Ritorno al nucleare? Il vero significato di questa proposta

Di Marcello Vecchi • 13 mar 2008 • Categoria:Italia • Un commento

La campagna elettorale ha riportato in luce una delle grandi contraddizioni italiane: la questione del nucleare civile. Un tema alletante per una popolazione stretta nella morsa dei rincari energetici, almeno finché il discorso resta sul generico: cosa di fatto comporti questo eventuale ritorno di fiamma verso l’atomo resta fuori dal dibattito, e non casualmente. Il Tamarindo è felice di ospitare sulle sue pagine virtuali le considerazioni dell’ingegnere nucleare Marcello Vecchi, che ci mostra le strette connessioni tra la tecnologia e la politica.

Il nucleare civile italiano prima del referendum: pregi e difetti

L’Italia ha avuto in passato (prima del referendum abrogativo del nucleare del 1987) una forte industria di componenti nucleari ed una ricerca in questo settore allineata allo standard europeo. I governi precedenti al referendum abrogativo hanno sempre ritenuto infatti l’industria italiana nucleare strategica per il Paese.

Ditte manifatturiere come la Breda, la Belleli, l’Ansaldo, la Tosi, di montaggi come la Cmc, l’Astaldi, elettriche come la Gavazzi, unite a centri di ricerca come Enea, Infn, Cnr, Università, qualche laboratorio dell’Enel o Fiat centro ricerche, assicuravano un robusto sviluppo e supporto a questo sistema. Ed infatti il sistema nucleare italiano ha partecipato con grande successo anche e soprattutto a commesse estere (sempre di componenti), sia di impianti francesi che tedeschi, sia americani che asiatici. In una economia globalizzata infatti il rapporto qualità-prezzo offerto dalle ditte italiane era concorrenziale con quello delle industrie estere, tenendo conto che i componenti di una centrale nucleare devono essere progettati e costruiti da industrie qualificate in standard normativi anche molto stringenti.

Le centrali nucleari in Italia erano in numero esiguo rispetto a quelle presenti all’estero : Trino Vercellese (reattore acqua pressurizzata licenza Westinhouse, sui 272 MW, entrata in funzione nel 1964, fino al 1987 ha fornito 26 miliardi di Kwh), Garigliano (reattore acqua bollente licenza General Electric, sui 160 MW, entrata in funzione nel 1964, fino al 1987 ha fornito 26 miliardi di Kwh), Latina (reattore a gas di progettazione inglese, 210 MW, entrata in funzione nel 1963, fino al 1987 ha fornito 26 miliardi di Kwh), Caorso (reattore acqua bollente licenza General Electric, 840 MW, entrata in funzione nel 1981, prodotti 29 miliardi di Kwh fino al 1987), ed infine i costruendi impianti (poi fermati dopo il referendum) di Montaldo di Castro (reattore acqua bollente licenza General Electric, 1100 MW), e Brasimone (reattore di ricerca PEC, raffreddato a sodio, 100 MW termici di potenza, non progettato per la produzione elettrica).

Le centrali nucleari italiane non erano quindi molte, in pratica solo la centrale di Caorso ha funzionato in maniera continuativa ed avrebbe potuto fornire una potenza ragguardevole.

Le industrie di componentistica italiane quindi, dopo un tirocinio e un asservimento a ditte USA, avevano raggiunto punti di eccellenza, ma soltanto tuttavia nella progettazione e costruzione di componenti del reattore, lavorando quasi unicamente su commesse estere, avendo tuttavia un bacino di ordini, seppur limitati, nazionali.

Di conseguenza la parte più nobile della progettazione delle centrali nucleari, che è poi quella di sistema o di processo, fu delegata all’architetto industriale americano, e nelle sue mani rimase sempre. Si pensi che durante il funzionamento delle centrali italiane c’era un sopraintendente americano che approvava le operazioni proposte dal capo centrale dell’Enel riguardo a che cosa si doveva fare o alla sequenza operativa sulla centrale nucleare ed aveva la responsabilità di tutto.

Unica eccezione, il “reattorino” di ricerca Pec, progettato interamente da industrie italiane (Nira), sia a livello di componentistica che a quello di ingegneria di processo. La ditta Nira quindi ha partecipato attivamente successivamente alla progettazione della centrale Superphenix in Francia (1200 MW raffreddamento a sodio), distinguendosi anche per l’apporto nel campo dell’ingegneria di sistema.

La fine del nucleare italiano

Questo e’ avvenuto fino al referendum abrogativo nel 1987.

Ora l’industria, la ricerca, le collaborazioni internazionali e ogni altro sistema nucleare in Italia è stato praticamente accantonato. Si pensi che nemmeno le Università hanno più un corso di Ingegneria nucleare.

Particolarmente l’industria è stata riconvertita e dalla capacita’ di costruire componentistica per due-tre centrali nucleari l’anno (somma delle commesse estere e nazionali) si è passati allo smantellamento delle linee di produzione. Non solo si sono smantellate le linee, ma anche le maestranze sono state istradate su nuovi progetti non nucleari : tutti i servizi legati all’industria nucleare, in gran parte vicini alla perfezione (l’ufficio stress-analisis della Breda era famoso e dava consulenze persino alle case madri Westinghouse e General Electric), sono stati soppressi.

Mentre il programma italiano si fermava, quello di altri Paesi europei compiva pasi da gigante. Il caso più rilevante è la cooperazione tra Francia e Germania (Alstom, Siemens-Aeg- Telefunken, KWU, CEA, ecc.), che aveva già dato vita negli anni ‘80 a un reattore franco-tedesco (l’impianto Konvoi), di due o tre generazioni superiore rispetto alla tecnologia statunitense impiegata nella costruenda centrale di Montaldo di Castro - le ragioni politiche non permettevano di affrancarsi dalla produzione americana.

La cooperazione franco-tedesca è alla base dell’impianto prototipo EPR (European Prototype Reactor), praticamente attualmente l’impianto nucleare al mondo più avanzato a livello di progettazione, venduto successivamente in Finlandia, Cina, oltre che in Francia e Germania, ecc.

Quale strada di ritorno al nucleare civile per l’Italia?

Per prima cosa va detto che una centrale nucleare ha un tempo di costruzione medio di dieci anni, l’EPR circa 7. Con un programma immediato di conseguenza, ossia con gli ordini, le approvazioni, le concessioni rilasciate nel 2008, si puo’ considerare una produzione di energia elettrica a partire dal 2015/2018 in poi.

Poi bisognerebbe ripartire con tutto il sistema industriale accantonato e convertito. E per il ripristino del sistema industriale, anche se tutte le competenze fossero disponibili subito, l’industria avrebbe bisogno di investimenti : tradotto in pratica l’industria non può non domandare a fronte di un proprio investimento massiccio per la sua anche parziale riconversione al nucleare

Siccome una centrale nucleare (taglia base 1000 MW) costa circa 3 miliardi di euro (6000 miliardi delle vecchie lire), per la costruzione, diciamo di un programma credibile di cinque-sei centrali nucleari da 1000 MW nei prossimi anni si avrebbe bisogno gia’ oggi di un finanziamento stimato di 15-20 miliardi di euro, considerando le riconversioni o ricerche in appoggio (normalmente stimate dell’ordine della meta’ del finanziamento della centrale nucleare stessa). Detto finanziamento, distribuito anche su un arco dei sette anni di costruzione a fronte della pura costruzione dell’impianto, è molto ingente. Ed è un finanziamento infruttuoso per la durata di circa 7-10 anni. Puo’ permettersi l’Italia nelle attuali condizioni economiche un lusso di questo importo? E come si fa a convincere un sistema di industrie a riconvertirsi al nucleare assicurando un bacino di commesse totale di sole cinque-sei centrali nucleari per i prossimi anni (dieci o più)? La riconversione, spalmata su questo esiguo numero di centrali, farebbe lievitare i costi a livelli improponibili, rispetto alla concorrenza, ossia all’estero, le cui industrie sono già ”pronte” al carico delle commesse.

Ed ecco dunque quello che, a mio avviso, ipotizzano i politici che propongono un ritorno al nucleare immediato: in base al rapporto preferenziale tra Italia ed USA proposto dai suddetti politici, comprare in USA una serie di centrali che saranno edificate in Italia esattamente come nei paesi in via di sviluppo.

Concludendo: se con l’industria nucleare a livello pre-referendum eravamo, rispetto agli USA e all’estero, in una posizione accettabile, anche se lontana da quelle di Francia Germania o Regno Unito, come saremmo ora con l’industria nucleare in queste condizioni? Qualche seppur fievole voce in capitolo i nostri ingegneri (Enel, Enea, Enea-Disp, ecc.), prima del referendum la avevano, soprattutto facendo leva sulla normativa italiana o la normativa speciale dei terremoti. Ma oggi? L’obiettivo statunitense sarà sicuramente quello di imporre i propri standard di sicurezza, tentativo già riuscito altre volte, come nel caso della Union Carbide in India.

Un “piccolo” spunto di riflessione

Il governo Berlusconi rifiuto’ nel 2000 la partecipazione italiana al consorzio Airbus (europeo) preferendo la collaborazione con l’industria aereonautica USA. Su questa decisione dette le dimissioni l’allora Ministro degli Esteri, Ruggiero.

Oggi i successi del consorzio dell’Airbus (superamento per numero di ordini e fatturato della Boeing, maxicommessa relativa agli aerei cisterna delle forze armate americane proprio in concorrenza con le ditte americane, progettazione e costruzione dell’aereo A380, l’aereo più grande al mondo, a due piani, ecc.) dovrebbero fare riflettere e proiettare per lo meno una luce più reale sullo sviluppo dell’industria nucleare in Italia e le sue collaborazioni internazionali.

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Marcello Vecchi
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Commenti: 1 »

  1. Commento all’articolo Ritorno al Nucleare

    Teniamo i polsi fermi con le cifre!
    20 o 25 miliardi di € di investimento per un piano dispiegato in 20 anni che fa fronte a circa il 20 % della produzione elettrica annua ai livelli attuali, che verrà ammortizzato solo dopo 30 anni dovrebbe poter rientrare nelle capacità di governo di una istituzione nazionale.
    Dopotutto solo pensando all’aeroporto Malpensa sono già 20 i miliardi spesi ad oggi.
    Certo un nuovo programma nucleare non può basarsi su una mera posizione di principio per la prevaricazione momentanea di una “tifoseria” sull’altra. Va visto all’interno di un piano energetico complessivo e questo va preso in esame con tutti gli altri elementi tecnici e geopolitici dello scenario, posti come siamo in un contesto Europeo e mondiale.
    Le tecnologie per l’energia che conosciamo essere invasive, e tra queste certamente il nucleare, vanno poi scelte secondo nella consapevolezza dei benefici e dei costi e non certamente subite a scatola chiusa dalle pressioni di mercato.
    La capacità di gestire in modo programmato gli strumenti di sviluppo sociale come l’energia (e aggiungerei i trasporti) richiede che noi superiamo i tratti del nostro carattere nazionale che non ci fanno condividere nessun progetto minimo comune per il futuro e che continua a logorarci e paralizzarci sulle dispute TAV si e TAV no, Ponte di Messina SI e ponte No, discariche SI e discariche NO. Solo in un progetto sociale comune si riconoscono i SI ed i NO da affermare e mantenere per tutto il tempo necessario.

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