Tra speranza e disperazione: impressioni lavorando con i giovani di Nairobi
Pubblicato in Attualità, Fiori
di Martino Ghielmi
Nairobi è una città caotica, costantemente intasata dal traffico di automobili, camion e matatu (i famosi pullmini a 14 posti che costituiscono l’unica forma di trasporto semi-pubblico). Nairobi è una città la cui struttura è profondamente segnata dall’ingiustizia, lasciata in eredità dai colonizzatori britannici: il 55% della popolazione vive in baraccopoli di fango e lamiera che in tutto occupano solamente il 5% della terra mentre alcuni quartieri residenziali e la zona del centro sono caratterizzati dal tenore di vita europeo se non nordamericano. Nairobi è una città caratterizzata dallo sfruttamento dei poveri, che quotidianamente escono dagli slum per cercare un lavoro “kibarua”, a giornata.
In questo contesto, due anni fa, si è tenuto il World Social Forum. Una settimana di intense discussioni, incontri e testimonianze accompagnati anche da incomprensioni, problemi irrisolti, illusioni. Qualcuno potrebbe chiedersi che segni lascia un evento di questa portata in una città che sembra essere interessata solo alla quotidiana sopravvivenza o al quotidiano arricchirsi. A prima vista sembrerebbe che spente le luci sul palcoscenico planetario del Forum, ognuno sia tornato alle proprie occupazioni, con la speranza che “un altro mondo è possibile”, ma con la certezza che questo non è vero qui o almeno non ancora.
Sono arrivato a Nairobi a fine Novembre, per trascorrere un anno di servizio civile con IPSIA (la ong delle ACLI) e dopo due mesi di permanenza ho avuto occasione di incontrare direttamente un segno lasciato dal Forum: due intensi week end organizzati dai giovani della parrocchia di Kariobangi (all’interno della quale si trova l’ormai celebre slum di Korogocho). Dopo una giornata di pulizia delle strade, una marcia tenutasi nonostante il maltempo, un sabato mattina di incontri su svariati temi e un concerto finale dentro lo slum, sono convinto che un qualche segno è rimasto.
Innanzitutto l’idea che per poter operare un cambiamento è necessario muoversi insieme, coinvolgendo quanti più giovani possibile (e non ne mancano, essendo oltre il 50% della popolazione sotto i 25 anni!). Ma anche che un cambiamento è necessario per evitare un collasso che sembra sempre più vicino (in queste settimane siamo esterrefatti dallo scandalo della crisi alimentare, che in Kenya rischia di colpire una persona su tre, aggravato dalla corruzione di funzionari che hanno venduto tonnellate di mais inviato come aiuto d’emergenza). E ancora che un cambiamento richiede il sacrificio di ognuno, evidente nella giornata di pulizia dello slum o nella marcia, tenutasi sotto una pioggia battente che trasformava i vicoli in torrenti di fango. E, per finire, che un cambiamento è davvero possibile.
I giovani kenyani, soprattuto quelli che provengono da un contesto sociale degradato come quello delle baraccopoli, tendono mediamente ad essere piuttosto rassegnati di fronte a una situazione che, oggettivamente, è disperata. C’è una grande maturità (a 18 anni si è considerati completamente adulti e si è spesso completamente indipendenti già da prima) accompagnata un’altrettanto grande speranza in astratto: la convinzione che può capitare a tutti di fare fortuna “Mungu Akipenda” (“se Dio vuole”). Questa convinzione, che rischia di sfociare in una fiducia magico-miracolistica nelle capacità di azione di Dio nel mondo, è accompagnata da una fortissima speranza ultraterrena, dalla convinzione che prima o poi le cose saranno sistemate dall’alto ma, in media, da poca speranza che un cambiamento sociale sia possibile anche grazie all’unione delle forze di ognuno.
La mia sfida maggiore è riuscire a sganciare la mia figura dallo stereotipo del Muzungu (bianco) che, in quanto pieno di soldi, può dare una mano a tutti e aiutare a realizzare qualsiasi progetto. Effettivamente noi bianchi siamo, in proporzione, pieni di soldi, e negare questo sarebbe soltanto illudersi di essere ad un livello paritario con gli africani, nascondendosi la differenza di reddito che pesa come un macigno in gran parte delle relazioni. Provare a condividere idee per iniziative comuni, anche incoraggiando una maggiore fiducia nelle proprie capacità è forse il maggiore obiettivo della mia presenza in questo contesto. Lavorare insieme alle comunità di origine, consapevoli che il successo di uno non può venire dallo sfruttamento dell’altro non è semplice, perché molto spesso le aspirazioni dei giovani che incontro tendono verso uno sfrenato individualismo, ma è una possibilità concreta.
Vedere la dinamicità di un evento come il Social Forum locale e incontrare quotidianamente giovani che si lanciano in piccole attività imprenditoriali di gruppo è qualcosa che ravviva la speranza che anche in un contesto difficilissimo esistano vie d’uscita e vie di resistenza ad un sistema disumano che si sorregge schiacciando le persone nella miseria.