Cambiare tutto per non cambiare mai
Di Pamela Campa • 10 nov 2008 • Categoria:Crisi economica, Italia • Nessun commentoDopo l’approvazione del decreto Gelmini e degli altri provvedimenti che s’inquadrano nel progetto di riforma del sistema di istruzione italiano, alcune cose cambieranno. Alcuni cambiamenti saranno irrilevanti (valutazione del comportamento espressa in decimi nella scuola primaria); altri avranno effetti diretti e indiretti considerevoli (l’istituzione del maestro unico operativo per 24 ore la settimana influenzerà direttamente la disponibilità di tempo pieno presso le scuole italiane, indirettamente il tasso di occupazione delle madri di bambini in età scolastica). Molti di questi cambiamenti avranno un costo. Tra tutti, credo che il più alto sia il costo opportunità della riforma in fieri. In un momento particolarmente teso della vita economica e sociale italiana e internazionale, in cui tante sfide devono essere affrontate e decisioni importanti devono essere prese, governo e opposizione si sono scontrati ferocemente sul decreto Gelmini, i ragazzi sono scesi in piazza, le famiglie hanno organizzato fiaccolate, le forze di polizia sono state scomodate. Tante energie, capitale fisico e umano sono stati spesi per o contro qualche provvedimento senza alcuna conseguenza, qualcun altro di portata rilevante, nessuno però mai all’altezza, per forza d’urto e innovazione, dei cambiamenti che la nostra scuola e universita’ richiederebbero.
Questo è il vero costo del decreto Gelmini. Tanto dire, scrivere, proclamare, protestare, per nulla. Il tempo, le energie, lo spiegamento di forze, l’attivismo del governo, l’affaccendamento della ministra, sarebbero potuti essere impiegati per far altro.
Per intervenire sui pochi punti deboli della scuola elementare italiana, prima per qualità in tante classifiche internazionali, ma con un difetto a mio avviso ormai non sopportabile: il mancato insegnamento in modo sistematico, efficace e proficuo dell’inglese. L’arretratezza dell’Italia per percentuale di popolazione che parla fluentemente l’inglese limita le possibilità di crescita degli individui, che non possono come lavoratori, studenti, viaggiatori, beneficiare degli effetti straordinariamente positivi che il confronto internazionale comporta; e penalizza inoltre le possibilità di crescita della stessa Italia: non raramente ho ascoltato lamentele di cittadini stranieri in visita nel Bel Paese, che si sono innamorati del bello di cui siamo maestri, e che come innamorati che non riescono a comunicare tra loro hanno sofferto per le difficoltà ad ordinare una buona lasagna al ristorante, o a chiedere informazioni ad un vigile urbano per visitare una bellissima piazza da qualche parte in città.
Queste energie sarebbero potute essere usate per introdurre gli incentivi nella scuola e nell’università italiane. Portare il mercato nell’istruzione non significa privatizzare gli istituti e le università; significa riprodurre nelle scuole e nelle università quella concorrenza e meritocrazia che fanno sì che in un sistema di mercato ben funzionante chi fa bene sia premiato, e chi sbaglia paghi. Esistono vari modi per creare i corretti incentivi, che non hanno nulla a che vedere con la privatizzazione. Nella scuola, si potrebbero mettere a punto dei sistemi di verifica dei progressi degli alunni, che tengano conto del punto di partenza degli stessi, magari confrontando i risultati realizzati in varie discipline insegnate da docenti diversi (il maestro unico rema contro questa possibilità). Nell’università, i docenti potrebbero essere assunti e retribuiti sulla base di criteri oggettivi di produttività (non è impossibile trovarne di efficaci: ad esempio, l’istituzione IDEAS - http://ideas.repec.org/ - aggiorna ogni mese un ranking di professori in Economics, sulla base del numero di pubblicazioni, i lavori citati, la qualità delle pubblicazioni stesse; un’idea di questo tipo potrebbe essere estesa a diverse discipline e integrata con altri criteri di valutazione, tra cui le performance nell’insegnamento).
Tutto quel lavoro sarebbe stato utile per mettere a punto un sistema di incremento della spesa per ricerca e sviluppo in Italia. Nel 2006 la percentuale di spesa pubblica italiana in ricerca è sviluppo sulla spesa pubblica totale è stata dello 0,61%, contro una media dell’Europa a 15 dello 0,78% (Fonte EUROSTAT). In generale il finanziamento pubblico della ricerca è imprescindibile, in quanto bene di merito, i cui benefici sono cioè sociali, non strettamente privati, e per questo è ragionevole che anche i costi lo siano. In Italia la “mano pubblica” è ancor più imprescindibile, in virtù di un tessuto imprenditoriale basato soprattutto sulla piccola impresa, che non ha le risorse necessarie per gli investimenti in ricerca avanzata all’altezza di un Paese sviluppato. La Svezia, che ha la quarta percentuale di spesa pubblica in R&D al mondo, sta progettando un’espansione della stessa, come principale e prioritario intervento contro la crisi economica internazionale.
Tutto questo sarebbe potuto essere. Ma non è stato, e non sarà. Alcune cose cambieranno, per lasciare invariate le più, e la crisi economica incalzante rischia di rendere questo immobilismo fatale.
Se è stato chiaro a tutti che bisognava salvare le banche per salvare il sistema economico intero, perché non è chiaro che bisogna salvare l’istruzione per non far mancare linfa vitale all’intera società?
Pamela Campa Sono un'aspirante economista, che si è appassionata all'economia dello sviluppo dopo un'esaltante esperienza di lavoro in Asia. "Da giovane" ero una brava nuotatrice, ora nuoto solo quando riabbraccio il mare della mia amata Puglia. Ogni primo dell'anno mi propongo di fare jogging la mattina, di imparare a suonare una chitarra che ora strimpello e di fare ordine nel caos della mia camera. Poi i libri di università, i romanzi d'autore, il "webbing" e le chiacchiere con gli amici finiscono sempre con l'assorbire le mie giornate intere. A settembre inizierò un PhD in Economics a Stoccolma, il che difficilmente si concilierà con i miei propositi da inizio anno.
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