Paura e schiavitù

Di Giacomo Valtolina • 23 apr 2008 • Categoria:Società • 2 Commenti

Come da un incubo ci stiamo risvegliando. C’è ancora quel momento di smarrimento tra sogno e realtà, quel brusco ritorno al quotidiano. Però le immagini sono chiare e rimandano a un mondo onirico rituale e terribile, in cui tutto è permesso. Un rituale a cui però non si partecipa e di cui non ci si sente neanche parte. E che né si esorcizza né si supera. Anzi, in questo meccanismo ci si risveglia dall’incubo e lo si ha ancora negli occhi. Ma nonostante l’universo di stravolgimenti della coscienza che il rito abitualmente porta con sé, dentro di noi, invece, questa volta, rimane soltanto la paura. E non sappiamo perché.

Ancora una volta, infatti, come accade frequentemente nella storia, assistiamo a un aumento della percezione d’insicurezza, sentiamo una forte intensificazione del rischio e proviamo un timore tanto concreto quanto inspiegabile, ovunque amplificato. Non lo si vive e non lo si vede, però lo si sente. Zone infrequentabili, delinquenza, rioni proibiti, stupri, violenze e efferatezze. Ormai anche i centri storici sono pericolosi. Che succede, allora? Perché le nostre percezioni e impressioni fluttuano così rapidamente? Cosa induce questi astratti sentimenti in noi, quando - in realtà - non è cambiato niente? Come siamo rimasti intrappolati nel terribile sogno?

Ovviamente sarebbe troppo semplice accusare l’informazione: non è che un effetto del fenomeno principale. Imputarla come colpevole devierebbe soltanto l’attenzione dal problema principale. Dovremmo piuttosto interrogarci su come certi sentimenti astratti (paura, percezione d’insicurezza, ecc.), non comprovati, troppo spesso assumano il carattere della verità inconfutabile, senza che se ne scorgano le ragioni. Nemmeno in lontananza. Troppo spesso la storia si è prodotta su questo genere di sogni, su delle idee accettate, su quello che Hegel chiama il “noto”. E cioè in quanto noto, un qualcosa di assolutamente non conosciuto, non appurato, non approfondito. Ancora oggi molto è noto e poco è conosciuto: “Tutto è permesso, ma niente è possibile”, per riprendere un autore contemporaneo francese. Quei fomentatori politici e mediatici del fenomeno descritto rispondono ad alcune chiare esigenze. Identificare il nemico ed eliminarlo. O, nel migliore dei casi, renderlo schiavo.

Proprio per questo sarebbe assai pericoloso dimenticare la schiavitù dei “temuti”, di coloro dei quali abbiamo paura. La loro schiavitù è la chiave del problema. Determinata e sostenuta da chi si professa come evangelizzatore e proliferatore di libertà: il liberale. Che è però schiavista, come dimostra la storia. Le sue libertà sono per pochi. Dall’Olanda, all’Inghilterra, fino agli Stati Uniti la storia del liberalismo è colma di paradossi tra libertà e prigionia. Un’epoca di contraddizioni tra la difesa delle libertà (da difendere dai governanti) e l’intransigente negazione delle libertà (di chi è, però, schiavo o lavoratore). La stessa Costituzione americana, fondata esplicitamente sul concetto di libertà, contiene un passaggio (già nel suo articolo primo) che arriva a differenziare le “persone libere” (free persons) dal “resto della popolazione” (other persons).

L’ìstanza conservatrice della sicurezza, la percezione di pericolo della cittadinanza sono allora sempre atti ideologici da temere, attentati alla libertà. Ma che, attenzione, ledono soprattutto la libertà di punire. Sono, infatti, attentati alla giustizia che, fatta nelle piazze, nei caffè e sui giornali, resta fuori dai tribunali. Abbiamo sentito recentemente un ex ministro (lo stesso che in un carcere aveva predisposto un tetto massimo di libri per detenuti ogni settimana) affermare che “le carceri sono troppo vuote”, quando la maggioranza delle prigioni resta sovraffollata e disorganizzata.

Ecco, queste tipiche mistificazioni della realtà, queste neanche troppo velate menzogne, restano in noi, nei nostri sogni, nel nostro inconscio e, subdole, s’intrufolano sottoforma di immotivate certezze, discriminazioni e pregiudizi. Cioè i tratti fondanti delle società in crisi, delle civiltà in regressione. In risposta a crisi economiche e sociali tali comportamenti sono sintomo di derive identitarie, che il sistema avalla. Ma in realtà ci si chiude solo per l’incapacità di aprirsi.

Giacomo Valtolina

Giacomo Valtolina Giacomo Valtolina, giornalista milanese, classe 1983.
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Commenti: 2 »

  1. Caro Giacomo, innanzitutto complimenti perchè quello che descrivi è uno dei timori più diffusi e radicati in Italia:la paura dello straniero delinquente.
    Personalmente metterei l’accento su una paura un po’ più sottaciuta ma che sta ormai diventanto il pane quotidiano dei giorni nostri: la normale follia dei singoli.
    Voglio dire che un tempo Pietro Maso o Erika e Omar erano casi, impressionavano, stupivano, scandalizzavano e facevano orrore a chiunque. Se ne parlava per lungo tempo in tv e sui giornali, si poneva un enorme accento sugli accaduti. Adesso un folle che entra in casa propria e ammazza moglie, figli e vicini di casa solo perchè ha i debiti al Bingo del paese fa meno notizia della festa del vino di Penna in Teverina.
    Con questo esempio fin troppo banale vorrei far presente come ormai ci si sia abituati al “sono cose che succedono anche nelle migliori famiglie”. Da nessuna parte viene sbandierato che il 69% delle violenze sessuali sulle donne avviene in casa e che solo il 31% restante è da imputare al marocchino/albanese/straniero di turno.
    La mia vera paura è quella di vedere una società che piuttosto che risolvere i suoi problemi endogeni preferisce assorbirne di esterni per poi potervi puntare il dito contro.

  2. indipendentemente dai dati (dovuti alla minor presenza straniera sul territorio) ciò che condivido - anna - è lo scandalo delle violenze all’interno delle case italiane, figlie di una società ancora patriarcale, ancorata a presunzioni retrograde, maschiliste e, francamente, inquietanti. d’altronde un neopresidente del consiglio che dice al “suo amico e collega” zapatero che è sì “tanto bello contornarsi di ministri donne” ma che “bisogna stare attenti”, fa riflettere sullo spirito che muove le sue scelte. ciò mantenendo l’assurdo stereotipo “dell’intuizione e della capacità pratica” della donna, che sono altre proiezioni tipicamente maschiliste.
    un saluto g

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