L’incredibile storia dell’Araba Fenice
Pubblicato in Attualità, Fiori
di Stefania Coco Scalisi
there dal sito dell’agenzia di stampa iraniana Taqrib” src=”https://thetamarind.eu/wp-content/files/2011/02/taqrib-252×300.jpg” alt=”" width=”252″ height=”300″ />Tutto è iniziato con la Tunisia.
È stato nel paese di Bourghiba che le prime scintille rivoluzionarie sono scoccate. Eppure, finché i moti di protesta non hanno investito anche il vicino Egitto, nessuno dava così tanta importanza agli avvenimenti nella regione.
Questo perchè l’Egitto, storicamente e per dimensioni, riveste un ruolo più che centrale in quell’area e ogni suo sconvolgimento ha delle inevitabili ripercussioni sui Paesi vicini e sulle dinamiche dell’intero Medio Oriente.
Ma cosa sta davvero succedendo ?
Innanzitutto credo sia doveroso premettere che, a mio avviso, la contemporaneità delle proteste tanto in Algeria, quanto in Tunisia e Egitto, sia solo una coincidenza: non esiste insomma alcun progetto panarabo che possa alterare la geografia della regione. L’idea fallì quando vi erano le possibilità di renderla concreta e non potrebbe avere alcuna speranza di successo oggi.
Fatta questa doverosa premessa cerchiamo allora di capire come mai, dopo trent’anni di regime, gli egiziani siano improvvisamente scesi in piazza per tentare di rovesciare l`uomo che li ha governati per tutto questo tempo. La risposta potrebbe già essere in re ipsa, per usare un espressione cara ai giuristi. Dopo trent`anni, chiunque avrebbe voglia di voltare pagina e iniziare un nuovo capitolo.
Ma vi sono ragioni più complesse ed articolate che fanno luce sul perché gli egiziani hanno improvvisamente detto no a Hosni Mubarak. In particolar modo, vi sono almeno quattro buoni motivi per cui l’Egitto si è ritrovato di colpo sull`orlo della guerra civile :
i. Innanzitutto, Mubarak ha fallito nel dare agli egiziani le riforme promesse. Al contrario, la ricchezza del paese continua ad essere mal distribuita, la fiducia nelle istituzioni è sempre meno forte e la corruzione dilaga. Per ottenere qualsiasi cosa è infatti necessario pagare un piccola tangente (la ben nota baksheesh) o avere delle conoscenze (wasta).
ii. Un altro motivo è stata poi l`insistenza di Mubarak nell’imporre il figlio Gamal agli egiziani, i quali in diverse occasioni avevano mostrato la loro ostilità verso l`ipotesi di un passaggio di consegne da padre a figlio.
iii. Ed ancora, Mubarak ha sottovalutato la portata delle proteste. In Egitto i manifestanti hanno dimostrato di essere ben organizzati, di conoscere e utilizzare al meglio le potenzialità di strumenti come Facebook e Twitter. Di contro, invece, il governo si è avvalso della cara vecchia “politica del manganello” e ha inviato la polizia fin dentro le case e i negozi per intimidire la popolazione.
iv. Infine, e forse è questa la più grave ragione degli scontri, a Mubarak è sempre mancato un ‘progetto’ per l`Egitto. Si può dire di tutto su Gamal Abdel Nasser e Anwar Sadat, ma entrambi sapevano dove volevano portare il paese e avevano un piano per arrivarci. Nasser ha voluto provare a realizzare il sogno di un unione panaraba sotto la bandiera del socialismo e del non-allineamento, mentre Sadat ha cercato di rinsaldare l’orgoglio militare egiziano prima di stipulare la pace con Israele e avvicinarsi alla politica dell’Occidente. E Mubarak cosa ha offerto gli egiziani? Infrastrutture fatiscenti, decadenti condizioni socio-economiche, e fedeltà assoluta verso gli Stati Uniti.
E adesso, quale scenario si apre dopo le proteste? Con un pizzico di pessimismo di troppo, mi duole ammettere che credo nulla cambierà in Egitto. La strategia di Mubarak era evidente sin dall’inizio: cercare di guadagnare tempo fino a quando la febbre della protesta si fosse placata facendo promesse vaghe e prive di reale valore politico; cercando di dividere l’opposizione; giocando sulla paura occidentale di derive fondamentaliste; alimentando risentimenti nazionalisti contro le interferenze straniere; e proteggendo con cura le sue relazioni con la leadership militare.
Non a caso ha nominato come suo vice il generale Omar Suleiman in vista di un suo ritiro dalle scene, previsto per settembre. Ma a quali garanzie? Nessuno infatti garantirà che Mubarak mantenga la sua parola, nè le proteste hanno portato ad un vero e proprio cambio ai vertici.
Con buona probabilità saranno i militari adesso a gestire la transizione. La crisi infatti non li ha sfiorati ma anzi, una volta eliminato l`unico possibile candidato ‘civile’ alla successione, Gamal Mubarak, ha dato loro l`occasione di porre al comando del paese un loro membro, il generale Suleiman, per l`appunto.
Sono vicina a chi in questi giorni sta scendendo in piazza a protestare e ammiro profondamente la battaglia democratica che sta portando avanti. Ma da sola, la gente, non ce la potrà fare : è necessario che un volto nuovo, serio e credibile si ponga come alternativa al dominio granitico di Mubarak. Potrebbe essere El Baradei purché sappia conquistare la fiducia della genta e offrire quella sicurezza in nome della quale oggi la determinazione di alcuni protestanti inizia a vacillare. È necessario altresì che la comunità internazionale non abbandoni l’Egitto, soprattutto gli Stati Uniti, storicamente legati al paese, che devono pretendere di più di una semplice rassicurazione da chi dopo trent’anni di potere assoluto ha per la prima volta nominato un vice-presidente la settimana scorsa.
Se ciò non avvenisse, il rischio che l’Egitto potrebbe correre è quello di essere un Paese che ha provato a sognare ma che si è bruscamente risvegliato poco prima del lieto fine.