L’eterogeneità: da oggi un valore di partito?
Di Giacomo Valtolina • 11 mar 2008 • Categoria:Italia • Nessun commentoA distanza di soli sedici mesi si riparte. Dopo l’ultima, travagliata esperienza di governo si torna così, ancora una volta, a quell’incessante pratica che è la campagna elettorale, miscuglio confuso di retorica e demagogia, ma soprattutto di sforzi strategici troppo spesso fallimentari.
E siccome non si finisce mai, anche questa volta la campagna elettorale è solo il proseguimento dell’ultimo conflitto politico avvenuto nel 2006, dato che nessuno, nemmeno la principale forza di governo, ha mai cessato di pensare alle elezioni, come dimostra la lunga gestazione del Partito democratico in tandem con un debole esecutivo.
Di primo acchito tutto - dall’isolamento di Mastella (che paga oggi e in maniera bipartisan l’inaffidabilità e le follie dell’ultima legislatura) alla diminuzione delle liste, dall’ipotesi maggioritaria fino alla possibilità di un ritorno al vecchio pentapartito - potrebbe far pensare a una svolta in positivo, o a un radicale sconvolgimento del panorama politico. Invece no. Si tratta solo dello spostamento di alcuni pedoni, per liberare l’alfiere. Per le vere modifiche sullo scacchiere politico, se ci saranno, bisognerà aspettare ancora del tempo. Di certo non le si vedrà né il fatidico 13 aprile né, presumibilmente, nella prossima intensa legislatura.
L’unica vera novità - nonché simbolo dei fragili artifici che reggono la situazione - è l’eterogeneità, tanto demonizzata fino a ieri nelle coalizioni, ma che di colpo diventa strumento di democrazia interna per i partiti, inseguendo il sogno americano. Con il Pdl che punta sull’alleanza Capezzone-Mussolini-Dini per convincere gli elettori, mentre sul fronte Pd fin troppo scalpore hanno fatto le candidature ad effetto di Colaninno e, soprattutto, di Calearo.
Tuttavia, in tema di eterogeneità, le vicende più saporite riguardano quelle due liste - al momento ansiose di superare l’8%, di entrare al Senato e di ricreare, forse, un giorno, il pentapartito - che nostalgicamente si propongono come i discendenti (o presunti tali) di coloro i quali fecero la storia della prima repubblica: Dc e Pci. Certo che De Gasperi e Togliatti inorridirebbero al pensiero di siffatti eredi (e nuore), ma non è questo ciò che più sorprende. Ciò che più stona con le grandi tradizioni politiche che stanno alle spalle di questi nuovi soggetti - la Sinistra arcobaleno e l’Unione di centro - è la serie di scissioni e divisioni che ne hanno contraddistinto gli ultimi 15-20 anni.
Da un lato c’è gente che va (Follini-Pd, Giovanardi-Pdl) ma non gente che viene, tranne forse l’esule De Mita. C’è però gente che se ne va (Tabacci) ma poi torna (Tabacci) e gente che è in tribunale per “difendere” uno scudo, quello crociato. C’è gente che dal tribunale dovrebbe uscire solo scortata da uomini in divisa, e gente che, rifiutata, deve ritirarsi dall’impegno pubblico. Qui non c’è bisogno di nomi. Dall’altra invece la situazione è letteralmente (e banalmente) tragicomica: si sono attraversate quattro grandi transizioni di partito (nell’ordine Pci-Pds-Ds-Pd) e innumerevoli scissioni interne (Cossutta e Bertinotti prima, Diliberto, poi Folena, per concludere con Mussi e Salvi) per tornare poi in una sola notte tutti indissolubilmente insieme, di nuovo, dopo più di 7000 giorni in cui ogni parola fuori posto era motivo di una crisi ideologica.
Insomma dopo tutto ciò, individui come Mussi - che avevano resistito a tre dirottamenti del “loro” Pci seguendo progressisti prima e riformisti poi - tornano sui propri passi e si risposano con chi, vent’anni fa, se ne era andato per le più variegate ragioni. Ogni tentativo di armonizzare o trovare coerenza è vano. Fausto, dal canto suo, (soc)chiusi i battenti, messi in soffitta la falce e il martello e terminate le polemiche su sarti e tessuti con Cossutta e Diliberto, è tornato con loro, o con chi li aveva seguiti. Per non parlare del partito dei Verdi, la cui alleanza con il Pci non sarebbe stata mai nemmeno lontanamente immaginabile da nessun commentatore politico della belle époque.
Bene, in un’epoca in cui il neocomunismo è diventato la negazione del comunismo e in cui l’imbarazzante alleanza rosso-verde sembra ormai indissolubile nonostante le evidenti antinomie, si spera almeno che il gesto di Diliberto di cedere la sua poltrona sia davvero meritevole di elogi e non nasconda chissà quale altro intrigo. Intrighi che è comunque lecito aspettarsi già nei primi sei mesi, se non nei primi giorni, della prossima, più che controversa, legislatura.
Giacomo Valtolina Giacomo Valtolina, giornalista milanese, classe 1983.
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