Un armistizio tra le “Two Cultures”?

Di Marco dall'Olio • 13 mag 2009 • Categoria:Cultura • 4 Commenti

sanzio_01_plato_aristotlePochi giorni fa è ricorso il cinquantesimo anniversario della serie di lectures “The Two Cultures” , dell’accademico, scienziato e romanziere inglese C.P. Snow. Nei sui discorsi, consegnati alla Sala del Senato Accademico di Cambridge il 7 Maggio 1959, il chimico/scrittore esponeva ciò che vedeva profilarsi come principale ostacolo nell’orizzonte del dialogo intellettuale, e cioè la sempre crescente distanza tra cultura scientifica e cultura umanistica.

Questa distanza, sostiene Snow, non è fatta solo di metodologie ed attitudini differenti, bensí deriva da due weltanschaaung opposte ed in rotta di collisione. Da una parte il relativismo degli scholar umanistici, per i quali la realtà è una costruzione sociale, una ragnatela narrativa di simboli che noi stessi tessiamo, e dall’altra il realismo scientifico con il suo constante sforzo descrittivo, che presuppone una realtà oggettiva e quantificabile. Ovviamente queste due ideologie sono incompatibili, e senza uno spirito di dialogo e riconciliazione, il futuro vedrà solo innalzamento di barriere. Soprattutto perchè la Scienza, nel suo costante progresso, non avrebbe tardato molto ad “invadere” il campo di studio della controparte, cioé gli esseri umani, e se le humanities non fossero pronte ad adattarsi, tanto peggio per loro.

Le lectures, raccolte nel libro “The Two Cultures and the Scientific Revolution”, sono state incluse dal Times Literary Supplement nella lista dei cento libri più influenti del secolo scorso, ed hanno immancabilmente sollevato nella cultura anglofona una quantità poderosa di dibattiti, controversie e reazioni al vetriolo. Le lectures hanno certo il pregio di aver predetto con chiarezza e lucidità svariati fenomeni emergenti, come lo sforzo riduzionistico di numerose scienze nei confronti dell’essere umano. Ma questo è solo un pregio intellettuale, non certo un merito. Infatti oltre che descrivere lo stato del dialogo, Snow ha anche stabilito uno standard della retorica positivista ed anti-intellettuale che è rimasto più o meno inalterato nel corso di questo mezzo secolo.

Ad oggi infatti, il lato scientista della barricata infatti vede le lectures come momento fondante nel processo di auto-identificazione dell’emergente e predominante cultura scientifica. Il momento in cui la Scienza si è resa conto di essere la voce più grossa nell’arena accademica. L’altro lato invece vede Snow come la prima manifestazione di un odio rozzo e volgare, che rispecchia la malcelata sufficienza riservata dalla Grande Scienza verso qualsiasi attività intellettuale che esuli dai suoi metodi e canoni. Ragionare soggettivamente sulla condizione umana è uno spreco di energie, dal momento che non c’è alcun modo di verificare le proprie affermazioni. Studiare i classici ed analizzare altre culture è improduttivo ed inefficace. Gli studi umanistici non producono nuove tecnologie, ne descrizioni consistenti e verificabili della realtà. Non fanno parte del progresso. E a chi sostiene che allarghino la mente, trasformando droni del consumo in esseri umani consapevoli e capaci di apprezzare il dono dell’esistenza, la Grande Scienza fa orecchie da mercante, poiché tali effetti non sono misurabili, quindi per definizione al di fuori della sua considerazione. E non c’è da meravigliarsi se tutte le università del mondo stiano seguendo l’esempio americano di tagli su tagli verso i dipartimenti umanistici. I dipartimenti che non producono ricchezza, che non aumentano la produttività.

Ad essere sinceri, prendendo in mano un textbook standard di “lit crit” o filosofia post-moderna, le critiche mosse dalla retorica scientista sembrano azzeccate. Un senso di profonda inutilità emerge fra le righe. Decostruttivismo, teorie psicoanalitiche, antropologia culturale o travisate reinterpretazioni del compagno Marx che regnano in questi angoli dell’accademia possono dare la sensazione di una corsa sul posto, di leziosi giochi verbali privi di rilevanza, la cui unica funzione, oltre che fornire validazione intellettuale agli autori, è ingrossare una letteratura accademica autorefenziale, gratuita e slegata dalla realtà.
Ma questo di per sé non significa nulla. Se è vero che gli studi umanistici non hanno alcun “potere predittivo” e non sono in grado di produrre affermazioni quantificabili e verificabili sugli esseri umani, ciò non toglie nulla alla loro utilità soggettiva, alla loro capacità di ampliare la comprensione della condizione umana. Perché spiegare la realtà non è tutto ciò che possiamo o dobbiamo fare. Possiamo e dobbiamo anche vivere, vivere nella modo più pieno e consapevole possibile, e questo vale per chiunque, scienziati inclusi. Ed è proprio questo valore che la Grande Scienza non riesce a riconoscere. Leggere Aristotele o Virginia Woolf, studiare i precetti del Buddha o la filologia biblica forse non aumenterà la produttività del paese, ma di certo migliorerà la tua esistenza. E a chi dice che questo è puro egoismo, che bisogna dare apporti produttivi alla società per essere considerati interlocutori degni di rispetto, basta rispondere che la cultura produce beni più rilevanti di quelli materiali. La cultura produce consapevolezza ed umiltà, e queste a loro volta producono esseri umani migliori. Ovviamente la cultura non è una panacea universale, non è sufficiente di per sé. A dimostrazione di questo ci sono le sterminate schiere di intellettuali elitisti, gretti e megalomani. Ma seppur incompleto, resta un ingrediente fondamentale di qualsiasi vita ben vissuta.

Questa è forse l’unica plausibile breccia nella barricata. Capire che abbiamo bisogno di entrambi i lati della medaglia, dell’oggettività e della soggettività, del descrivere il mondo e noi stessi, ma anche di realizzare il nostro ruolo in esso. Conoscenza da una parte e saggezza dall’altra, una dicotomia che dovremmo abbracciare in pieno. E dire che basterebbe poco, solo un pizzico di arroganza in meno da entrambi i lati. Forse un’utopia irrealizzabile a livello sociale, ma di certo una posizione più che opportuna da prendere individualmente.

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Marco dall'Olio

Marco dall'Olio Emerge dalle marroni acque della riviera romagnola. Si contorce per i successivi 24 anni in cerca di un’identitá, mutando come lo Zelig di Allen. Appassionato fin dalla tenera etá di filosofia e scienze morbide, matura presto la convinzione di essere il depositario del Sapere Umano. E se ne lamenta costantemente. Affascinato dalla sorprendente capacitá dei suoi simili di emettere suoni e trasmettere significato, studia linguistica a Bologna. In un rapporto costante di amore/odio con l'America ed i suoi pensatori, attualmente situato in California, Berkeley, dove insegue metafore concettuali e si mantiene a stento come scrittore di libri di self-help, ed annunciatore part-time di Fine del Mondo.
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Commenti: 4 »

  1. che poi e’ la vecchia storia dell’Italia che lavora e che produce contro l’Italia che chiacchera e che odia

  2. tutto vero e tutto giusto pero dobbiamo ammettere che un po di invidia del pene nei confronti dei nostri amici in camice bianco c’e l’abbiamo tutta. Ci consoliamo sapendo che stare al baretto a stratraccannar a stramaledir le donne, il tempo ed il governo sara meno produttivo ma e’ senz’altro piu piacevole.

  3. bellissimo articolo. peccato per i commenti del cretino qui sopra che abbassano notevolmente il tono della conversazione.

  4. Non solo, ma già a partire dagli anni ‘70 entrambe le Weltanschaung muovono passi spaventati e spesso inconsci l’una verso l’altra. Sconosciuti ai più, ma spesso anche agli specialisti del settore, ignari del proprio ruolo di ‘mediatori’, applicazioni delle scienze in ambiti fino ad allora considerati umanistici rendono il divario meno netto. Così la teoria dei gruppi (un ramo della matematica che si occupa di simmetrie e relazioni) si è scoperta utile nello studio della ramificazione delle lingue e della migrazione dei popoli, rispettivamente in filologia e antropologia; lo studio dei pattern, delle costanti e delle strutture geometriche permette oggi ai critici d’arte di detreminare con assoluta certezza la paternità di un quadro attribuito a Pollock, lasciando intravedere interessanti possibili risvolti sulla sensibilità inconscia del cervello umano riguardo simmetrie e strutture primitive. Anche Calvino, che non ha mai negato un debole per le scienze cosiddette ‘esatte’, ha lasciato che varie teorie scientifiche (o meglio lo scheletro della struttura dimostrativa) si intrufolassero nei suoi scritti e nel suo stile. L’informatica, oggi, con il tuo tanto discusso desiderio d’imitazionde della realtà e la sua continua oscillazione tra logica e sospetta irrazionalità offre ancora nuovi spunti su questo capitolo.
    Uno dei casi più eclatanti è però da parecchi anni il campo ancora misterioso della fisica quantistica, che con le sue ‘probabilità’, i suoi ‘paradossi’ e le sue ‘incoerenze’ (se non altro rispetto alla logica classica) ne hanno fatto un punto di incontro di fisica, chimica, matematica, filosofia, logica ed esoterismo delle religioni asiatiche, spingendo Fritjof Capra a scrivere il ‘Tao della Fisica’ nel ‘75 e poche settimane fa il Times a pubblicare un articolo dal titolo ‘The spirituality of the particles’.
    A dispetto di tutto ciò, la maggior parte degli intellettuali e degli uomini di scienza amano ancora nascondersi dietro le vecchie barricate dell’assoluta incomunicabilità.

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