamento del panorama elettorale. In quegli anni fecero infatti la loro apparizione i cosiddetti Reagan democrats, ex democratici vinti alla causa repubblicana.
Nel 1993, sconfiggendo il presidente in carica George Bush, Clinton mise fine a 13 anni di presidenza repubblicana. Era davvero la fine di un’epoca? Con il senno di poi possiamo tranquillamente rispondere di no.
Un anno dopo la sua elezione (per altro resa possibile dall’exploit di Ros Perot, candidato indipendente di destra) Clinton assistette impotente alla cosiddetta Republican Revolution: sotto la guida di Newt Gingrich il Grand Old Party conquistò, per la prima volta dopo 40 anni, la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Clinton fu costretto ad abbandonare parti importanti del suo programma come l’ambiziosa riforma sanitaria tanto voluta da sua moglie Hillary e ad adottare quella che a molti sembrò una versione soft dell’agenda repubblicana.
Ora, nel 2008, dopo quasi quarant’anni di egemonia conservatrice, dopo otto anni di presidenza Bush, due guerre fallimentari, una crisi economia disastrosa e la bancarotta ideologica del Partito Repubblicano, siamo forse nuovamente alla vigilia di una svolta radicale della storia politica americana? Ci sono ragioni per sperare. Stati da tempo considerati “rossi” (ovvero a certa maggioranza repubblicana) sono di nuovo in bilico, e questo nonostante Obama sia un candidato nero di Chicago (e non è un caso che gli unici candidati democratici vittoriosi dopo Johnson fossero invece entrambi uomini del Sud, Carter dalla Georgia e Clinton dall’Arkansas). Si parla inoltre (vedere l’Economist di settimana scorsa) dell’esistenza dei “conservatori per Obama”, un fenomeno speculare ai cosiddetti Reagan Democrats che potrebbe cambiare di nuovo la geografia elettorale del paese. Bisogna però tenere presente che una vittoria di Obama non significherebbe necessariamente l’inizio di un nuovo ciclo democratico, e le vittorie di Carter e Clinton sono lì a dimostrarlo.
Non ci resta insomma che utilizzare una frase tanto vera quanto abusata e ormai banale.
Ai posteri l’ardua sentenza.