La commedia dell’”arte”
Di Riccardo Marvaldi • 7 giu 2008 • Categoria:Società • 4 CommentiAgli occhi dei più, la vicende napoletane hanno un carattere insieme evocativo e paradossale, in ogni caso estremamente affascinante. Una delle particolarità è il fatto che tale situazione, pur nell’intensa ed espressionista drammaticità dei resoconti e delle immagini,dopo mesi (se non anni) di quotidiana vergogna, non riesca ancora ad assurgere compiutamente a “tragedia”. Non riesca cioé ad essere compiutamente metabolizzata e compresa in tutta la sua gravità.
In uno sviluppo così barocco, ricchissimo di colpi di scena, soluzioni improvvise ed inconsistenti, il tutto sembra scivolare in un abisso sempre più profondo, un’infinita riproposizione di schemi e situazioni già viste e sperimentate, senza alcuna apparente evoluzione. Una parata di ruoli, personaggi e situazioni nella miglior tradizione della Commedia Dell’Arte.
Il capitolo più paradossale è sicuramente quello sulle responsabilità. Le voci ed i dibattiti si inseguono, senza mai arrivare ad un qualcosa di concreto, schiacciate un fatalismo dirompente, figlio di un approccio molto mediterraneo e di una abitudine al paradosso, esercitata, spesso con genuine punte d’orgoglio, fino all’inverosimile. Proprio in questo, Napoli è lo specchio dell’Italia intera: immagine riflessa e deformata, spiega con impietosa lucidità le malattie di un Paese intero. Il nome è lo stesso: accountability. O meglio, la sua assenza.
Il termine è tanto brutto quanto difficilmente pronunciabile, così distante dalla lingua italiana quanto ne è distante il senso dalla realtà del nostro Paese. Solo sommariamente potrebbe esser tradotto con responsabilità, e sicuramente non con la responsabilità con cui siamo abituati, ormai da tempo, a fare i conti.
Il punto è che, in Italia, per ogni disfunzione, sembra non esistere mai un responsabile. Non intendo un solo responsabile, concetto vicino a quello di capro espiatorio, tipico processo di deresponsabilizzazione collettiva in cui siamo campioni, ma una effettiva scala di attribuzione puntuale delle responsabilità, alla base di un qualsivoglia sistema non solo strettamente giurisdizionale ma anche (e soprattutto) civile e politico. In Italia, nell’esser tutti coinvolti, non lo è mai nessuno, in una sorta di distribuzione della propria quota di responsabilità ad un “altro” indefinito, da cui ci si sente estranei nelle difficoltà, ma di cui ci si serve per non sentirsi colpevoli. Insomma, un modo come un altro per sentirsi puliti, così lontano dall’insegnamento cristiano di remissione dei peccati, di spontanea assunzione delle responsabilità proprie ed altrui, forse unico strumento psicologico per poter fronteggiare le crisi in maniera compatta. Ulteriore dimostrazione che l’Italia non è certo un Paese di Santi, Poeti e Navigatori, oltre al fatto che, probabilmente, bisognerebbe smetterla con la retorica a buon mercato delle “eredità culturali”.
La decenza si perde nella banalizzazione. Si scopre così che i responsabili non sono i politici, che non si sono (quasi) mai dimessi ed a cui è sempre stato impedito, presi singolarmente, di risolvere la situazione. Non lo sono i poveri cittadini, da sempre solo vittime delle loro stesse creazioni, la camorra ed il malgoverno. Non lo sono gli intellettuali, ripiegati in un iperuraneo di raffinatezza dolce e barocca, con quel suo gusto carico di ricercata bellezza nell’unione di sfarzo e morte (sempre meno figurata), e così irrimediabilmente incompresi dalle “masse”. In breve, non lo è nessuno - o meglio, nessuno si sente responsabile.
Proprio gli intellettuali, d’altra parte, meritano una riflessione più approfondita. Pochi giorni fa l’analisi, amara e lucidissima, di Panebianco sul Corriere. Concretizzando i dubbi di molti, si chiedeva dov’erano le cosiddette élite, quel milieu culturale che, in teoria dovrebbe essere a capo della società civile. Dov’è dunque la reazione di fronte allo sfacelo? Dove sono quelle forze catartiche che dovrebbero animare tutta Napoli, in un percorso virtuoso che ha inizio proprio dal singolo cittadino?
È la descrizione di un’inerzia incomprensibile, di una rassegnazione difficile da comprendere, in Italia ed ancor più all’estero. La realtà, forse, è ancora diversa, e ci racconta di una incomunicabilità strutturale tra i diversi livelli sociali (ad essere onesti, non certo una caratteristica della sola Campania1), tipica di società non completamente sviluppate, con eccessivi gradi di concentrazione di ricchezza o di cultura (che, naturalmente, comprende il senso civico2), in cui le élite sono irrimediabilmente scollegate dalla società. La società civile esiste ed è viva, si è risposto, ma non è ascoltata, non ha presa3. È un grido d’aiuto, una dichiarazione di impotenza, che certifica la morte del concetto non solo di intellettuale engagé, ma dello stesso concetto di cultura, che, quando non trasmessa e slegata dalla storia e dalla società, diventa caricatura di se stessa, Don Ferrante del nostro secolo.
In qualche modo, ritorna una questione centrale nella Storia d’Italia: quella della leadership, per usare un’altra parola straniera, da sempre così intrisa di fatalismo, da sempre vissuta non come forma di rappresentanza di interessi comuni, ma attesa messianica e manichea del “salvatore”, di colui che, con magico colpo di spugna e senza sforzi particolari, risolva tutti i problemi, quasi che questi fossero bazzecole originate chissà dove.
Nel momento in cui tutte queste questioni si incontrano, in questo caso a Napoli, si arriva all’apoteosi del paradosso. Ormai l’unica via sembra essere quella dell’intervento di autorità esterne, del dictator di classica memoria, come sostenuto di recente, in maniera convincente, proprio sulle pagine del Tamarindo. Ma niente è a costo zero, e niente è così semplice. Il dictator, declinato nelle forme più moderne del supercommissario o superfunzionario, concreta la propria esistenza su di un regime di necessità, che gli garantisce la delega, temporanea, all’esercizio di un potere che, per essere efficace, dev’essere assoluto, quindi extra-legem.
È, allo stato attuale delle cose, una soluzione probabilmente irrinunciabile, ma è anche una soluzione che potrebbe favorire proprio ciò che vuole combattere. Paradossalmente infatti, la natura di tale potere, proprio nel creare una qualche zona immune al potere giurisdizionale normale, è molto vicina alla prassi ed alla natura della camorra stessa (e delle mafie in generale), maestra nel creare e mantenere zone a legalità limitata. Il rischio per lo Stato è quello di esser percepito non troppo diversamente dalla camorra stessa, nel momento in cui esercita un potere non del tutto accettato o condiviso dalla maggioranza della popolazione, né sottoposto ad un controllo efficace. Si potrebbe, per assurdo, arrivare a sentire la camorra stessa più vicina agli interessi del cittadino leso nei suoi diritti dall’apertura di una discarica di emergenza, rinsaldando quel legame perverso con cui ci si è scontrati più volte. Sono i paradossi della cultura dell’emergenza, dell’efficacia d’ultima istanza non rispettosa (a volte) neanche delle regole più elementari. La percezione sarebbe quella dell’inesistenza di un effettivo salto di qualità tra il potere legittimo dello Stato e quello de facto della camorra (se non per il fatto che, nel sopruso, il secondo, proprio perché irresponsabile, può cavalcare meglio l’onda dello scontento). Da uno Stato colpevolmente assente, ad uno Stato dittatore e tiranno, con un ragionamento che travalica i più elementari principi di causa ed effetto, ma che, alla resa dei conti, non sembra così assurdo.
È una situazione abbastanza tipica, se inquadrata in prospettiva storica: da sempre capaci di gestire le emergenze con inaspettate risorse, ma altrettanto incapaci di gestire in maniera adeguata la “normalizzazione”, quindi incapaci di risolvere i problemi.
La mia riflessione non è un peana all’immobilismo: il tempo per la riflessione, in questo caso, ha da esser rimandato, proprio per la gravità del caso, ma non dimenticato. Infatti, anche agendo con risolutezza, non è affatto scontato che il dictator/funzionario dello Stato possa vincere contro la più compiuta espressione dei mali che attanagliano i cittadini italiani, per una meravigliosa e terribile metafora soffocati dai loro stessi, ed indesiderati, prodotti. Ed anche una volta vinta la battaglia, non ci si illuda di aver vinto la guerra, perché proprio tale vittoria dimostrerebbe quanta strada ci sia ancora da fare.
La consapevolezza è che il vero cambiamento, la rivoluzione, è quella a livello personale, a Nord come a Sud (senza voler generalizzare), con diversi livelli di intensità.
La crisi napoletana può essere, se ben gestita, un’occasione irripetibile per il cambiamento, o trasformarsi in una delle più grandi vittorie della camorra. Infatti, nella peggiore delle ipotesi, potrebbe arrivare a risultati incredibili (ma niente affatto improbabili): scaricare sul bilancio dello Stato la gestione del proprio fallimento (magnifico esercizio di moral hazard), rinsaldando al contempo il legame culturale e sociale con la popolazione, convinta della normalità dell’extra-legalità, dato che la risposta dello Stato, simbolo del potere legittimo, se limitata al dictator, non verrebbe percepita come diversa da quella della camorra.
Se non ci si assume tutti quanti la propria responsabilità morale (la relazione parlamentare sulla provenienza degli scarti tossici parla chiaro), se la magistratura non riesce ad andare fino in fondo evidenziando ogni responsabilità individuale e specifica, senza limitarsi al suggestivo ed inutile capo espiatorio, se la politica non si decide a cambiare l’approccio clientelare con una visione a lungo termine, se la società civile non si dimostra pronta a sacrificarsi alla legalità (il che comporta davvero per il singolo una perdita di utilità nel breve periodo), se il milieu intellettuale non riesce a rinsaldarsi con la popolazione, esponendosi davvero personalmente e rifiutando il compromesso nella proposizione di alternative ideali,complesse e suggestive, tutta questa esperienza sarà stata solo dannosa ed inutile.
Non ci si illuda di aver toccato il fondo. Non rimarrebbe altro che fare il passo successivo. Lasciare Napoli a chi la comanda davvero, forte dell’incapacità (o della non volontà) della popolazione di scegliere una alternativa: la camorra. Se davvero questa uscirà rafforzata dalle vicende dei prossimi mesi sarà perché, in fondo, è la stessa maggiornaza della popolazione, o delle élite, a considerarla come la miglior organizzazione possibile, adatta a rappresentare efficacemente gli interessi della comunità. Istituzionalizzare la camorra, in fondo, sarebbe renderla responsabile, prima di tutto verso gli stessi Napoletani (ed ecco il ritorno dell’accountability), in modo da interrompere il doppio binario di rivendicazioni che è alla base della pervasività sociale di questa istituzione. Da una parte infatti i benefici diffusi della cultura dell’illegalità, spesso spacciati ogogliosamente come simpatico folklore, che legittimano in continuazione l’esistenza di un’istituzione criminale, dall’altra i costi sociali ben più grandi, che lo Stato (indubitabilmente colpevole) dovrebbe risolvere, scaricando su quell’”altro”, in fondo percepito come alieno da sè, i costi del proprio comportamento.
Napoli, oggi, è uno dei banchi di prova della maturità dell’Italia stessa, sempre al limite tra una rinascita e la decadenza morale, in un equilibrio che, purtroppo, sembra immutabile. Siamo tra la fine del Paradosso e l’inizio dell’Incubo, pronto a concretizzarsi in un vortice di legittimazione dello Stato di fatto, ed una rinuncia, non si sa quanto consapevole, ad una esistenza migliore. O, più probabilmente, siamo sempre allo stesso punto, schiavi di noi stessi e della nostra incapacità (nel migliore dei casi) di cambiare ed evolvere, cittadini di uno Stato ignari degli obblighi morali che il concetto stesso di cittadinanza comporta. Napoli, solo un ulteriore tassello di un puzzle incastrato male, tempo e risorse sprecate, alla disperata ricerca non di un’Utopia, ma della normalità.
1) Situazione problematica a livello nazionale, come incidentalmente analizzato dall’ultimo rapporto CENSIS “Meno mobilità, più ceti, meno classi”.
2) I dati sull’indice ISCED (International Standard Classification of Education) , standard creato dall’ UNESCO come sistema internazionale di classificazione standard per l’istruzione, parlano chiaro, ponendo la Campania all’ultimo posto in Italia per numero di laureati e dottorandi.
3) Dal Sito del Corriere della Sera:
[...]Significativa la reazione di Mirella Barracco, presidente della Fondazione Napoli Novantanove, protagonista di quella stagione culturale che una decina d’anni fa accese tante speranze —. Il tessuto sociale non è torpido: ci sono decine di associazioni che si muovono sul territorio, elaborano progetti, ma alla fine di questo gran discutere non rimane granché. Siamo tutti disperati, ma non tutti vogliamo le stesse cose. È difficile trovare un’intesa sui tre punti nodali della crisi: fare diventare legale ciò che è illegale; rendere pulito quello che è sporco; dare credibilità a chi non è più credibile. L’unico modo per risollevarci dal baratro è accettare queste condizioni? Può darsi, ma è difficile digerirlo. Io credo che per venirne fuori, dobbiamo guardare l’abisso in cui siamo precipitati». [...] http://www.corriere.it/cronache/08_giugno_01/derrico_societa_civile_in_piazza_1eb4b622-2faa-11dd-a286-00144f02aabc.shtml
Riccardo Marvaldi Nato a Sanremo, cresciuto nell'aspra e tranquilla liguria di ponente, da sempre appassionato di letteratura, cinema e musica, ho mosso i miei primi passi a Milano con una laurea in economia, un periodo di studio a Parigi ed un'esperienza lavorativa in Marocco. Irrequieto, mi sposto di pochi paralleli più a sud, questa volta a Firenze, ed in seguito di molti più meridiani più ad ovest, spinto dalla passione per gli studi internazionali. Il presente è nomade sulla direttrice Roma-Milano, alla ricerca di un trampolino di lancio e con un sogno: non fermarmi mai.
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riccardo,
chapeau. pieno di significati politici..
oltre che di immagini.
vorrei postarne anche io una di immagine, una positiva
ripensavo a un qualche documentario sui giorni del colera. arrivarono
gli americani con quelle strane “pistole” per la vaccinazione di massa.
quella scena bellissima di tutti i cittadini in fila..
questi banchetti allestiti tra un vicolo e l’altro.
delle righe lunghissime, puoi immaginarti quanti fossero in coda..
ma erano righe straordinariamente ordinate.
e colpisce perchè lì si era davvero tra la fine del Paradosso e l’inizio dell’Incubo.
il clima era quanto dei più difficili si possano immaginare.
ma le righe erano davvero pefette.
non era perchè era arrivato qualcuno dall’esterno
gli americani erano sì ad aiutare ma erano pochi e naturalmente non era loro compito preoccuparsi di tutto
era che tutta la città si ritrovava in quel momento unita nel rispetto e nella pazienza
un momento molto bello secondo me
Come non esprimere apprezzamento sincero per un simile pezzo.
Come ha detto Michel, chapeau.
Le idee espresse nei nostri due articoli si confermano complementari per la massima parte, eppure anche in quella dove divergono offrono uno spunto di dibattito che credo valga la pena almeno accennare.
Riprendendo l’ordine del tuo articolo:
1- sulle élites assenti. Passami la cinica espressione ma… in questi giorni andare in parlamento è da considerarsi quasi peggio che andare in televisione. Chi si espone, in una qualsiasi forma di partecipazione politica (anche solo nel senso di ars civica più semplice) finisce per bruciarsi in un rogo di stereotipi, piuttosto che venire costretto a fare lo Yes-man prima di riuscire a fare 1/100 di ciò che si era proposto. Sia pur considerando che la colta intelligenza delle élites è in genere più adatta alla critica (costruttiva, magari) che non al governo reale (qualche rimando storico, come dire, ‘terrorizzante’?), è ormai diffusissimo il senso di disfatta nei confronti di questa situazione. E si sa, dalle nostre parti come altrove, nessuno è tanto prono a salire sul carro della sconfitta…
2- Unico punto di distinzione importante fra noi. Dici ‘…Il rischio per lo Stato è quello di esser percepito non troppo diversamente dalla camorra stessa…’. E allora? Concedimi la cinica brutalità ma, in extremis, lo Stato può anche agire come la camorra. E’ la camorra che non può (o non dovrebbe potere) agire mai come Stato. Altrimenti è anarchia. Nell’infinito vaso dei disastri umani, dobbiamo davvero scegliere cosa sia meglio tra una tirannide e l’anarchia? Pistola alla testa, forse una preferenza riuscirei a manifestarla.
3- Sui rifiuti. E’ vero, parte di quelli tossici vengono dal nord. Ma la provenienza è determinata da normali rapporti intergovernativi tra regioni e regolari contratti con società che sono poi, in effetti, controllate da camorra et similia. Però dico: non è il Piemonte che getta i liquami velenosi della FIAT nel Vesuvio…
4- ultimo punto di riflessione divergente: (voglio credere che) la camorra non sia considerabile, neanche in ipotesi, la migliore delle istutuzioni possibili, da nessuno. Credo si possa dire che un’organizzazione criminale non può ‘istituzionalizzarsi’ anzitutto per un problema ‘ontologico’: a camorra e compari non stanno a cuore gli interessi della collettività in genere ma soltanto quelli della sua gente(e, in subordine, dei suoi sottoposti). D’altra parte, basando il proprio potere d’attrazione su violenza, illecito e forte gerarchia, ed essendosi radicata in modo irreversibile nel territorio, come può lo Stato offrire un’alternativa credibile senza ricorrere alla forza (e cioè senza sostituirsi temporaneamente alla camorra stessa?). E rieccoci al punto 2.
Questi gli spunti di riflessione che il tuo articolo ha ‘insinuato’. E di cui ti ringrazio.
Complimenti ancora.
Riccardo,
Mi unisco al coro di complimenti!
Credo che la tua posizione e quella di Matteo siano conciliabili. Il dicator e’ una soluzione di breve periodo, i tuoi richiami all’accountability, al ruolo delle elites, all’azione della magistratura, rientrano in un’ottica di lungo periodo. Cio’ non significa che il dictator debba entrare in azione ora e tutto quello che tu suggerisci possa essere rimandato al futuro. Proprio questo sarebbe l’errore piu’grave, come mi pare il tuo articolo enfatizzi.
La mia preoccupazione riguardo al dictator e’ che coloro che oggi lo impongono, ovvero le istituzioni nazionali e locali, siano tra i responsabili, almeno in negativo, della tragedia campana. Dove erano queste istituzioni quando bastava controllare i contenuti dei camion che trasportavano il male dal Nord al Sud? Dove erano queste istituzioni quando le concessioni per le discariche erano attribuite a persone limpidamente vicine ai clan cammoristi? Dove erano queste istituzioni quando era indispensabile capire dove finissero una parte dei rifiuti prodotti in Lombardia la cui destinazione e’ sempre stata oscura? (vedi Gomorra). Dove erano quando non si capiva di cosa esattamente si occupassero i tanti “broker” dei rifiuti che proliferavano in Campania?
Il vero problema a mio avviso e’ che il dictator, in quanto imposto da istituzioni finora colpevolmente assenti e omertose, inizia la sua attivita’ gia’ con un forte deficit di credibilita’.
E allora, faccia il doppio, triplo, quadruplo sforzo per conquistare tutta la credibilita’ che non ha, non limitandosi ad imporre le discariche ai cittadini in rivolta, ma contribuendo a correggere tutte le distorsioni che Riccardo ha individuato.
Un’ultima nota: dire che i rifiuti tossici che provengono dal Nord rientrano nei normali accordi tra regioni non e’ propriamente corretto. Le regioni non si sono accordate perche’ gli imprenditori mettessero i rifiuti prodotti dalla rispettive imprese nelle mani della camorra. Gli imprenditori non sapevano? Ma la Fiat non si e’ chiesta perche’ in Campania si offriva la possibilita’ di smaltire i rifiuti a prezzi fino all’80% inferiori rispetto a quelli praticati dai regolari centri di smaltimento?
Grazie ragazzi per gli interessanti spunti di riflessione che avete offerto!
Sono contento, non solo per i complimenti, di cui vi ringrazio, ma anche, e soprattutto, per gli spunti di dibattito che avete offerto, con lucidità e prontezza…
Partirei dal punto secondo, del commento di Matteo, perché in fondo è alla base delle diverse sfumature. Non dico divergenze, perché il mio articolo era nato come commento proprio alla questione del “dictator” dell’articolo precedente, punto di partenza inevitabile. In fondo, come ha sottolineato Pamela, le nostre posizioni sono conciliabili, agendo su diversi archi temporali, ma accomunate dal medesimo sentimento di urgenza ed emergenza. Anzi, direi che sono complementari, due fasi fondamentali nella gestione della crisi e nella ricerca delle soluzioni. Certo, il mio approccio risulta essere più nuancé e meno decisionista, più garantista se si vuole, ma non so quanto tutto questo sia dovuto a differenze sulla concezione del problema o a diversi archi temporali su cui si immagina l’intervento. Certo, neanche io credo all’istituzionalizzazione della camorra, anche solo per il fatto che non credo affatto che essa abbia alcuna intenzione di farsi regolarizzare, ma non credo che la forza sia la soluzione, proprio nel momento in cui non agisce sulle cause, ma si limita a nasconderne i sintomi.
Proprio il problema della Stato è fondamentale in un discorso sulla responsabilità, e andrebbe approfondito. Per cogliere lo spunto di Pamela, è vero che stiamo assistendo ad un fallimento dello Stato, ora in deficit di credibilità e sicuramente colpevole. Ma anche su questo ho piccole riserve. Ogni volta che si tirano in ballo le responsabilità della Stato si rischia di cadere in una trappola, dovuta proprio all’indefinitezza della concezione di Stato. Si parla di fallimento dello Stato inteso come amministrazione centrale/politica nazionale? Si parla di fallimento di apparati locali dello Stato? O ancora si parla di fallimento di uno Stato intero, inclusi i cittadini?
La prima concezione, quella che va molto di moda nei dibattiti sul meridione, è a ben vedere abbastanza vaga. Lo Stato non c’è, non fa abbastanza per Napoli,per il Sud,per il degrado,per lo sviluppo. Troppo spesso queste critiche peccano di semplicismo (o populismo), pensando che il potere di intervento di Roma debba e possa essere infinito, capace, se solo volesse, di risolvere le situazioni. Non credo sia così, non credo che lo Stato abbia capacità di intervento così capillare, né che sia in grado da solo di risolvere da solo le cose (ed ecco che ritorna la mia critica ad un intervento esterno, o percepito come tale). Non entro sul dibattito della volontà (bisognerebbe analizzare le politiche pubbliche una per una, valutarle per il fini che perseguono ed i gradi di efficacia con cui sono state ideate ed applicate, periodo per periodo, non essendo la semplice constatazione di un fallimento generalizzato un indicatore valido a misurare le volontà), ma su quello delle possibilità ci sarebbe molto da dire. Proprio Nel caso napoletano è difficile vedere responsabilità puntuali delle amministrazioni centrali, che non fanno molto, ma che rispetto a quanto fanno in altre regioni caratterizzate da pratiche più virtuose, fanno già molto. A livello finanziario l’intervento centralizzato non credo che sia inferiore a sud rispetto a nord, ma i risultati sono opposti. Forse, per spiegare performance così diverse, si deve passare ad una visione più ampia di Stato, almeno fino a comprendere una dimensione locale, quelle amministrazioni chiamate ad implementare ad applicare le varie politiche nel concreto. In questa concezione, lo Stato che deve fare il triplo diventa non solo Roma che deve fare il triplo,ma anche e soprattutto le amministrazioni locali, la regione, i comuni, la politica locale e le elites locali che devono fare il triplo: Napoli deve fare il triplo. Il passaggio successivo è quello di Stato comunità, che elegge, nomina e legittima in maniera varia la propria dirigenza. La comunità che sposando la piccola illegalità di ogni giorno vota e legittima l’esistenza della camorra. La legalità che votando la clientela, vota e legittima il malgoverno. La comunità che è responsabile per i propri dirigenti (vale anche a livello nazionale, intendiamoci).
Allora, chi deve fare tre volte di più?
Le distorsioni non si possono eliminare dall’alto e basta. Il processo per essere efficace deve essere doppio, dall’alto al basso e viceversa (e, per me, deve soprattutto partire dal basso). Sarebbe solo uno (l’ennesimo) spreco di risorse. In pratica, la palla è in mano ai napoletani, se non cominciano loro lo Stato non solo difficilmente agirà, ma neanche potrà farlo.
Ritorno all’immagine di michel (potere incredibile del simbolo, complimenti), in cui c’è chiuso tutto l’intervento esterno ed efficace (USA come Stato/dictator), effetto positivo (vaccino e guarigione colera), capillarità dell’azione (in ogni vicoletto, molti banchetti). Ma il segreto del successo non sta solo in questo, sta nel comportamento di napoletani: tutti in fila ordinata dietro ai banchetti. Non erano file imposte, erano file naturali, autoformatesi nella convinzione che con un piccolo sacrificio ne avrebbero beneficiato tutti, nella convinzione che fosse la cosa giusta da fare.
Se si vuole fare il salto di qualità, si cominci a stare dietro ai banchetti, ordinati, senza fregare il posto o cercare scorciatoie e furbizie. Ma non per spirito Cristiano, solo perché si deve capire che solo così le cose possono funzionare. Se noi per primi non la facciamo , è inutile poi lamentarsi dei risultati, o che nessuno faccia abbastanza per salvarci. Ma è un discorso che non vale per il solo Sud, ma per tutto il Paese, e più in generale per una altra grande questione che, mai nominata, sta alla base del discorso, ovvero la vera questione irrisolta in Italia, la cittadinanza. Ma meglio fermarsi per ora, che ho già annoiato abbastanza, ed ho gia fatto abbastanza confusione.
Ognuno ha i governanti che si merita. Basta rendersene conto.