Via Padova: una rivolta d’integrati

marzo 1st, 2010 by Shady Hamadi | No Comments

Via Padova: una rivolta d'integrati

La rivolta degli egiziani di quel sabato notte non era questione d’integrazione. Per esperienza personale e per il mio vissuto, posso tranquillamente affermare che gli egiziani in Italia non hanno nulla da invidiare ai nostri magut, “muratori’” bergamaschi famosi per la loro indole lavoratrice. Uno dei motivi della protesta degli egiziani è stato vedere il corpo del ragazzo ucciso “egiziano anche lui” di nome Aziz, lasciato per la bellezza di 3 ore su un marciapiede per permettere i rilevamenti delle forze dell’ordine. Un secondo motivo che ha fatto scaturire la rivolta è stato il futile motivo per cui è stato ucciso il ragazzo. Gli stessi egiziani che abitano in via Padova in quell’istante hanno sentito l’insicurezza e la fragilità della vita vedendo quel ragazzo loro compaesano morto a terra solo perché aveva pestato per sbaglio il piede di un ragazzo di queste famose bande latine. Ora: gli atti compiuti dagli egiziani non sono assolutamente giustificabili. Non è giustificabile la distruzione di negozi e di macchine solo perché i proprietari sono colpevoli di essere della stessa nazionalità degli assassini di Aziz. Quegli atti vandalici, ai quali per altro non hanno partecipato i famigliari della vittima perché consapevoli del cattivo significato di quelle azioni, hanno rafforzato solo l’idea dei cittadini Italiani di via Padova che gli immigrati sono padroni del territorio e non integrati… nulla di più sbagliato. La polizia ha subito arrestato 4 clandestini di nazionalità egiziana, accertando l’identità di altri 37 che avevano partecipato alla rivolta. E se poi parliamo d’integrazione… beh la maggior parte di quegli egiziani che hanno partecipato alla rivolta vivono in via Padova in appartamenti affittati da italiani, spesso con altre 6 o 7 persone di varie nazionalità con cui dividere la casa. Eppure tutta questa gente la mattina ci saluta quando usciamo dalle nostre case perché portano i sacchi dell’immondizia, e in quel momento non ci fanno paura. Ci portano la pizza a casa spesso o andiamo noi nelle loro pizzerie, li salutiamo, diventiamo anche loro clienti fissi: in quel momento non sono forse integrati? Li vediamo parte della nostra società solo quando lavorano? Invece quando sono fuori dai phone center, i nostri stessi egiziani che puliscono il condominio, intenti a fumare per strada e scherzare ad alta voce, allora non sono più integrati? Ne abbiamo paura. Hanno il controllo del territorio di via Padova? Sì, quello che va dai bidoni condominiali della nettezza urbana ai camion delle aziende di smaltimento rifiuti. La rivolta che abbiamo visto è stata una battaglia tra poveri e certo hanno sbagliato e devono pagare perché viviamo in uno stato di legalità e ordine ma soprattutto siamo e stiamo diventando sempre di più una società multietnica. Spero che gli assassini di Aziz paghino anche loro insieme a chi ha causato disordini quel sabato notte…


Ripartire da Rosarno

gennaio 13th, 2010 by Carolina Saporiti | No Comments

Ripartire da Rosarno

I toni come sempre sono alti, le dichiarazioni politiche scorrono come fiumi in piena, ma chi in questa vicenda si è preso un attimo per analizzare i fatti e riflettervi? Pochi. Troppo pochi. Però quello che è accaduto per due notti e due giorni a Rosarno merita un altro tipo di attenzione, oltre quello delle polemiche post-incidente. Si tratta di una caccia all’uomo, all’uomo nero, dopo una guerriglia e l’incendio della sua abitazione, se così si può chiamare un ovile diroccato, dove non arriva né acqua, né luce e dove non ci sono i bagni. E dopo gli scontri, gli immigrati, clandestini e non, del paese, sono stati deportati dalla polizia nei centri di accoglienza sull’altro lato della costa della Calabria. Non è il 1943, siamo nel 2010, siamo in Italia, uno Stato certo giovane, ma che non manca di storia, che ha vissuto momenti tragici della storia, da cui ha imparato molto: uno Stato che dovrebbe potersi dire “civile” a testa alta.
Non solo. Nonostante abbia conosciuto il fenomeno dell’immigrazione piuttosto recentemente, la nostra popolazione è sempre stata identificata per la sua ospitalità, ma questa virtù si è alleggerita col passare degli anni. In più, abbiamo da fare i conti con la nostra più grande piaga, la mafia. La ‘ndrangheta è un potere costituito, la più potente delle organizzazioni criminali, che tra le altre “occupazioni” gestisce gli immigrati della Calabria da quindici o vent’anni, destinandoli alla raccolta di arance, mandarini e bergamotti nelle fasulle cooperative agricole e che se ne approfitta trattenendo un pizzo sul loro stipendio di giornata -una manciata di euro per dodici ore di lavoro. Fasulle perché spesso –e non solo a Rosarno e in Calabria, ma anche in Lombardia, Veneto, Campania, Sicilia e Puglia- all’Inps risultano registrati come braccianti agricoli i disoccupati della piana di Gioia Tauro, ma i veri lavoratori delle terre sono gli immigrati, pagati in nero e, la maggior parte di loro, senza la possibilità di mettersi in regola.
Oltre a chiedersi dov’erano il Governo, il Prefetto, il Questore, il Comandante dei carabinieri e il Governatore della Regione, anzi prima di chiederselo, occorre che ognuno di noi rifletta sul ruolo che gli immigrati hanno nella nostra vita quotidiana e sul fatto innegabile che la forza lavoro costituita dalle loro braccia e dalla loro testa è ormai indispensabile all’economia dell’Italia perché non sono molti gli italiani disposti a raccogliere arance, specialmente per 15 euro al giorno.
Per una volta, invece che colpevolizzare e accusare, bisognerebbe riflettere sul potere che la mafia detiene da quarant’anni in Calabria e che non rovina la vita solo agli immigrati, ma anche, e da più tempo, ai cittadini nativi di Rosarno e dei paesi vicini.


A scuola di religioni

ottobre 20th, 2009 by Rassmea Salah | 2 Comments

A scuola di religioni

Se meno di due secoli fa l’Italia era un Paese di emigrazione verso le Americhe e l’Australia, negli ultimi dieci/quindici anni si è trasformata in un faro per l’immigrazione proveniente dal bacino a sud del Mediterraneo, comportando una drastica trasformazione della società italiana e della sua componente anagrafica.
Basti entrare in una scuola primaria per capire come sarà l’Italia del domani: multietnica, multiculturale e multi religiosa. Figli di africani, cinesi, arabi e latino americani, ciascuno con il proprio bagaglio culturale, le proprie tradizioni, la propria lingua madre e la propria religione. Integrati in un sistema scolastico italiano ed italofoni, ma non assimilati od omologati ad un modello standard di “italianità”.
Se fino a qualche tempo fa nell’immaginario collettivo l’identità culturale italiana era infatti intrinsecamente legata a quella religiosa cattolica, ecco che l’immigrazione (anzi la Seconda Generazione) cambia le carte in tavola. Cittadinanza e religione si scindono, creando nuove combinazioni identitarie che prevedono altre forme di italianità sinora mai viste: nuovi italiani che non frequentano la Chiesa la domenica mattina ma che appartengono invece ad altre confessioni religiose.
Tutto questo ci porta inevitabilmente a confrontarci con la nuova realtà confessionale del nostro Paese che non è più omogeneo e cattolico ma che vanta la presenza di altre minoranze religiosi molto numerose ed attive, i cui fedeli sono spesso sia credenti che praticanti.
Di fronte a tale complessità ci si chiede quale possa essere il ruolo della scuola pubblica nell’accelerare il processo non solo di integrazione dei figli di immigrati ma anche di interazione fra questi ultimi e i loro compagni di classe italiani. Ritengo sia finalmente giunta l’ora di un interscambio alla pari fra nuovi e “vecchi” italiani, di dare ma anche di ricevere dall’Altro qualcosa, un insegnamento, un’esperienza, la conoscenza di una realtà diversa dalla propria. È giunta l’ora di abbattere quelle diffidenze, quelle paure e quei pregiudizi verso l’Altro che sono frutto di una ignoranza colmabile solo attraverso la reciproca conoscenza e il mutuo rispetto.
Per raggiungere questo obiettivo i programmi scolastici si dovrebbero adattare e conformare alla realtà, non certo riservando un’ora alla settimana all’esclusivo insegnamento di una o dell’altra religione, bensì offrendo a tutti gli studenti un corso di storia delle religioni che dia loro gli strumenti culturali per iniziare una reciproca conoscenza, una serena accettazione dell’Altro e delle sue diversità culturali, un concreto dialogo interreligioso che ponga delle basi solide per la stabilità sociale della nostra Italia del futuro.
L’ora di religione, spesso così sottovalutata dagli studenti (che sempre più la considerano “un’ora d’aria”), e dalle istituzioni scolastiche (che non la reputano alla pari delle altre materie, definendola facoltativa e impedendole di far media nelle pagelle) dovrebbe invece diventare obbligatoria per tutti, e dovrebbe, attraverso l’insegnamento di tutte le religioni professate in Italia, offrire un’occasione seria di confronto, di crescita e di dialogo fra quanti un domani si ritroveranno a condividere uno stesso spazio sociale, lavorativo e pubblico.


Jan the Plummer, Tony Montana e l’Economia Europea

luglio 18th, 2009 by Pamela Campa | 13 Comments

Jan the Plummer, Tony Montana e l’Economia Europea

Alcuni giornali progressisti europei hanno sottolineato, nei giorni passati, la sorpresa di un’ultra destra che incalza in una fase di crisi economica, quando invece certe politiche social-democratiche dovrebbero esercitare un forte potere di attrazione sugli elettori.
In realtà, i risultati delle recenti elezioni non smentiscono l’ipotesi che i cittadini abbiano bisogno di protezione. Tuttavia, mentre a priori i socialisti ritenevano che gli elettori europei volessero essere protetti dal liberismo economico senza se e senza ma, il vero spauracchio da cui molti vogliono essere salvaguardati sembrerebbe un altro: l’immigrato. L’ultra destra, con il suo linguaggio aggressivo, il suo programma politico intransigente, la sua promessa di “ripulire” le nostre città da pelli “abbronzate”, bene intercetta le paure di un certo elettorato disorientato dalla disoccupazione crescente, e che alla domanda “perché non ho un lavoro”? finisce per rispodere “è colpa degli immigrati”. Domanda ragionevole. Risposta meno condivisibile, almeno da un punto di vista della letteratura economica, che non trova evidenza empirica per molte paure che segnano in parte le decisioni di voto degli Europei.
È vero che l’immigrazione è un fenomeno in crescita nel Vecchio Continente. Ed è vero che l’immigrazione dall’estero, e quindi un aumento della diversità nella popolazione, provoca diversi cambiamenti al sistema economico. Tuttavia, questi cambiamenti non sono necessariamente negativi.
Nei Paesi più ricchi, ad esempio, la diversità può stimolare la crescita economica, il che è consistente con l’evidenza empirica in organizzazione aziendale, che documenta che teams eterogenei raggiungono, anche se in tempi spesso più lunghi, soluzioni migliori ad un dato problema.
Inoltre, un Paese più diverso potrebbe presentare una quantità minore di beni pubblici  (istruzione, strade, ospedali, per citarne alcuni) soprattutto nel momento in cui i vari gruppi etnici hanno diritto di voto, e si scontrano su questioni sensibili a livello di etnia, quali l’insegnamento di due lingue presso le scuole pubbliche. Una delle previsioni più interessanti (quasi una profezia) che ne derivano è che al crescere dell’immigrazione in Europa, alcuni movimenti politici potrebbero sfruttare strumentalmente la leva etnica per ridurre il welfare-state in maniera rilevante. L’oppurtunità o meno di questa riduzione dipenderà dal particolare contesto socio-politico.
Più vicini alle paure che agitano i sonni dei cittadini europei sono gli effetti dell’immigrazione sul mercato del lavoro. La paura di Jan Kowalczyk (per gli amici Joe, l’idraulico polacco che ti ruba il lavoro) in Francia è stato il tema ricorrente della campagna francese contro la Costituzione Europea. La posizione della letteratura economica al proposito è quantomeno incerta. La teoria economica dominante suggerisce che, nel caso in cui l’immigrazione sia prevalentemente non qualificata e non istruita, i flussi migratori causano una contrazione dei salari per i lavoratori “unskilled”, e quindi un aumento delle disuguaglianze salariali tra lavoratori qualificati e non. Tuttavia, tale previsione teorica non è supportata da evidenza empirica credibile. I risultati di alcune ricerche che sfruttano flussi migratori eccezionali e concentrati nel tempo potrebbero aiutare molti europei a dormire sonni più tranquilli, anche se, addormentandosi, dovessero pensare che in quel momento un altro barcone è salpato dalla Libia con destinazione Europa. Si possono citare, tra gli altri, il caso dei flussi migratori dei primi anni ´60 legati alle vicende algerine, che hanno determinato un incremento consistente della forza lavoro in Francia (+1.6%), ma un effetto trascurabile sui livelli salariali.  O ancora, si può guardare alle turbolenze nel mercato del lavoro di Miami nella primavera del 1980, quando Castro introdusse uno shock nella politica cubana di ostacolo all’emigrazione, dichiarando che, chi volesse lasciare Cuba, poteva inseguire il proprio sogno americano salpando dal porto di Mariel. Un confronto degli sviluppi nel mercato del lavoro dell’area di Miami, che accolse la maggior parte degli emigranti “in fuga” (tra cui Tony Montana), con un gruppo di città con caratteristiche socio-economiche simili, trova un impatto non significativo su occupazione e salari dei lavoratori afro-americani, ovvero quelli che, a giudicare dai dati sul mercato del lavoro di Miami, hanno livelli di educazione e abilità più bassi.
E del resto, anche supposto che, a dispetto di quanto suggerito dagli studi citati, ci sia un effetto dell’immigrazione sul mercato del lavoro, le 8 ore di sonno per notte del cittadino Europeo preoccupato dall’arrivo degli immigrati dovrebbero in ogni modo essere salve, perché l’immigrazione spesso fornisce forza lavoro ad occupazioni che, per livello di istruzione richiesto e mansioni svolte, non corrispondono al profilo della maggior parte dei cittadini Europei. Quanti giovani italiani sono disposti a lavorare nella raccolta dei pomodori sotto il sole cocente della Puglia d’estate? Quante ragazze francesi dividerebbero la casa con un’anziana donna malata che ha bisogno di assistenza 24 ore su 24, se pur ben pagate?
In definitiva, la risposta “è colpa dell’immigrato”, non sembra ragionevole in prospettiva economica. Né acquisisce uno status migliore se la si considera in prospettiva storica e anche etica. E’ banale, ma cruciale, ricordare che l’Italia è stato un Paese da cui sono salpate, nel dopoguerra, navi per le Americhe, e sono partiti treni per la Germania, la Svizzera, la Francia. Anche grazie alla valvola di sfogo costituita dall’emigrazione, l’Italia è diventata da Paese da cui si fugge Paese che riceve.
La speranza ora è che diventi, se pur a fatica, Paese che integra. Conoscere, constatare che gli effetti di lungo periodo dell’immigrazione non sono necessariamente negativi, e quindi auspicare che poco a poco i cittadini europei ne divengano consapevoli, rende la speranza di integrazione qualcosa di più che un’utopia.

PER SAPERNE DI PIÙ
Alesina, Alberto and Eliana La Ferrara. “Ethnic Diversity Economic Performance,” Journal of Economic Literature, 2005

Alesina, A. and E. Glaeser (2004), Fighting poverty in the US and Europe: a world of difference, Oxford University Press
Alesina, A., R. Baqir and W. Easterly (1999), “Public Goods and Ethnic Divisions”, Quarterly Journal of Economics, 114 (4), 1243-1284.
Borjas (1999) “The Economic Analysis of Immigration,” in Handbook of Labor Economics, Volume 3A, edited by Orley Ashenfelter and David Card, North-Holland, 1999, pp. 1697-1760.
Card  (1990) The Impact of the Mariel Boatlift on the Miami Labor Market.. Industrial and Labor Relations Review, Vol. 43, No. 2. (Jan., 1990), pp. 245-257
Cahuc, André Zylberberg  (2004) Labor Economics By MIT PRESS, Chapter 10
Hunt J. (1990) “The Impact of …


Immigrazione: alcune proposte

febbraio 5th, 2009 by Erik Burckhardt | 3 Comments

Immigrazione: alcune proposte

La base sulla quale costruire la soluzione ad uno dei problemi più sentiti dagli italiani potrebbe essere una serena autocritica.
Per evitare di scadere nell’idealismo, occorre ragionare in termini realistici. Impossibile pensare all’Italia come al paese dalle porte e frontiere aperte: una società ha bisogno d’ordine ed uno Stato non può che garantirlo allineandosi e giocando con lo ius gentium e le realtà che gli sono contemporanee.
Sono d’accordo con chi sostiene che l’Unione europea debba incrementare gli aiuti economici e politici all’Italia (attualmente già notevoli) in quanto paese più esposto al fenomeno dell’immigrazione clandestina. È doveroso negli stessi interessi degli Stati dell’UE che, con il principio di libera circolazione e soprattutto con il Trattato di Schengen, rischiano di essere raggiunti in seconda battuta senza particolari ostacoli.
Tuttavia, mi preme sottolineare che la politica d’immigrazione concertata tra gli Stati UE deve essere soprattutto orientata a intervenire con convinzione sul sostentamento dei paesi di origine, nonché sulla collaborazione con quest’ultimi. Lungi dall’essere di facile applicazione, questo proposito implica anzitutto un ridimensionamento dello sfruttamento delle risorse dei detti paesi (soprattutto africani). Ovvio che ciò inciderebbe brutalmente sulle nostre economie, ma oltre ad essere un comportamento moralmente giudizioso, penso che esso inciderebbe assai anche sui flussi migratori.
Per quello che attiene la nostra politica interna, l’Italia deve continuare a regolare scrupolosamente l’immigrazione, ma soprattutto deve imparare a farlo più efficacemente. A questo proposito si deve anzitutto imparare a rinunciare a orrori legislativi utili solo a fini mediatici e demagogico-elettorali. A meno che non si confidi in un servizio d’ordine magicamente perfetto (quanto inumano), capace d’isolare completamente l’Italia (e gli Italiani!) ergendo un muro lungo 5000 km di costa e lungo tutti i confini, in grado inoltre di scovare ogni infiltrato per poi rispedirlo prontamente nel suo paese d’origine, abbandonandolo al suo disperato destino; a meno che non si confidi in questo, il lavoro svolto negli ultimi anni appare decisamente insoddisfacente. Nell’assurda idea di combattere l’immigrazione di cui l’Italia, tra l’altro, ha disperato bisogno, si è finito per promuovere l’immigrazione clandestina. Nella fallace risoluzione di “non permettere che si rubino i posti di lavoro agli Italiani”, si è finito con il promuovere il lavoro nero d’immigrati ed autoctoni. E tutto ciò, naturalmente, non fa bene né agli immigrati, né all’Italia.
Considero che quando una legge non è buona e non rispecchia la realtà sociale, finisce inevitabilmente per non essere rispettata. Una norma regola, organizza. E perché sia una buona legge deve organizzare efficacemente, altrimenti mette a repentaglio non soltanto la credibilità della norma stessa, bensì quella di tutto il sistema.
Mi sembra che sia esattamente quello che sta avvenendo nel nostro paese. Il risultato dell’inattuabilità delle confuse politiche migratorie attuali è che ad un immigrato l’Italia appare immediatamente come un paese incoerente, dove le leggi non si rispettano, dove le regole si possono raggirare, dove i vigili si voltano dall’altra parte. Ciò è drammatico perché si attiva un meccanismo a catena che svincola la realtà sociale dal sistema legale. È il trionfo delle clandestinità: commerci nei retrobottega, lavoro a nero, furtarelli, false identità, ma è anche la sconfitta dei diritti soggettivi. Giacché il soggetto non è riconosciuto, lo Stato non lo tutela (in definitiva neanche da un punto di vista sanitario!) e non ne riconosce quindi più neanche la dignità umana. E oltretutto se il soggetto non si vede applicare le leggi di tutela, figuriamoci quanto egli si senta oggetto di quelle che gli prescrivono dei comportamenti virtuosi e morali.
La strada da percorrere è, a mio avviso, tutt’altra. Occorre che si spieghi chiaramente alla società civile che gli immigrati ci servono, che anche se non ci servissero ce ne saranno inevitabilmente sempre di più, che ogni condominio sarà abitato da una grande percentuale di immigrati e che le classi dei nostri figli saranno multietniche. Occorre spiegare ai cittadini che su questo punto non hanno scelta, si devono adeguare.
Ciò che invece i cittadini possono scegliere è il riconoscere o meno l’esistenza, e quindi la dignità, degli immigrati in Italia. Possono scegliere se concedergli un permesso di soggiorno oppure no, possono scegliere se farli lavorare in nero o regolari, possono scegliere se garantirgli un’assistenza sanitaria oppure no, possono scegliere se permettere ai loro figli di andare a scuola oppure no. In un caso, i cittadini fanno i conti con la realtà e decidono di regolare responsabilmente il fenomeno, nell’altro chiudono gli occhi condannando gli immigrati all’emarginazione e se stessi ai risultati che ne conseguono.
Esistono tecniche per regolare i flussi, ma per garantirne l’efficacia bisogna riconoscere che saranno sempre più sostanziosi. Esistono anche tecniche per regolare gli arrivi ed il collocamento, basta imparare a prevederli realisticamente e ad organizzarli responsabilmente dal paese d’origine per mezzo dei consolati e delle ambasciate. Ed infine, come ho già avuto modo di dire, esiste anche un modo infallibile per limitare il fenomeno dell’emigrazione, bisogna però imperiosamente attivarsi per una politica internazionale responsabile ed equa. Su questo punto spero che gli Stati Uniti, il paese delle nostre emigrazioni di massa, tornino finalmente a dare il buon esempio.


Immigrazione: alcune riflessioni

febbraio 2nd, 2009 by Erik Burckhardt | 2 Comments

Immigrazione: alcune riflessioni

Le crisi acute del cronico problema legato all’immigrazione si fanno sempre più frequenti, occorre dunque interrogarsi sul significato del fenomeno che tanto preoccupa gli italiani.
Il sogno è quello di un mondo cosmopolita talmente equilibrato quanto all’economia ed ai diritti sociali, da permettere ad ogni individuo di vivere dignitosamente nella e della propria terra.
Questa è tuttavia una riflessione indirizzata alle analisi ed alle proposte politiche, occorre dunque attenersi alle ingenti problematiche della nostra polis, della nostra società.
L’immigrazione è l’immediata conseguenza di un altro fenomeno: l’emigrazione. Entrare in un paese per stabilirvisi, significa abbandonarne un altro. Può apparire banale, ma in realtà questo particolare non è povero di significato. L’emigrazione-immigrazione esprime così una situazione dinamica, un movimento che rompe la staticità. Tale dinamicità sottende necessariamente un’energia, una causa.
Giungiamo così ad un elemento imprescindibile della nostra analisi. Un individuo per muoversi, per rompere l’inerzia, deve averne una ragione. Una causa che può concretizzarsi nelle più disparate forme e può risiedere tanto nella volontà di emigrare (volontà di fuggire dal paese di provenienza per noia, solitudine, disoccupazione, violenze, guerre, fame), tanto in quella di immigrare (essere attratti dal paese d’accoglimento per interessi culturali, affetti, opportunità di lavoro, sopravvivenza), tanto in entrambe le cose.
Tutto ciò appare scontato, ma va evidenziato poiché di frequente, politici e cittadini sembrano dimenticarlo quando riflettono e discutono sul nostro tema. I barconi pieni d’immigrati clandestini per noi indicano spesso solo il fenomeno ed il problema dell’immigrazione, e finiamo per dimenticare l’imprescindibile presupposto: quei clandestini hanno una provenienza, sono anche degli emigrati. E se dimentichiamo questo elemento complementare all’immigrazione, risulta assolutamente impossibile analizzare la problematica in ghisa completa, logica e lucida.
Per testare la veridicità del ragionamento prendiamo l’esempio di due tipi d’immigrati molto diversi: Bill, un milionario ingegnere americano immigrato a Roma perché affascinato dai capolavori dell’antichità, ed un disperato contadino somalo, Hamuda, immigrato a Milano per sopravvivere anche a costo di delinquere. Il milionario americano ha lasciato gli U.S.A. perché in pensione si annoiava di fronte al barbecue ed al televisore, il Somalo ha lasciato la sua terra a causa di pesanti soprusi subiti.
Ora, dal punto di vista dell’immigrazione, Hamuda non appare attraente; Bill, al contrario, non fa riscontrare alcun valido motivo per respingerlo. Se invece analizziamo il fenomeno emigrativo, Bill appare ragionevolmente meno giustificato a muoversi di quanto non lo sia Hamuda.
Tale ragionamento invita a distinguere l’immigrazione regolare da quella clandestina. Invita poi a considerare come la prima abbia incontestabilmente arricchito il nostro paese e come la seconda tenda invece ad impoverirlo, se non altro da un punto di vista prettamente economico. Va però sottolineato che il fenomeno dell’emigrazione può, allo stesso modo, risultare un enorme impoverimento per il paese: basta pensare alla fuga di capitali verso i paradisi fiscali, alla fuga di cervelli verso paesi dove la ricerca è socialmente ed economicamente considerata ed alla dislocazione delle imprese in terre che offrono braccia e sudore a prezzi più convenienti. Tutto ciò rappresenta un danno per il paese sicuramente più ingente di quello inflitto dalle migliaia d’individui che abbordano l’Italia nella speranza, spesso illusione, di un futuro migliore.
Tuttavia, il mio fine non è certo quello di attaccare le libertà, né quello di promuovere una vita esageratamente sedimentaria. Mi preme invece dimostrare come tutti gli spostamenti possano risultare legittimi ed al contempo illegittimi a seconda del punto da cui vengono messi a fuoco. E quale popolo più degli italiani, che in meno di un secolo si sono evoluti da popolo d’emigrazione a nazione d’immigrazione, dovrebbe assimilare e comprendere l’importanza di un’analisi globale del fenomeno?


L’Orchestra di Piazza Vittorio

settembre 2nd, 2008 by Lorenzo Kihlgren | No Comments

L'Orchestra di Piazza Vittorio

Vi segnalo questo bellissimo film dedicato a un’impresa coraggiosa nata qualche anno fa a Roma. Un piccolo gruppo di musicisti italiani decide di salvare uno storico cinema di piazza Vittorio a Roma trasformandolo in un luogo di incontro e di cultura per le diverse anime dell’Esquilino, uno dei quartieri più multietnici della capitale. Il film documenta passo dopo passo la realizzazione di quella che poteva sembrare all’inizio una vera follia: creare un’orchestra internazionale formata da immigrati. Nel romantico sogno degli ideatori la musica, linguaggio universale, avrebbe forse potuto creare un legame tra i vecchi e i nuovi abitanti della zona. Man mano che l’orchestra prende faticosamente vita, il gruppo entra in contatto con realtà personali diverse e impensabili: matematico-musicista arabo che lavora in un ristorante, il trombettista-vagabondo cubano, l’insegnante di musica dell’Ecuador che suona nelle strade… Ma è forse il sorriso di due cugini indiani a dare la migliore immagine della riuscita di questo progetto: la musica è davvero in grado di abbattere le barriere dell’ignoranza e dell’indifferenza, cause primarie dell’isolamento e dell’auto-ghettizzazione.
Un grande esempio per tutti e un incentivo per il Tamarindo a dar sempre più visibilità alle realtà silenziose ma sorprendenti delle nostre città.


I colori di Milano

giugno 23rd, 2008 by Andrea Stringhetti | 4 Comments

“Mi fermo, poi riparto, poi mi fermo ancora e osservo la strada che si colora,
c’è un faccia in vetrina, mi guarda e va via…
chi è lo straniero a casa mia?…casa mia…” da Hollywood, Negrita
Chi vive a Milano sa quanto sia facile incappare nel malfunzionamento dei mezzi pubblici. Traffico, ritardi, salto delle corse: tutto all’ordine del giorno. Ma il malanno più gettonato dall’ATM – la società dei trasporti – è il famigerato “guasto tecnico” nelle stazioni della metropolitana, che può bloccare la circolazione per ore. Proprio in questo disastro mi sono venuto a trovare intorno alle 13.30 di un giorno qualsiasi di giugno. Esco dall’ufficio e mi avvio alla metropolitana per affrontare le tredici fermate che mi separano da casa, ma quando scendo nel mezzanino scopro che la linea 1 è chiusa su tutta la tratta che attraversa il centro (da Pasteur a Pagano, per chi se ne intende). È esattamente la strada che dovrei fare io, che abito dall’altra parte della città rispetto a dove mi trovo; ho fame e devo studiare per l’esame del giorno dopo. Nonostante tutto sono di un umore formidabile e non riesco ad arrabbiarmi per il disguido: salgo in superficie e vado a prendere l’autobus, la 91. Urge qui una spiegazione per chi pensa che la 91 (e la 90, che fa lo stesso giro nel senso opposto) sia un mezzo come un altro: la 90/91 è la filovia che fa tutto il giro della circonvallazione e in breve può essere definito l’autobus degli stranieri. Sarà perché facendo il giro di Milano passa un po’ dovunque, o perché la circonvallazione è il luogo dove maggiormente si concentrano le zone abitate dagli immigrati, ma ormai i Milanesi sono convinti che la 90 sia un brutto posto. Io ho usato questo mezzo per anni su alcune brevi tratte e non posso dire che sia rassicurante, ma a volte non ci sono alternative: decido quindi che se voglio arrivare a casa entro sera quella è l’unica strada, così il mio viaggio diventa un’occasione per osservare e riflettere.

Mi apposto in fondo, dove si concentra “la crème”: è gente di ogni etnia, ma il colore della loro pelle mi può aiutare a distinguere la loro provenienza. Si va dalla carnagione chiara degli Europei dell’est a quella mediterranea, tipica dei Turchi e degli Arabi, dal colore sempre più intenso di Afghani, Pakistani e gente dell’Asia centrale, fino allo carnagione scurissima degli Africani. In questo quadro spiccano i lineamenti particolari di chi proviene dai Paesi dell’Indocina. C’è proprio gente da tutto il mondo (orientale) e mi sento in colpa quando mi accorgo di viaggiare con il computer ben stretto tra i piedi e le mani sempre vicine alle tasche dei pantaloni. Le situazioni che si verificano sono al tempo stesso delle più normali e delle più strane, ma noto sempre un criterio alla base: l’instabilità di una vita sospesa.
Un ragazzo è seduto e dorme, ha tirato su il cappuccio della felpa e non si vede nemmeno da uno spiraglio il colore della sua pelle; i suoi vestiti sono sporchi e sgualciti come se li avesse da giorni e sembra che da altrettanti giorni non dorma. Dietro di lui è seduto un altro ragazzo di età indefinibile che potrebbe essere laotiano o vietnamita. È vestito in stile vagamente hiphop e le cicatrici sulla sua faccia non sono promettenti. Parla al telefono ad alta voce e non capisco nemmeno un suono di quello che sento. Che strano, quando sono all’estero non mi va di farmi sentire troppo a parlare italiano. Accanto a me c’è invece un arabo con la barba tipica del musulmano. Anche lui telefona, ma parla a voce talmente bassa che posso sentirlo solo io; risponde a monosillabi, ma mi colpisce l’unica frase intera che dice: “Sto andando in moschea”. Non starà parlando così piano – mi chiedo – per paura che qualcuno lo senta? E vorrei dirgli quanto sono contento di sentire qualcuno che alle 2 del pomeriggio si ricorda di andare a pregare. Alla fermata della Stazione Centrale salgono tre uomini che etichetto come Turchi, che rimangono in piedi e pranzano con i panini appena comprati da McDonald’s. Che strana la globalizzazione, a me piace così tanto il kebab e loro mangiano hamburger americani. Un altro Arabo nel frattempo è salito e telefona a voce talmente alta che tutti sull’autobus hanno capito che non vuole cambiare operatore. Il suo italiano è disastroso, ma si capisce che ha difficoltà a venire fuori da questo problema di contratti telefonici. Il ragazzo che dormiva all’improvviso si alza e solo dopo che è sceso mi accorgo che è nero e che indossa la felpa azzurra dell’Italia. Che strano il patriottismo, io non indosserei mai una felpa del genere. Osservo fuori e constato che la situazione non è tanto diversa: i negozi lungo la strada sono principalmente gestiti e frequentati da stranieri, kebab e pizzerie, Internet point, minimarket e via di seguito.
Il mio viaggio sulla 90, iniziato in piazzale Loreto, si conclude al capolinea in piazzale Lotto, dopo aver attraversato mezza città, e da qui proseguo su un altro autobus che in una decina di minuti mi porterà fino a casa. Gli stranieri che sono stati miei compagni di viaggio fino al capolinea si sono dispersi all’apertura delle porte, come svaniti, inghiottiti da una città che non li vede e per la quale probabilmente non significano nulla. Nessuno si è infiltrato nelle mie tasche, tutto è ancora al suo posto. È un sollievo scendere, perché mi libero dall’aria pesante che si respira sulla filovia, dallo sporco che c’è sul pavimento, dalla ressa e dal rumore della gente che parla a voce troppo alta. Eppure vorrei restare su e continuare a osservare, perché so che l’ultimo pezzo di viaggio che inizia ora sarà di gran lunga meno interessante (gli unici stranieri che incontrerò saranno poche filippine che lavorano nei ricchi appartamenti intorno allo stadio). È la prima volta dopo anni che sono grato all’ATM per un guasto in metropolitana, senza il quale non avrei potuto …



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