Il nastro bianco e il chiaroscuro del male
Pubblicato in Opinioni, Segnalazioni
di Anna Caterina Dalmasso
La quieta esistenza di un piccolo villaggio rurale della Germania protestante viene turbata da una serie di eventi delittuosi, medicine che hanno l’inquietante marchio di una violenza gratuita e vendicativa. Siamo nell’anno che precede lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Haneke tratteggia con orrore la società tedesca che assisterà di lì a poco alla guerra e alla nascita del nazismo. L’occhio del regista si innesta in un microcosmo feudale per studiare da vicino la genesi della violenza e del male che porteranno il popolo tedesco ad abbracciare l’ideologia hitleriana.
Di fronte agli eventi sconvolgenti che si susseguono, gli abitanti del villaggio sembrano in qualche modo accondiscendere a questi atti vendicativi e crudeli – che arrivano quasi a confondersi e scomparire nella miriade di soprusi e violenze che costellano i rapporti quotidiani della piccola comunità protestante. Ma, mentre la piccola colpa o la vendetta del singolo è scoperta, punita e condannata, (il figlio del contadino che falcia i cavoli del barone viene preso, il bambino che ruba lo zufolo di Sigi viene punito), questa violenza nascosta che mira nel silenzio le proprie vittime, secondo una logica indecifrabile, è in qualche modo legittimata, seppur tacitamente, dalla comunità, tanto più quando si configura come l’azione di una volontà occulta, di un gruppo. La giustizia spietata, la punizione del colpevole, l’eliminazione del diverso e del debole, perpetrata da un insieme di singoli, è accettata e giustificata. L’unione dei singoli legittima la violenza agli occhi della collettività. Innocenza e colpa si invertono. È il principio di ogni dittatura.
Al seguito del giovane maestro di scuola – unica figura del film animata da un’etica vissuta e da un desiderio positivo – che tenta di dipanare la vicenda, l’apparente intrigo poliziesco, accompagna lo spettatore nella scoperta di una società ipocrita, basata su un sistema di valori formali assolutizzati fino alla distorsione, dove l’autorità non ha altro ruolo che ripartire arbitrariamente la violenza di cui dispone, ed innalza simboli morali destinati a restare vuoti ed esteriori (come il nastro bianco che, appuntato nei capelli o sui vestiti dei bambini, dovrebbe additare loro la via dell’innocenza e della purezza).
Sullo sfondo, una natura modellata dall’agricoltura e ritmata dalle stagioni, fa da silenzioso contrappunto ad una realtà violentata dall’azione dell’uomo. La regia è affascinante, ma dalla metafora un po’ facile (del tipo: partenza dei soldati per la guerra / distesa di spighe di grano che stanno per essere falciate). La visione del film è coinvolgente e faticosa, ma non catartica. Lo spettatore è sensorialmente ripagato da una splendida fotografia, che fa pensare a Bergman o a Dreyer, ma che molto ricorda – e non solo nella fotografia – Un roi sans divertissement di Jean Giono, solo che al posto di una pellicola a colori che emula il bianco e nero, Haneke sceglie un bianco e nero tanto sfumato e luminoso da far presagire il colore – il film infatti è stato ripreso a colori e poi desaturato in fase di produzione.
Il mondo passato, che emerge dal bianco e nero bergmaniano, ci appare irreale, terribile, crudele, a tratti caricaturale. È davvero il mondo in cui sono cresciuti i nostri avi? I personaggi che popolano il villaggio tedesco, sono troppo stilizzati per essere una fedele ricostruzione storica o sociologica, troppo problematici e deliberatamente nevrotici per appartenere ad un mondo che non ha ancora varcato le soglie del secolo breve (basti pensare al lungo monologo del dottore con la levatrice, che scade nel ridicolo).
Il nastro bianco non possiede quella forza della verità che avrebbe un’opera tratta da una vicenda realmente accaduta, nè la potenza simbolica di un Dogville nel raccontare una parabola dell’umano, capace di attingere all’Assoluto.
Se Haneke ha dichiarato di « non aver voluto fare un film sul nazismo e sulla Germania », non si capisce perchè ambienti il suo film in Germania, tra l’inverno del 1913 e il giugno 1914. Ma sappiamo bene che l’opera supera sempre le intenzioni.
Quest’occhio che ci immerge nel presunto passato della Germania nazista, ci circonda di un universo lontano, irreale, quasi mitico. Ma, in fondo, che senso ha chiedersi se questo passato è davvero stato un presente? Al di là di ogni ideale di verità storica, quello che Haneke ci mostra – che è il vero motivo per cui il film è interessante – è il passato della Germania, il passato cioè che il popolo tedesco vive come proprio passato o che ha innalzato per permettersi di elaborarlo, rifiutarlo, superarlo, condannarlo, e che forse – come testimoniano i sempre più frequenti lavori artistici, e soprattutto cinematografici, dedicati a questo tema – risulta ancora inelaborato ed inelaborabile.