Malaysia, Truly Asia

marzo 4th, 2009 by Roberto Priolo | No Comments

Malaysia, Truly Asia

L’Asia è forse il più vario dei continenti. A livello culturale, religioso, sociale, questa enorme terra è probabilmente la più ricca di sfaccettature. Avventurarsi per la prima volta in un continente è di per sé un’emozione, ma con l’Asia questo sentimento non può che crescere.
Eppure la mia destinazione, nel lontano 2005, era piuttosto inconsueta. Non ero diretto in Cina, né in India, né in Giappone. Per muovere i miei primi passi in Asia avevo scelto come meta un paese che solo recentemente è entrato nei grandi circuiti turistici, la Malesia. Ricordo che poche settimane dopo il mio rientro da questa magnifica terra avevo iniziato a vederla pubblicizzata ovunque.
E lo slogan che era stato scelto per questa campagna turistica planetaria era a dir poco azzeccato: “Malaysia, Truly Asia”. Non conosco il resto dell’Asia (fatta eccezione per il nord dell’India), ma sono d’accordo con lo slogan: la Malesia incarna l’Asia, le sue sfumature più diverse, tutte raccolte in una sola Nazione.
A partire dalla posizione geografica, la Malesia rappresenta un crocevia nel continente. Incastonata tra l’Indocina e la popolosissima Indonesia, questo Stato a maggioranza islamica riserva molte sorprese. A partire dalla sua straordinaria bellezza e dalla incredibile commistione di etnie e credi religiosi.
L’arrivo a Kuala Lumpur è già sufficiente a convincere della grandezza del Paese. Un aeroporto avveniristico, autostrade moderne che collegano lo scalo alla città, una skyline degna delle grandi città occidentali. Da amante dell’architettura moderna, Kuala Lumpur, almeno inizialmente, per me significava solo una cosa: Petronas Towers, le torri gemelle ideate da Cesar Pelli, che con i loro 452 metri sono state a lungo i grattacieli più alti del mondo, simbolo della Malesia moderna e che punta al domani.
Quello che non sapevo era la simbologia che sta dietro alla loro struttura: dalla pianta a forma di stella a otto punte (simbolo ricorrente nell’Islam) ai cinque tronconi in cui si sviluppano in altezza i palazzi (che rappresentano i cinque pilastri della religione islamica: la testimonianza di fede, il rispetto del digiuno durante il Ramadan, la preghiera, l’elemosina e il pellegrinaggio alla Mecca).
Al di là di questi due magnifici giganti in acciaio però, Kuala Lumpur è una città molto bella, che sembra essere un tutt’uno con la giungla, che occupa rigogliosa ogni angolo non edificato. La vicinanza all’equatore provoca piogge frequenti e abbondanti, e l’umidità è spesso insostenibile.
Il cuore della metropoli è sicuramente piazza Merdeka, con i suoi palazzi stupendi e il suo grande prato, sul quale svetta un’asta di 100 metri sulla quale viene issata la bandiera malesiana. Tutto intorno, costruzioni bellissime: il palazzo del sultano Abdul Samad, in stile moresco e oggi sede di una sezione dell’Alta Corte di giustizia, la Biblioteca Memoriale di Kuala Lumpur e la sontuosa Masjid Jamek, la più antica moschea della città, alla confluenza di due fiumi.
Ma oltre all’Islam, Kuala Lumpur ospita delle nutrite comunità cinesi e indiane, tra le altre, come testimoniato dai numerosissimi templi indù e buddhisti. Chiedendo ad un locale come la Malesia sia riuscita a far convivere così tante religioni, la risposta che si riceve più spesso recita più o meno così: “Per noi la commistione di etnie e di religioni è un’occasione per fare festa più spesso”. Certo, non si può limitare tutto a questo, e di fatto la religione ufficiale è l’Islam, e per ogni altro credo esistono numerose restrizioni. Il clima che si respira, tuttavia, è di grande tolleranza.
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Abbandonando la capitale malese alla volta del sud del Paese, si incontra Malacca, una città cosmopolita e stupenda, che nel corso dei secoli è stata dominata dai Portoghesi, dagli Olandesi, dagli Inglesi. Ognuno ha lasciato alla città qualcosa. La collina di San Paolo, per esempio, ospita le rovine della Porta di Santiago e i resti dell’antica fortezza portoghese A’Famosa. Gli olandesi invece hanno lasciato lo Stadthuys, un tempo centro del governo coloniale, e la rossissima Chiesa del Cristo.
Malacca è coloratissima, e molto diversa dal resto della Malesia, proprio per questa sua storia ricca e tormentata. Il Sud-est asiatico più autentico è qui, mentre Kuala Lumpur è più un simbolo della modernità e del progresso tecnologico verso cui le cosiddette “Tigri d’Oriente” viaggiano a grandi balzi. I giganteschi centri commerciali della capitale malese ne sono una lampante, sebbene a tratti deprimente, dimostrazione.
Dalla penisola di Malacca, la parte del Paese unita al continente asiatico, mi sono spostato poi verso la sua sezione insulare, quella che occupa la fascia settentrionale dell’isola del Borneo, che costeggia l’indonesiano Kalimantan e circonda su tre lati il minuscolo quanto leggendario Sultanato del Brunei.
Rimanevo colpito ogni giorno dalla stranezza della lingua ufficiale parlata in Malesia, il Bahasa Malaysia, un bislacco mix tra dialetto malese, sanscrito e inglese, cinese, indù, arabo. Così come per l’architettura, la religione e la cultura, anche per la lingua ogni dominatore ha lasciato in Malesia una traccia del proprio passaggio. Così, i bagagli diventano bagasi, i ristoranti diventano restorasi, mentre l’insegnante è il guru e l’indipendenza è merdeka, dalla parola sanscrita usata per indicare gli schiavi portoghesi e olandesi portati dall’India alle Indie Orientali.
Il Borneo è l’isola selvaggia per antonomasia. Il suo nome fa riecheggiare nella mente racconti su pirati, tagliatori di teste, foreste tropicali, animali rari ed esploratori europei. L’impressione che si ha quando si viaggia in Sarawak e Sabah, i due stati malesiani dell’isola, è quella di essere sempre parte di qualcosa di mitico.
Le due città principali, rispettivamente in Sarawak e in Sabah, sono Kuching e Kota Kinabalu.
Kuching sorge sulle rive di un fiume, ed ospita palazzi coloniali e moschee, torri e baracche. La sontuosa Astana e Forte Margherita sono solo una parte dell’eredità lasciata dai rajah bianchi che hanno governato queste terre per oltre un secolo. Passeggiando sul lungofiume al tramonto si ha l’impressione di essere fuori dal tempo, in una città sospesa tra passato e futuro, abitata da persone cordiali ed estremamente discrete (come il resto dei malesi).
Ma a dire il vero la bellezza del Sarawak doveva ancora rivelarsi ai miei occhi. Ed è la stessa che mi ricordava di trovarmi nel Borneo, ovvero la foresta. Nella riserva di Semenggoh si …


Mongolia forever

novembre 4th, 2008 by Guicciardo Sassoli de Bianchi | No Comments

Cavalli selvaggi lanciati al galoppo nelle steppe, cammelli che vagano nel deserto, nomadi che  con il proprio bestiame vivono in completa relazione con il ciclo delle stagioni: immagini esotiche che descrivono bene la Mongolia, terra tra le più incontaminate dell’Asia , in cui uomo e natura cantano all’unisono il ritmo della vita. Infatti, nonostante l’inesorabile incedere della globalizzazione in tutto il mondo, ben poco è cambiato per i pochi abitanti di questo sterminato Paese: tradizione e vita attuale sono per loro la stessa cosa.
Rituali, usi e pratiche tramandatesi per secoli vivono tutt’oggi e pare non possano mai scomparire. Ulan Bator, la capitale, è il solo posto dove si possa sentire un vago profumo di modernizzazione. Addentrandosi nelle vallate si visitano luoghi senza tempo in cui i nomadi intonano canti epici su antichi eroi che un tempo cavalcavano queste terre; i riti tradizionali degli sciamani e la fede buddista tibetana, legalizzata nel 1990 dopo decenni di repressione religiosa comunista, vivono nelle piccole cose di ogni giorno. Nei monasteri vengono donate, tramite piccole offerte, sciarpe benauguranti, una parte delle quali adorna abitazioni e veicoli; l’altra decora gli ‘ovoo‘, monumenti sciamanici agli dei che si trovano di fianco alle strade sterrate nelle steppe o fra le montagne. Durante gli infiniti tragitti lungo le dissestate strade della Mongolia, è alquanto semplice avere guasti alla propria jeep o imbattersi persino in trombe d’aria vaganti! Per fortuna l’ospitalità innata dei nomadi delle ger rende meno lunga l’attesa, a volte di giorni, di un improvvisato e quanto mai sperato meccanico.
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Sorseggiare una ciotola di airag, latte d’asina fermentato, guardare bambini che a cinque anni montano a cavallo senza sella e gareggiano tra di loro in velocità, dormire nelle tende ricoperte di pelli di montone: quotidianità di questo Paese. Ma non mancano le sorprese. Più che i calciatori, sono noti cantanti italiani da noi passati un pò di moda come i Ricchi e Poveri, Pupo, i Pooh e Totò Cotugno! Ascoltare in un accampamento nomade ‘lasciatemi cantare con la chitarra in mano…’ risveglia ogni istinto patriottico, tanto da far innalzare, come a me è successo, un ‘O sole mio’ per i nomadi ed i turisti tedeschi presenti, da sempre innamorati del folklore italiano.
Paradiso di chi ama natura e vita lontana da tutto ciò che è urbanizzazione, visitare la Mongolia lascia quella sensazione di avventura e libertà che solo galoppando per queste meravigliose e infinite steppe si può provare.


Glittering India

novembre 2nd, 2008 by Giacomo Scocco | No Comments

Scrivere dell’India per un Italiano dev’essere un po’ come per un cittadino Finlandese descrivere lo Stivale. O, per render meglio l’idea, per un Americano descrivere l’Europa. Semplicemente non si può avendo passato troppo poco tempo (e quattro mesi sono poco tempo) in un Paese che è un continente. Credo che il paragone tra Unione europea ed Unione indiana sia particolarmente calzante: il numero delle lingue ufficiali è più o meno simile; l’orgoglio delle singole identità nazionali/culturali è parimenti forte; le differenze tra una zona e l’altra si sentono moltissimo sul palato, nelle orecchie, negli occhi; l’Europa ha nella Russia un vicino talvolta incomprensibile, ma determinante, mentre l’India ha la Cina.
Anche il paragone con l’Italia regge, anche se in scala ridotta. Da quello che m’è stato dato capire, l’India è stata definita l’Italia dell’Asia; logicamente, gli Indiani sono i nostri equivalenti in questo continente. La cosa, in effetti, ha dei tratti tra l’inquietante ed il terapeutico: il primo perché quello che si vive qui sulla propria pelle e che permane a lungo come impressione dominante è il senso di caos e disordine, anche mentale; il secondo in quanto, come ben si sa, non c’è nulla di meglio che guardarsi allo specchio per vedere da vicino tutte le nostre imperfezioni (almeno, per quegli sventurati che come il sottoscritto ne hanno). Personalmente, ho avuto modo di sperimentare direttamente solo il Maharashtra, cioè lo stato di Mumbai e di Pune, e quello di Goa. Sono perfettamente cosciente che una generalizzazione che abbracci un miliardo e passa di persone non dovrebbe basarsi su di un’esperienza così limitata, proprio come visitare il Belgio non dà il diritto di parlare d’Europa… ma insomma, sono anche arrogante a sufficienza per farlo!
Anzitutto il disordine. È vero che sono Veneto e vengo dalla sonnacchiosa provincia polesana, ma credo che anche il più scafato dei pischelli romani o degli scugnizzi napoletani avrebbe delle difficoltà. Il disordine è la cifra che riassume questo Paese sin dai primi momenti che seguono l’atterraggio: la corsa al nastro bagagli di Fiumicino o del Marco Polo è nulla in confronto. Il disordine ti segue (o perseguita) per molto tempo dopo l’arrivo; personalmente non sono ancora riuscito a seminarlo. Lo stereotipo che vuole l’Indiano medio assolutamente pericoloso al volante ed incapace di tollerare la seppur minima limitazione alla sua libertà di movimento e d’uccidere gli altri investendoli o mutilandoli orribilmente («India is a free country!») è così forte perché è così vero. In più di un’occasione mi sono ricordato delle facce disperate ed allarmate di Statunitensi in auto italiane. Il primo assaggio di guida all’indiana l’ho avuto sulla tratta Mumbai-Pune: km 130 circa per una durata del tragitto di quattro ore farcite di clacson impazziti, archeologia dell’automotive e crateri lunari. Non stupisca nessuno la domanda del tutto priva di malizia che alcuni uomini d’affari cinesi si lasciarono sfuggire parlando con la propria guida indiana: «È molto bello questo Paese, ma quando arriviamo all’autostrada?». Ci stavano già viaggiando da circa un paio d’ore…
Un altro elemento di tutto interesse è la vita sociale in un Paese nel quale sopravvivono riti millenari fianco a fianco con pratiche dell’altro ieri. Ho avuto la fortuna d’assistere ad un saggio di danza tradizionale: c’erano solo tre suonatori, un cantante, un altare per Shiva e due danzatrici (che poi ho scoperto con mio sommo stupore avere non più di quattordici anni). Spettacolare e gustosissimo per chi ha la fortuna di non essere digiuno di mitologia hindu ed è in grado di cogliere qua e là simboli e posizioni che rendono palese l’origine sacrale della danza. Per restare legati al tema della tradizione, è stupefacente, anche se può suonare banale, vedere come donne e uomini con un’educazione di tutto rispetto ancora accettino serenamente che il loro matrimonio sia deciso dalla famiglia nella convinzione che l’amore, se mai ci sarà, è normale che compaia dopo qualche anno di vita di coppia. L’omosessualità è tutt’ora un reato penalmente perseguibile e questo a causa del permanere in vigore anche dopo l’ottenimento dell’indipendenza (sessant’anni fa!) del codice penale d’epoca vittoriana. Il che, diciamocelo, è come pensare d’avere in Italia ancora il codice Zanardelli: all’avanguardia all’epoca con l’eliminazione della pena di morte dal nostro ordinamento, ma impresentabile oggi (intanto ci siamo sorbiti il codice Rocco fino all’altro ieri…). A parte le personali considerazioni sul fatto che trovo difficile ammettere l’esistenza d’una democrazia che dica alle persone cosa fare sotto le coperte (od in auto, in un campo, sulla lavatrice, ecc ecc ecc), sono rimasto molto stupito da un’esperienza che m’è capitata a Mumbai. Ero in auto, in stato comatoso indotto dal viaggio Pune-Mumbai sotto il sole cocente e con l’aria condizionata rotta. Eravamo fermi al semaforo ed io sonnecchiavo con gli auricolari nelle orecchie. Ad un tratto ho sentito un tonfo. A meno d’un improbabile incidente, mi son detto, non dovremmo aver ucciso nessuno. In effetti il colpo era causato non già dal corpo d’uno sventurato passante, ma dalla mano d’una travestita che chiedeva con vigore dei soldi. In effetti ce n’era un gruppetto che aveva da dire con gli automobilisti fermi al semaforo. L’imperturbabile espressione dell’autista m’ha fatto intuire che forse la cosa per loro è normale. Che si tratti d’accettazione ne dubito: più probabilmente si tratta di quell’atarassia che permea tanta parte della vita quotidiana dell’Indiano medio.
Inutile parlare della divisione castale: questa sarà pure una democrazia, ma le caste ci sono e sono forti. Venendo in India una persona può: a) settare su «spento» il comando sulla critica sociale; b) lasciarlo attivo e manifestare delle critiche per noi fondate, ma non necessariamente valide per loro. Per la prima volta ho deciso d’adottare la prima opzione: non sono ancora certo che stia dando buoni frutti, ma quanto meno mi permette di scorgere i miserabili di questo Paese buttati a terra e guardati con disprezzo senza soffrire eccessivamente. In questo in Europa siamo, fortunatamente, all’esatto opposto; eppure in Italia serpeggia un atteggiamento se non di divisione castale, direi almeno di corporazione. È palese che viviamo in una società che si …


Università ponte per l’Asia?

luglio 9th, 2008 by Guicciardo Sassoli de Bianchi | No Comments

Intervista al prof. Ugo Bisteghi,
Storico dell’ Asia moderna e contemporanea,
Università di Bologna
Iran, Turchia: un Paese sempre più lontano, l’altro sempre più vicino all’Europa, ma entrambi legati da antiche relazioni con l’Italia.
Quali sono le relazioni culturali fra Italia e Iran oggi?
S’intravede un primo spiraglio di luce: nel 2009 professori dell’Università di Bologna insegneranno in Iran; che il mondo accademico riesca dopo tanti anni a riaprire le relazioni culturali fra i due Paesi?
La Turchia, il suo esercito e l’Italia. Un futuro assieme in Europa?



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