“Quelli che con le mani ancora…”

aprile 17th, 2009 by Damiano Minozzi | No Comments

“Quelli che con le mani ancora…”

Nel tempo in cui il mondo è stordito dalla crisi finanziaria globale, nel tempo in cui crollano le borse e scricchiola il concetto stesso di globalizzazione; accanto allo stress da ufficio, agli schermi dei computer, alle cravatte sgargianti che stringono colletti troppo alti, al sudore nelle palestre; per fortuna c’è anche qualcuno che non ha dimenticato che cos’è l’abilità manuale, che cos’è la fatica del fisico, il sudore sul posto di lavoro. Quelli che con le mani ancora… Quelli che con le mani ancora lavorano, e lavorano bene. Quelli che con le mani ancora tramandano il loro sapere. Quelli che con le mani ancora si guadagnano un bello stipendio. Quelli che con le mani ancora si tolgono delle gran soddisfazioni. Quelli che con le mani ancora usano pure il cervello, e mettono su qualcosa di grande.
 
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Le foto saranno in mostra da lunedì 20 Aprile a sabato 2 Maggio 2009
presso la Libera Accademia di Belle Arti
a Roma, in via Benaco 2, tel. 06 85865917
ingresso libero – inaugurazione lunedì 20 Aprile alle ore 18,00


Buenos Aires – volti ed immagini di una città…

aprile 5th, 2009 by Guido Pallini | 1 Comment

Buenos Aires – volti ed immagini di una città…

Il traffico intenso scorre lungo le avenidas come linfa vitale, la gente cammina per la sua strada con un passo serrato, come formiche industriose figlie di un disegno indefinito. Sebbene di tanto in tanto pensi di essere a New York, in realtà sono a migliaia di chilometri più a sud in una terra unica e affascinante.
Buenos Aires è talmente grande che è difficile conoscerla a fondo, indipendentemente dal tempo che uno ha. La mia macchina fotografica diventa un pretesto per scoprire luoghi nuovi e parlare con la gente. Persone che forse non avrei mai incontrato e che con ogni probabilità non vedrò più ma che mi hanno trasmesso la magia di questa città.
 
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Pino Genovese o la memoria dell’Umano nel Divino

marzo 29th, 2009 by Michelangela Di Giacomo | No Comments

Pino Genovese o la memoria dell’Umano nel Divino

Sfogliavo il catalogo dell’ultima mostra personale di Pino Genovese presso il Centro d’arte contemporanea “Luigi Di Sarro” a Roma, con la presentazione di Anna Cochetti. Un senso di minima grandezza e tranquilla ansia mi ha pervaso al soffermarmi sulle belle foto in b/n, al lasciare all’opera-paesaggio di risucchiarmi con la sua magnetica attrazione. Nelle opere di Pino, spazio, tempo e materia si fondono in un unico fluire dell’esperienza umana a contatto con il mondo circostante, espandendo la percezione del sé all’estremo limite dell’umanità intera e del presente agli albori dell’uomo e ad un futuro percepibile, minaccioso e bramato. L’azione artistica di Pino, all’incrocio di vie tra Land Art, scenografia, fotografia e “sciamanesimo” si sostanzia nella costruzione di forme primordiali con materiali primari, che, attraverso la percezione immediata di un’immagine atavica, radicata in una memoria subcosciente dell’umano che fu, focalizza l’attenzione cosciente in porzioni di paesaggio di cui si limita a spostare e ricollocare dati già presenti dando a loro un significato nuovo, nella costruzione di un edificio inserito in categorie antropiche a partire da un caos naturale di per sé foriero di presagi di morte e di angosciose sensazioni. Mambor, tra i testi in catalogo, sottolinea con chiarezza come le opere di Pino Genovese possano fungere esattamente da “antidoto alla nostra paura”, permettendo di svelare, attraverso la narrazione e la memoria, personale e collettiva, il senso di un agire umano che traccia all’interno e a scapito della natura i propri percorsi circolari di nascita-morte-nascita. Lo sguardo sciamanico dell’artista, più oggetto di interessi antropologici che artistici, staglia ed enfatizza il sacro in quei piccoli spazi lasciati ancora liberi in un mondo fortemente connaturato dalla presenza e dall’imposizione dei ritmi dell’uomo. Così luoghi che razionalmente sappiamo essere inglobati ormai in una colata di cemento e acciaio inox, il Lido dei Pini di Roma, le dune di Nettuno, sembrano, grazie al taglio impressogli dell’artista-fotografo, riconquistare una quiete, un silenzio e un senso di desertificazione e di vuoto nel quale l’uomo-spettatore, lasciandosi accompagnare dalla guida dell’artista, torna a contatto con il sé e con l’altro da sé, il divino, qualsiasi forma esso assuma. In pochi tronchi, in poche pietre, attraverso la guida dello sciamano, si ricoagula e ridefinisce un universo di percezioni e cognizioni assopite che ricolloca l’esperienza di ciascuno nel quadro dell’esperienza dell’umanità tutta, che riporta ciascuno ad affrontare le proprie domande più intime sull’essere, l’esistere, il vivere e il destreggiarsi continuo di ciascuno alla ricerca di una conferma della propria “umanità”, della propria unicità rispetto ad una biologia che riporta la condizione umana ad una semplice esistenza naturale in un contesto di infinite forme e di lunghissima durata nella quale si fonde, si diluisce ed infine si perde. L’uomo-spettatore, guidato dall’artista-sciamano, disperdendosi nel tutto riconquista la propria umana, sovrastrutturale unicità. E l’arte e l’artista riconquistano un senso sociale in una collettività che sembra attribuire al fare artistico un ruolo di mero esorcismo alle paure private dell’artista, una mera terapia del male di vivere intimistico del singolo.
Altre informazioni:
http://www.teknemedia.net/pagine-gialle/curatori/Anna_Cochetti/dettaglio-mostra/35274.html


L’album di Annie Leibovitz

febbraio 6th, 2009 by Giovanni Biglino | No Comments

L'album di Annie Leibovitz

Nelle parole del fotografo ungherese André Kertész: “La macchina fotografica è il mio strumento. Grazie ad essa do una ragione a tutto ciò che mi circonda”. La citazione si addice certamente anche alla grande ritrattista contemporanea Annie Leibovitz, se si esplorano gli strati che vanno a comporre la sua arte soprattutto attraverso la ricca retrospettiva alla National Portrait Gallery di Londra, comprendente più di centocinquanta fotografie e conclusasi il 1 febbraio, il libro A photographer’s life, 1990-2005, un’importante edizione curata da Random House, e il documentario Annie Leibovitz, Life through a lens, diretto da sua sorella Barbara e distribuito dall’Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra. Avvicinandosi dunque a questo personaggio a tratti goffo (nell’andatura), geniale (nella composizione dei suoi ritratti), ruvido (nella voce) ed estremamente sensibile (nel capire i soggetti) scopriamo una donna moderna che va ad inserirsi nel filone delle grandi signore della fotografia: accanto a Berenice Abbott, Martine Franck, Cindy Sherman e Diane Arbus, oggi Annie Leibovitz è circondata da un grande alone glamour.
Nata nel 1949, gli esordi professionali coincidono con la nascita della rivista Rolling Stone, dopo che ebbe modo di studiare Robert Frank e Henri Cartier Bresson al San Francisco Art Institute. Una giovinezza rock, divisa fra un backstage degli Stones ed un periodo di disintossicazione, mentre la giovane Annie – che inizialmente pensava di diventare un’insegnante di storia dell’arte – filtrava già il mondo (il suo universo privato, il suo microcosmo familiare, ed anche il mondo della musica degli anni Settanta) attraverso il suo occhio, la sua lente. Un susseguirsi di scatti. Poi, nel 1980, “lo” scatto: John Lennon e Yoko Ono, lei stesa sul pavimento, lui completamente nudo avvinghiato a lei. Poche ore dopo, Lennon fu assassinato all’uscita del suo appartamento di Central Park West. Sulla copertina di Rolling Stone dell’edizione commemorativa per John Lennon campeggiava, sola, su fondo bianco, la foto di Leibovitz. Una copertina geniale che, venticinque anni dopo, nel 2005, è stata riconosciuta dalla American Society of Magazine Editors come la copertina più efficace degli ultimi quarant’anni.
Col passare del tempo le collaborazioni si sono moltiplicate, Leibovitz è diventata una firma importante e sono giunti così gli anni di Vanity Fair, inizialmente sotto la direzione di Tina Brown, e di Vogue, sotto l’egida di Anna Wintour. Un susseguirsi di successi e di immagini-simbolo degli anni Novanta, come il ritratto di Demi Moore incinta e completamente nuda, un’immagine forte che Leibovitz e Tina Brown trasformarono in un’altra copertina di incredibile impatto mediatico. Davanti alla sua lente – sempre più fine e attenta – scorre una galleria di volti celebri. Annie Leibovitz – le sale della National Portrait Gallery così come le pagine dei libri e dei cataloghi illustrati confermano – è diventata ufficialmente la fotografa delle celebrità. Si alternano Brad Pitt fasciato in improbabili pantaloni leopardati e Nicole Kidman che emerge da un abito vaporoso, Leonardo Di Caprio con un inquietante cigno adagiato intorno al collo e Cindy Crawford nei “panni” di una Eva tentatrice. Meryl Streep, George Clooney, Julia Roberts, Kristen Dunst, Whoopi Goldberg, Jack Nicholson, Susan Sarandon: ci sono tutti. E Leibovitz è sempre fotografa dei musicisti, sulla scia delle copertine di Rolling Stone, ed ecco Patti Smith e Bruce Springsteen.
Ma non solo. Leibovitz è anche la fotografa dei potenti. Ai ritratti di un giovane Bill Clinton appena entrato nello studio ovale e di una Hillary Clinton eletta al Senato si accostano quelli dell’amministrazione Bush. Nelson Mandela è immortalato in uno splendido bianco e nero. La regina Elisabetta II è stata recentemente ritratta in una serie di immagini alquanto solenni cui lo studio sapiente della luce e la regalità del soggetto hanno conferito quasi l’aspetto di dipinti d’epoca. E nell’estate 2008 anche la nuova première dame francese, la bellissima Carla Bruni, non è sfuggita all’obbiettivo di Annie Leibovitz, che l’ha “sorpresa” mentre si aggirava sui tetti dell’Eliseo avvolta in una abito rosso di Christian Dior.
Leibovitz è anche fotografa dei volti noti dell’establishment culturale. Sempre suoi sono i ritratti dello scrittore William Burroughs, del pittore e brillante regista Julian Schnabel, della scrittrice ed acuta saggista Joan Didion. Ogni ritratto racconta una storia, una vita o un segreto ed il grande talento di Leibovitz è di raccogliere tutto in una sola immagine, talvolta estremamente costruita (si narra di richieste molto insolite per i suoi set, quasi capricci di un’artista-diva) ma altre volte semplicissima nel bianco e nero più classico.
Il grande pubblico ha anche imparato a riconoscere il suo stile un po’ lucido e molto elegante in grandi campagne pubblicitarie, come nel caso di Louis Vuitton. Per conto della maison Annie Leibovitz ha creato una serie di ambientazioni con forte potere narrativo o molto seducenti nelle quali compaiono l’affascinante Catherine Deneuve, Gorba?ëv, Agassi e Steffi Graf, Sean Connery, Francis Ford Coppola e sua figlia Sofia, Keith Richards e Laetitia Casta.
Un universo patinato, una carrellata sterminata di grandi nomi dello spettacolo, della moda, del bel mondo. In realtà mezzo universo. Perché accanto alle copertine di Vanity Fair e ai servizi di moda, troviamo – complementare – l’antologia fotografica della vita privata di Annie Leibovitz. Grandi pareti sulle quali le fotografie si mescolano. Lei – con le sue camicie da uomo, gli occhiali inconfondibili, i capelli sciolti e un po’ selvatici – filtra sempre attraverso la sua lente. Filtra i giorni, in cui agli assignments per le testate più note si alterna tutta un’altra fotografia per mano della stessa fotografa.
In ambito privato le fotografie sono decisamente dominate dalla presenza di Susan Sontag. Sontag fu un personaggio di grande impatto intellettuale nella scena americana (e non solo) e fu la compagna di Annie Leibovitz dal loro primo incontro nel 1989, in occasione della promozione del suo libro L’AIDS e le sue metafore, fino alla sua morte, risalente al 2004. Scrittrice, saggista, studiosa della società, Susan Sontag andò a completare con le parole un mondo fatto di immagini. Come notano i critici, e come la stessa Leibovitz ha confermato, fu Susan Sontag a rendere più profondo il suo lavoro. Nel 1993 Sontag partì per Sarajevo e …


Gruppo di famiglia

ottobre 20th, 2008 by Giovanni Biglino | No Comments

Nota un tempo come “il naso dei nasi”, Martine Fougeron ha abbandonato il mondo della moda e del lusso per lanciarsi nell’esplorazione del mondo adolescenziale attraverso la fotografia. Nata a Parigi, si è sempre divisa fra la Francia e New York: figlia di un manager della Michelin e nipote di collezionisti d’arte, la giovane Martine frequenta il Lycée Français di New York, nel 1968 torna a Parigi giusto in tempo per cogliere sul nascere il fermento del maggio ’68, e sempre si divide fra le due capitali – dinamismo ed eleganza. Fondatrice e presidente di una compagnia di consulenza per la creazione di profumi di successo per grandi marchi quali Lancôme, Estée Lauder e LVMH, mette la propria creatività al servizio dei grandi della moda e della cosmesi lavorando per anni su sensazioni olfattive. Già in questo contesto in realtà Martine Fougeron combina l’esperienza olfattiva a quella visiva: il suo segreto – ha raccontato – era visualizzare la struttura e la composizione di un odore. Studentessa di fotografia in bianco e nero presso il Wellesley College, a 17 anni è folgorata da alcune fotografie di Edward Steichen. E in casa una Leica è sempre a portata di mano. Una passione coltivata nel tempo, che cresce e si evolve di pari passo con le esperienze della vita, unita ad un raffinato senso della composizione: nel 2002 Martine Fougeron si converte definitivamente alla fotografia. Non un capriccio. Non un divertissment di una donna affermata e cosmopolita. Cresciuta attraverso un costante e naturale contatto con l’arte, abituata a tradurre i profumi in immagini, Martine Fougeron decide di esprimere la propria creatività.
Dopo i primi studi piuttosto contemplativi, Fougeron ha concepito, a partire dal 2005, il progetto Tête à tête, per il quale oggi è maggiormente apprezzata. Diviso in quattro serie (Tête à tête I, II, III e IV) ed esposto per la prima volta nella sua interezza nel febbraio di quest’anno presso la Peter Hay Halpert Gallery di New York, il progetto è focalizzato su Nicolas e Adrien, i due figli adolescenti dell’artista. Uno studio che si svolge nell’intimità delle pareti domestiche, portato avanti per più di due anni. Due ragazzi in principio ritrosi – impazienti durante la messa a fuoco – poi, mentre il loro volto si evolve e si completa immagine dopo immagine, ritratto dopo ritratto, incuriositi – infine complici. Fougeron pianifica le sue fotografie e al contempo i suoi soggetti sono le persone delle quali ha una conoscenza più intima, quasi al di là della conoscenza stessa. Il risultato di questa combinazione è l’assenza di casualità: i ritratti sono sì estremamente spontanei, ma al contempo possiedono la qualità del dipinto, della scena d’interni – per dirla con Luchino Visconti, del gruppo di famiglia. Uno scatto è il prodotto dell’attesa e la somma di cento e cento scatti simili, nel ripetersi dei gesti privati: il divano sul quale leggiamo il giornale, il nostro golf preferito, la tazza abbandonata sulla scrivania, la sensazione rassicurante del nostro mondo, del nostro microcosmo. O, in questo caso, quello di Nicolas e Adrien. La scena dell’interno domestico diventa il ritratto del mondo interiore di un ragazzo adolescente. E se spesso all’adolescenza svariati artisti, fotografi o registi hanno associato le tematiche del disagio e della ribellione, qui sta la novità: nei suoi figli Martine Fougeron non vede il disagio, non ci ripropone una storia di terza mano, quella del conflitto genitore-figlio; al contrario lei scava per trovare in quei simboli di quotidianità (il libro, la tazza, le scarpe da tennis, il letto disfatto) un tassello in più dell’anima dei suoi figli, per leggere al di là degli oggetti e vedervi invece i sogni. Si mescolano così la dolcezza, il garbo e l’apprensione di una madre con la curiosità, la pazienza e il senso compositivo della fotografa. Come ha affermato: “Ho pensato che una visione più aggraziata e più introspettiva del mondo degli adolescenti avrebbe avuto una risonanza fresca, priva di sentimentalismi ma arricchita di intimità”.
La qualità oggettiva delle immagini e il tema certamente intrigante hanno subito determinato il successo del progetto Tête à tête. Rappresentata a New York dalla Peter Hay Halpert Gallery e a Parigi dalla Galerie Esther Woerdehoff, Martine Fougeron fotografa riceve ora commissioni da testate prestigiose (non ultimo, il New York Times) mentre prosegue il suo lavoro alla ricerca di ritrarre il mondo della teen tribal life, quel mondo fatto di usi, costumi, di codici e linguaggi che mutano da una stagione all’altra. Ma l’intelligenza di Martine Fougeron sta nel ricercare i segreti, i sogni, i disagi di un adolescente fra le pareti di casa, dove l’armatura (quella con la quale ci si protegge dal giudizio altrui e della proprie insicurezze) viene appesa nell’armadio e ci si addormenta sul divano con un sorriso sulle labbra. Come lei ha affermato, una moda non è necessariamente uno status ma può diventare una seconda pelle: “a second skin that enhances one’s inner awareness and sensuality”. Oltre all’intelligenza riconosciamo in lei anche un grande coraggio: studiare in modo così approfondito e con un tentativo di distacco (almeno parziale) i propri figli è in fondo un gesto di forte autocritica, mettersi in gioco, scoprire sì i loro sogni e le loro complessità ma anche quei difetti, quelle illusioni e quei segreti che sono stati loro trasmessi quasi per osmosi. Il cordone ombelicale.
In termini di fotografia, non mancano referenze interessanti, come quelle al lavoro di Nan Goldin o di Sally Mann. Forse abbiamo già visto la testa rasata di Adrien nella fotografia Victoria line 2000 del tedesco Wolfang Tillmans, che condivide con Martine Fourgeron il senso della composizione, i colori bagnati da una luce morbida, soprattutto il gusto per il dettaglio: nel caso di Tillmans sono il naso, il sopracciglio, i capelli rasati, il braccio e il cinturino dell’orologio di un ragazzo (assorto? assopito?) in metropolitana, nel caso di Fougeron è quella miriade di talismani che fanno parte della vita di un ragazzo di sedici anni.
Possiamo trovare anche paralleli cinematografici: abbiamo citato Visconti, ma indubbiamente alcune immagini potrebbero essere fotogrammi di …



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