Capire e capirci: il professor Branca fa il punto sull’integrazione dei musulmani in Italia

novembre 8th, 2008 by Federico Berlingieri | No Comments

Per cercare di capire come stanno le cose e come dovrebbero essere abbiamo intervistato Paolo Branca docente di Islamistica e di Lingua e letteratura araba all’Università Cattolica di Milano, nonché uno dei massimi esperti italiani in materia.
Il professore spiega schiettamente ai lettori del “Tamarindo” quanto sia indispensabile che si stabilisca un dialogo diretto fra giovani di differenti culture e religioni, al fine di favorire una solida comprensione reciproca.
I problemi sono reali e profondi, il confronto fra culture inevitabile: siamo una generazione che non può esimersi dallo sforzarsi di capire e di conseguenza dall’imparare a convivere con le differenze.


Breve apologia del monachesimo

agosto 30th, 2008 by Michelangelo Ranuzzi de' Bianchi | No Comments

Breve apologia del monachesimo

“Non c’è individuo che non abbia sentito dentro di sé, in un certo momento della vita, il segreto e potente impulso alla solitudine” (Montalembert)
Il monachesimo è un regime di vita comune a tutte le esperienze religiose: minoritario nell’Ebraismo (la comunità scismatica degli Esseni di Qumran) e nell’Islàm (le confraternite Sufi), ha conosciuto una grande espansione nella tradizione buddista e in quella cristiana. Di quest’ultima incarnazione dell’esperienza monastica voglio ricordare qualche caratteristica.
La dissoluzione dell’Impero romano d’Occidente, con il tramonto delle istituzioni civili vigenti e il decremento demografico nelle città, portarono alla luce e rafforzarono la tendenza all’isolamento, all’abbandono delle grandi aree abitate, per trovare rifugio in piccole comunità autosufficienti. Nella Chiesa, dopo la gloriosa stagione dei martiri si aprì quella degli anacoreti. Il lento passaggio dall’antichità al medioevo può essere ben esemplificato dalla scena cui assistette Gibbon quando, a Roma, vide un gruppo di monaci intento a cantare il Vespro tra le rovine del Foro romano, e così ebbe la prima ispirazione per la sua opera Decline and fall of the Roman empire. La “carriera” di un monaco del III – IV secolo è riassumibile in poche fasi: l’eremita (quasi sempre un laico, non un sacerdote) desideroso di preghiera, solitudine ed ascesi, si ritirava in un luogo sperduto, spesso presso le rovine di un tempio pagano, per dimorarvi in povertà. Dopo anni di completo isolamento, veniva raggiunto – suo malgrado – da aspiranti discepoli e li istruiva sulla sequela di Cristo. In tal modo, quel luogo cessava di essere un eremo (luogo di vita solitaria) e diventava un cenobio (luogo di vita comune), sede di una paradossale, ma feconda, “solitudine condivisa.” In realtà, le tappe intermedie di questo processo sono state molte, e complesse: dall’eremitismo “puro” di S. Antonio Abate, in Egitto, al cenobitismo di S. Benedetto, vero padre del monachesimo occidentale. Conosciamo anche regimi monastici intermedi, ad esempio quello camaldolese, nel quale al cenobio viene associato un eremo, dove i monaci più esperti dimorano stabilmente, unendosi al resto della comunità solo per la preghiera corale.
Da ricordare, infine, i certosini: fondati da San Bruno nel 1084, praticano un monachesimo eremitico in piccole unità abitative individuali, riunite attorno ad un grande chiostro (esemplare la certosa di Pavia, vero gioiello architettonico). Si riuniscono solo per pochi momenti vissuti in comune. Lo splendido lungometraggio di Philip Gröning, Il grande silenzio (2005) ha aperto anche al grande pubblico una finestra per rivolgere uno sguardo discreto sull’esperienza anacoretica di questi monaci, vera “élite” degli asceti occidentali.

L’Europa è stata costruita, prima che dagli Stati e dalle loro guerre, dai monaci. La nostra penisola è punteggiata di monasteri; visitarli è prima di tutto – per molti – un’esperienza di fede, ma significa anche riscoprire le radici della nostra cultura, prendendo atto del contributo che i monaci hanno fornito allo sviluppo di ogni branca del sapere, specialmente durante il Medioevo, quando per secoli le abbazie rimasero l’unico luogo di trasmissione delle scienze, mediante la produzione di codici miniati che riproducevano le opere dell’antichità classica, altrimenti destinate a cadere nell’oblio. È quasi superfluo, inoltre, ricordare il ruolo ricoperto dai monaci nello sviluppo dell’agronomia (le grange cistercensi, che svilupparono la rotazione triennale dei campi), della silvicoltura (si veda l’abetaia del monastero di Vallombrosa, presso Firenze), dell’enologia (Dom Pérignon era un monaco benedettino).
Dopo la Chiesa, l’Ordine benedettino è la più antica istituzione europea (ben quindici secoli di vita!). L’abbazia di Montecassino, nei secoli distrutta e ricostruita quattro volte, è un emblema della capacità del monachesimo di rigenerarsi costantemente, anche dopo lunghi periodi di crisi e decadenza. Oggi, giovani e vivaci congregazioni si inseriscono in questa tradizione millenaria, sottolineando nel contempo nuove priorità, come il dialogo ecumenico: a questo proposito, merita una visita la comunità di Bose, presso Biella.

Piccola bibliografia
Hans Conrad Zander, Quando la religione non era ancora noiosa. Eremiti, asceti, stiliti: le incredibili avventure e le divertenti imprese dei Padri del deserto. Milano, Garzanti, 2003
Léo Moulin, La vita quotidiana dei monaci nel Medio Evo. Milano, Mondadori, 1988
Aa. Vv., La Regola di San Benedetto e le regole dei Padri. A cura di Salvatore Pricoco. Milano, Mondadori/Fondazione Lorenzo Valla, 1995


È possibile sentirsi stranieri nell’Europa unita? Una passeggiata a Rotterdam

maggio 16th, 2008 by Valentina Clemente | 3 Comments

È possibile sentirsi stranieri nell'Europa unita? Una passeggiata a Rotterdam

Il regno olandese è uno dei sei Stati fondatori dell’Europa, di cui si parla molto più spesso per fatti negativi che positivi: assassinii di importanti politici e registi, rifiuto della Costituzione e, dulcis in fundo, arresti di cellule terroristiche di livello internazionale, che proprio qui si sono plasmate e sviluppate.
Al contempo, negli uffici dell’Unione, ubicati non molto lontano, si discute di come “tutti i cittadini degli Stati membri debbano fregiarsi ed usufruire di una cittadinanza ulteriore a quella dello stato di provenienza: quella europea”.
Quanto si è parlato di cittadinanza europea e di come tutti debbano sentirsi parte di questa nuova Comunità? Tantissimo: trattati, costituzioni, carte fondamentali… Tutti, esperti del settore e no, ne hanno sentito parlare e ne sono stati coinvolti in una occasione almeno, magari senza rendersene conto.
Ma è effettivamente cosi? Si può esserne sicuri? Non si può pretendere che questo tipo di sentimento sia forte tra i nuovi 10 membri, i cui cittadini possono beneficiare di questa possibilità da pochissimo tempo, ma almeno tra gli stati fondatori il dubbio non si dovrebbe porre.
Questa possibilità dovrebbe rendere tutti i cittadini degli Stati aderenti liberi di viaggiare nell’Unione intera e dare loro la possibilità di sentirsi tutti uguali, perché facenti parte della stessa, che ha regole, diritti e doveri comuni. L’idea, nella teoria, sembra veramente meravigliosa. Metterla in pratica? Un po’ meno. Potrebbe sembrare troppo semplice fregiarsi di tale caratteristica rimanendo sempre nel Paese d’origine: per poter veramente sentirsi europei bisogna cambiare Stato membro e poi dare una effettiva valutazione del proprio sentirsi – o non sentirsi- cittadini della stessa unione di stati.
La Comunità vede da sempre Italia e Paesi Bassi al centro di ogni nuovo negoziato per introdurre regole e possibilità aggiuntive di cui tutti gli Stati, e relativi cittadini, possano usufruire. Non sempre, però, i risultati sono stati gli stessi, anzi: nella maggioranza delle occasioni questi due Stati hanno fronteggiato situazioni totalmente opposte, come nel caso recente del Trattato costituzionale europeo.
Nonostante ciò, chiunque decida di trascorrere alcuni giorni in Olanda non dovrebbe avere la sensazione di sentirsi straniero in terra europea, bensì parte integrante e libero di agire secondo le regole “di buona condotta del vecchio continente”.

Tale teoria viene pienamente vanificata dopo aver visitato due città di questo piccolo, ma allo stesso tempo problematico, Stato fondatore.
Il primo esempio pratico? Una passeggiata in una delle più chiacchierate città olandesi: Amsterdam.
Aspettando di scendere alla fermata “Amsterdam Centraal” si intravede già la cosmopolitismo che la invade: accanto ad un museo, Nemo, riservato ai bambini per conoscere meglio le meraviglie del mare, vi è un teatro dove stanno programmando il musical “The Lion King”, show non propriamente olandese. Quando si scende dal treno, le prime parole che si sentono sono in inglese. Olandese ben poco.
È una città che pullula di musei dedicati ad artisti del XX secolo, tulipani e compagnie di fast food americane. Paradossalmente, non ci si sente assolutamente coinvolti negli aspetti dello spirito europeo, bensì in uno che poco ha a che fare con la recente Unione. Forse il sentirsi suoi cittadini potrebbe essere paragonato al BloemenMarkt, dove tutti i giorni venditori di tulipani esibiscono questi fiori coloratissimi, che però non sorprendono più le persone che giornalmente ci lavorano. Questi fiori, come la cittadinanza, sono bellissimi ed effettivamente danno tantissimo colore a questa città. Il problema è che non vi è data abbastanza importanza e, al calar del sole, giorno dopo giorno, i tulipani si appassiscono e non rendono più come alle prime ore della giornata.
Il problema che deve affrontare Amsterdam è che principalmente gli autoctoni non si sentono veri Olandesi e, probabilmente, ancor meno Europei. Questa città, infatti, perennemente invasa da turisti americani ed asiatici, può essere connotata più come meta di cittadini “del mondo”, ma non di certo europei. Difficilissimo trovare una persona che parli correntemente la lingua olandese, raro provare ad instaurare una conversazione con una qualsiasi persona a proposito dei recenti avvenimenti che hanno toccato lo stato nord europeo. Il motivo? Praticamente impossibile trovare Olandesi veri, data l’immensa presenza di turisti provenienti da oltre oceano. Al contempo, però, nessuno può sentirsi “escluso”, diverso o “osservato” dalle persone che camminavano per la città, probabilmente perché anche tutti, Europei e no, si sono sentiti parte integrante di un sistema grande e capace di inglobare senza problemi cittadini provenienti da ogni parte del pianeta.
I Paesi Bassi, sebbene privi di una eccessiva estensione, hanno città che, nonostante le strette vicinanze, sono diverse tra loro in stile, colori e… cittadini. Per vedere una parte che si discosta dall’immagine dell’Olanda acquisita ad Amsterdam, provare nuove emozioni e cittadinanze, venire a contatto con una realtà contrapposta alla triade “musei-tulipani-canali- , è necessario spostarsi a Rotterdam. Città molto dinamica, coinvolta in un processo di modernizzazione che la sta cambiando a vista giorno dopo giorno, è il raccordo portuale più importante di tutta l’Europa: qui avvengono scambi commerciali che coinvolgono sia l’Unione sia molti altri stati extra europei.
È una città molto popolata, ma il 58% dei suoi cittadini non sono né turisti né Olandesi: sono persone di fede musulmana, che l’hanno “colonizzata” , rendendola di certo la città quadro degli eventi che hanno toccato i Paesi Basi negli ultimi tempi. La maggior parte di tale percentuale è costituita da Marocchini e Turchi, ai quali si aggiunge una piccola comunità di immigrati dalle isole Antille. Quando si cammina per le sue vie, anche accompagnati da persone di nazionalità olandese che sanno quali sono le parti da visitare, ci si sente “diversi”.
I colori con cui ci si scontra possono essere un discriminante? Forse, anche se uno dei maggiori scogli che si deve affrontare subito è la lingua. Cosa si sente parlare dalle persone, poche donne tra l’altro? Di certo la lingua madre dei Paesi di loro provenienza, che non è quella che dovrebbero usare per dialogare nel Paese in cui si trovano al momento.
Una ulteriore problematica da risolvere? Il pranzo. Ebbene sì: trovare un ristorante alle 13 aperto, durante il periodo del Ramadan, è stata una impresa alquanto ardua. Al contrario, dalle 18.30 in poi, quando ormai …


Cosa manca al vero dialogo interreligioso

febbraio 26th, 2008 by Margherita Sacerdoti | 2 Comments

Cosa manca al vero dialogo interreligioso

Quando si parla di dialogo interreligioso, non si capisce bene né quale sia lo scopo di tale dialogo, né in cosa consista nei fatti.
A parte le apparenze di interessarsi ad un tema delicato e di attualità, non sembra che i diretti interessati raggiungano reali risultati se non scrivere dei documenti congiunti senza valore.
Cominciamo a parlare dell’Italia, perché è il nostro Paese e perché qui, proprio per l’importanza della Chiesa, la religione e il dialogo tra religioni hanno un certo peso.

Innanzitutto quando in Italia si parla di dialogo interreligioso si parla del rapporto tra Cristianesimo, quasi sempre solo cattolico, Islam ed Ebraismo, insomma soltanto delle tre religioni monoteistiche. Questa limitazione è sia una mancanza sia un’imprecisione; una mancanza perché se veramente volessimo aprirci verso la conoscenza del diverso nel campo della religione, dovremmo incominciare ad avere contatti anche con i mondi lontani dell’Asia, con religioni che non sono monoteistiche e che ci potrebbero mostrare un aspetto completamente nuovo della realtà e della strada verso la conoscenza. Imprecisione perché, decidendo di volerci limitare al contatto con le religioni che più si assomigliano, decisione lecita, bisognerebbe però chiamare il progetto diversamente, per esempio dialogo tra monoteisti, per rendere più chiaro l’oggetto del dibattito.
Lo svolgimento di tale attività, oltre che a una generale confusione di termini, purtroppo spesso è povero di contenuti. Personalmente sono stata coinvolta in varie iniziative legate al dialogo tra religioni monoteistiche e mi sono resa conto di quanto la realtà divergesse dalle mie aspettative. Credevo che per confrontarsi bisognasse prima conoscersi in maniera approfondita, che lo scopo fosse imparare la cultura e la religione dell’altro per poi capire meglio i punti di vista, le richieste, le necessità della altre religioni, ma mi sbagliavo. Quasi tutte le iniziative interreligiose, nella mia esperienza tra giovani , restano ad un livello di superficialità in cui si parla di temi generali e si tende sempre a cercare l’accorso, il consenso, l’approvazione di coloro che appartengono a un culto altro dal nostro. In questo modo si resta in una zona ibrida, grigia, in cui non si impara e non si insegna nulla di nuovo, nulla di diverso e non si contribuisce al bene comune.
Innanzitutto si lascia sempre fuori il dogma, perché naturalmente lo scopo del dialogo non dovrebbe essere quello di decidere quale Dio è quello vero, né di convincere gli altri che la nostra religione è l’unica via della salvezza. In questo modo però si perde anche l’opportunità di imparare veramente l’anima della religione altrui. È curioso e allo stesso tempo deludente osservare quanto sia facile creare dei tabù laddove non si è in grado di mettersi in discussione e di lasciare che altri, diversi da noi, mostrino un punto di vista nuovo e, perché no, ci aiutino ad osservare la realtà da punti di vista diversi e magari a notare anche delle incoerenze nella nostra religione, senza che questo debba portare a crisi di identità. Pur di non rischiare questo confronto profondo, pur di non rischiare di sollevare dubbi su alcuni punti d’ombra dei dogmi, pur di non scoprirsi più autonomi nel pensiero e meno seguaci del verbo di qualcun altro, si decide di escludere questo tema in blocco e, semmai, di lasciarlo ai soli uomini di culto, escludendo la società civile che davvero avrebbe bisogno di imparare.
Le proprie usanze sono le sole che si mostrano agli altri e di cui ci si interessa, così ci si rende conto che il dialogo non è interreligioso, bensì interculturale. A questo punto non si capisce come mai si debba limitarlo alle tre religioni monoteistiche, se Dio o gli dèi non c’entrano più.
Le usanze sono interessanti, qualcosa s’impara, ma non si arriva neanche lontanamente alla conoscenza dell’altro. Nella mia esperienza ho notato che ho imparato più nei momenti di svago tra una discussione ufficiale e l’altra, quando facevo domande ai miei colleghi Cristiani o Musulmani, quando pretendevo che mi raccontassero di più, ma loro per primi, essendo fedeli e non pastori, non erano in grado di spiegarmi ogni cosa, come io a loro.
Dunque il dialogo così guidato non arricchisce nessuno, non permette a nessuno di immedesimarsi nell’altro e di capire veramente che cosa prova in determinate situazioni sociali o politiche. L’ignoranza è alla base di ogni pregiudizio e il pregiudizio e la paura del diverso sono strumenti di potere dei pochi sui molti. Se non si progredisce nel percorso della vera e approfondita conoscenza reciproca, non solo tra élite, ma nelle scuole, nei luoghi di ricreazione, nell’arte, allora i piccoli sforzi, riusciti o meno, fatti fino ad ora, saranno stati vani. Gli uomini di culto e i maestri delle religioni, anche non monoteistiche, dovrebbero insegnare i propri valori e i pilastri del proprio credo e imparare dagli altri, provando così a rispettarci reciprocamente e non a tollerarci a malincuore.
Infine c’è la politica, di cui tutti vogliono parlare prima o poi, ma che sarebbe meglio lasciar perdere finché il livello di conoscenza reciproca resta così superficiale. Infatti quando si instaura un buon rapporto tra i partecipanti e c’è un’atmosfera positiva e magari anche costruttiva, appena qualcuno sposta il dialogo sulla politica in Medio Oriente, ogni gruppo religioso comincia a difendere chi sente più vicino nel conflitto, come se avesse il dovere di farsi portavoce di tutti gli appartenenti al proprio gruppo enico-religioso del mondo. A quel punto è evidente che qualunque dialogo costruito fino a quel momento si ferma e si resta a discutere su una situazione che in realtà non appartiene a nessuno dei presenti e che nessun europeo o americano che sia può capire fino in fondo, dal momento che non abita nelle zone di guerra.
Per concludere il dialogo interculturale tra le tre religioni monoteistiche, come lo abbiamo finalmente definito, dovrebbe affrontare temi ai quali è in grado di dare un contributo, per esempio il sociale, inteso come l’integrazione delle minoranze nella società italiana, il riconoscimento delle festività e dei luoghi di culto e in questo Ebrei e Musulmani si possono aiutare molto. Un altro tema su cui forse …


Ritorno da Damasco

febbraio 24th, 2008 by Andrea Stringhetti | 8 Comments

Ritorno da Damasco

Non ho ancora capito se stare due mesi in Siria mi abbia fatto bene o male. Bene, perché al mio ritorno l’Italia sembrava il Paese più bello del mondo. Male, perché per tutto il mio soggiorno mi ero vergognato tantissimo del mio Paese davanti a tutti gli stranieri che mi chiedevano per quale strana ragione Berlusconi potesse essere primo ministro. Bene, perché ho capito che non vivrò mai in un Paese arabo. Male, perché al ritorno in Italia non era cambiato niente. Bene, perché come ho mangiato in Siria da nessun’altra parte. Male, perché sono ingrassato di 6 chili in due mesi e una volta tornato ci ho messo altri 4 mesi per tornare al mio peso forma. Bene, perché mi sono guardato dentro e ho riflettuto molto sulla mia vita, ne avevo davvero bisogno. Male, perché non sono riuscito a creare legami veri con nessuno, oppure ci sono riuscito troppo tardi, quindi ero sempre solo. Bene, perché ho capito quanto bene voglio al Paese dove sono nato, casa mia, che mi è mancato così tanto. Male, perché tanto lo amo da lontano, tanto lo odio da vicino.
Potrei andare avanti a elencare contrasti per pagine, ma abbiamo capito che, come tutte le cose, questa esperienza ha avuto tanti lati positivi quanti negativi.

In ogni caso il confronto con l’Italia e con Milano è venuto facile e spontaneo. È bastato sbarcare a Fiumicino per vedere quanto l’aeroporto fosse nuovo e pulito, quanto le persone mi sembrassero “normali”. Sono uscito dal terminal di Linate alle 18 di venerdì, l’ora in cui qualunque milanese darebbe mezzo stipendio per non dover affrontare il traffico e io, che dovevo attraversare tutta l’intera città da un capo all’altro per arrivare finalmente a casa (un’ora di viaggio), ero perfettamente tranquillo e rilassato. Sentivo silenzio e respiravo aria pulita. Mio fratello che era venuto a prendermi era sconvolto: silenzio, con tutto questo macello da aeroporto? Aria pulita, con questo traffico? Ma dove sei stato due mesi, chiuso in una petroliera? Eppure io ero beato nel mio riconquistato mondo di strade pulite, di gente civile e silenziosa, di parchi e prati e giardini e viali alberati, di supermercati, di semafori che funzionano, di autobus con il cambio automatico, di macellerie con la carne di maiale, di bar che vendono birra, di chiese con dolci campane che suonano, di coppie in giro per mano e abbracciate, addirittura si baciavano per strada.
Tutto questo era Milano al mio ritorno, ed era così perfetta. Per giorni ho camminato per la città come se fosse coperta di neve, perché tutti i rumori mi sembravano attutiti, tutto completamente ovattato, come fossi appena uscito da un concerto metal, ma di quelli buoni. Nulla di tutto quello che prima era sempre stato un problema lo era più: i mezzi pubblici, i resti dei cani sui marciapiedi, i nostri politici, la nebbia, la disorganizzazione, le strutture scadenti dell’università, la connessione a internet. Nell’attesa di partire per la Siria non avevo fatto altro che maledire l’Italia e lamentarmi di quello che non andava, eppure erano bastati due soli mesi a farmi cambiare completamente punto di vista: l’Italia era improvvisamente diventata un bel posto per vivere, un posto dove stavo bene.

Il fatto di trovarmi in un Paese straniero meno evoluto, per così dire, sotto tanti punti di vista, dove la libertà non è certo intesa nello stesso senso in cui la intendiamo noi, mi ha fatto riflettere su quanto l’Italia sia un Paese moderno, avanzato, democratico, florido. Mi ha fatto pensare a quanto spesso ci lamentiamo dei nostri politici, delle nostre istituzioni, della nostra società, perfino di noi stessi, senza guardare mai a quello che c’è di buono in tutto quello che siamo come Paese.
Naturalmente è inutile dire che è bastato poco per tornare sui miei passi e ritrattare tutto, è bastato tornare a contatto con i nostri ormai così consueti problemi per ricredermi. Non che mi sia tornata la voglia di andare in Siria, ma in qualche altro posto sì. E anche veder scemare così alla svelta tutto questo ottimismo mi ha fatto riflettere non poco. Possibile che sia stato così facile disamorarmi di un Paese al quale, migliaia di chilometri distante, mi sentivo così legato, di una società della quale mi mancava così tanto essere parte? Possibile che ora sia di nuovo così disposto a rinnegare le mie radici, a rinunciare a casa mia pur di non subire più certe violenze?
Possibile. Più che possibile, reale.
Troppo forte la tentazione di lasciar perdere davanti all’illusorio ottimismo nel vedere “le cose che funzionano”, perché poi finiamo sempre per convincerci che non ne vale la pena. Ma ne siamo davvero così sicuri? In fondo, se una parte delle cose, che è una buona parte, funziona, perché non dobbiamo pensare che si possa mettere a posto anche il resto?



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