Mescolati non agitati?
Di Michelangela Di Giacomo • 16 set 2009 • Categoria:Italia • Nessun commentoSe “Mescolati non agitati” ha voluto essere l’ammiccante slogan della festa nazionale del PD di quest’anno, lo slittamento dal paradigma del “l’Unità”, attraverso un generico populismo del “ciao, bella!” fino al gioco semantico intorno al fortunato cocktail di un invincibile James Bond sembra essere molto più che una semplice trovata di qualche inventivo pubblicitario.
E se nella politica conta spesso più il non-detto del rivelato, potremmo forse leggere nella formuletta una malcelata scomoda verità. A pochi mesi dalle dimissioni di Veltroni, e ad altrettanti pochi mesi dal prossimo congresso del partito, col peso della prova elettorale europea dal contraddittorio bilancio, le velleità unitarie del PD sembrano essere ben lungi dall’essersi trasformate in realtà, e il partito sembra essere tutt’altro che invincibile.
Le varie anime del partito – popolar-cristiane e post-comuniste innanzitutto – sono a prima vista tutt’altro che mescolate, e la direzione fatica a non far trapelare una certa agitazione. Lasciando anche da parte l’affaire Grillo, una questione a sé che ha più del rapporto tra politica e antipolitica che di strategie di partito/realpolitik, i problemi del PD si coagulano intorno a ben più profonde divergenze. Che riguardano anzitutto l’idea stessa del partito.
Che cos’è il PD? Questo il nodo che, al di là della campagna elettorale europea – nella quale sembra aver tenuto una certa base pur con la prevista erosione a sinistra e dipietrina -, ancora evidentemente non è risolta. E che trova chiara espressione di visioni opposte nei personaggi candidatisi alla guida del partito.
Che ha a che fare l’ex-DC, ex-Margherita Francheschini con l’ex-PCI, ex-PDS Bersani? E in che punto si colloca l’ex chirurgo, senatore Ignazio Marino?
Basta la vocazione riformista, l’ambizione socialdemocratica apparentemente condivisa da tutti a dare forma ad un partito che evidentemente porta anime inconciliabili al suo interno? Per quanto si sia pensata come innovativa e chissà anche lungimirante – ma qua entriamo nel campo dei giudizi di valore che in questo momento non ci riguarda – il dialogo delle anime riformiste social-ex comuniste e cattoliche, queste due vocazioni inamovibili dalla temperie italiana, che sono sembrate dover trovare un’occasione di dialogo e anche di collaborazione, possono davvero coesistere all’interno di un partito?
E soprattutto: dato che a votare devono andarci dei militanti si suppone “di base”, che cosa ha capito questa base delle manovre interne ad una direzione confusa e disorientata? Io, se fossi un elettore delle primarie del PD e se dovessi dire da che parte vorrei che andasse il partito, ora come ora non sarei in grado di esprimere preferenze se non di serracchiana memoria perché un candidato è “tanto più simpatico” dell’altro (criterio umano validissimo, qualche dubbio in più sulla legittimità politica di una scelta del genere).
Ho pensato dunque che nel mondo del personalismo, in cui non conta più tanto il progetto politico ma le doti umane, non si potesse far altro che ripartire dall’uomo. E andare a vedere chi sono i tre principali sfidanti alla premiership del PD.
Ignazio Marino si presenta nel suo sito istituzionale con mascherina in sala operatoria o sfoggiando un iMac fiammante in bucolico contesto. Pone al primo posto l’essere un chirurgo specializzato in trapianti d’organo, nato a Genova nel 1955. Segue breve curriculum professionale, sviluppatosi anzitutto nei più prestigiosi istituti sanitari religiosi della Capitale. Studi in Gran Bretagna e a Pittsburgh, si fregia di aver “partecipato ai primi ed unici due trapianti di fegato da babbuino ad uomo della storia”. Tornato in Italia armato di buone intenzioni per risollevare la stagnante medicina nostrana, avvia a Palermo i programmi di trapianto di fegato e di rene da cadavere e da donatore vivente, e si è spinto tanto in là nell’accessibilità ed equità delle cure mediche da eseguire il primo trapianto italiano su un paziente sieropositivo. Nel 2003, esaurita (?) la sua missione nella madrepatria, riprende la via degli Stati Uniti dove, si specifica, “mantengo tuttora l’incarico di Professore di chirurgia”. Il che, oltre a dimostrarsi meritorio sgravio sulle finanze della sanità italiana, non gli ha però impedito di seguire la politica del Belpaese, collaborando con ItalianiEuropei, la Repubblica e l’Espresso, pubblicando tra l’altro “una interessante ed approfondita conversazione sui temi etici assieme al Cardinale Carlo Maria Martini”.
In biblico tra solidarismo e politica, nel 2006 ha deciso di tornare in Italia per essere eletto come senatore indipendente con i DS.
Rimarchevole assenza del cursus honorum politico, chissà per assenza del medesimo. Società civile che entra in politica, politica che si fonde con la società civile. Potrebbe essere l’homo novus di cui il PD ha tanto bisogno? Saranno la solidarietà in politica e la meritocrazia carrieristica i valori unificanti nell’era dei Bertolaso e dei Brunetta? Se la politica non è ormai più terreno di esperti politologi e le relazioni umane non sorgono più da un vincolo di cittadinanza politico-ideologica intorno a delle ideologie piuttosto che a dei valori, allora forse è meglio avere un ottimo medico preparato e solidale a far da modello al militante e alla società invece di nani ballerine e saltimbanchi.
Pier Luigi Bersani esibisce invece un curriculum ricchissimo di informazioni biografiche minute, che chissà perché ha ritenuto essere indispensabili per comprendere il suo excursus politico sicché si legge: “nasce il 29 settembre del 1951 a Bettola, comune montano della valle del Nure in provincia di Piacenza. La sua è una famiglia di artigiani. Suo padre Giuseppe era meccanico e benzinaio. Dopo aver frequentato il liceo a Piacenza, Bersani si iscrive all’università di Bologna dove si laurea in Filosofia, con una tesi su San Gregorio Magno. Sposato con Daniela dal 1980, ha due figlie Elisa e Margherita. Dopo una breve esperienza da insegnante, si dedica completamente alla attività amministrativa e politica. Viene eletto consigliere regionale dell’Emilia-Romagna”. Verrebbe da chiedersi quando, in che anno e perché tanta vergogna nel dire con che partito all’epoca iniziò a farsi spazio nella politica italiana. Nel maggio del 1996 il salto: da Presidente di Provincia Ministro dell’Industria nel Governo Prodi, poi Ministro dei Trasporti. Nel frattempo anche all’interno dei vari partiti post-PCI, Bersani è riuscito a ricavarsi un posto, come membro della Segreteria nazionale e responsabile economico degli allora DS. Parlamentare europeo, poi ancora Ministro, dello Sviluppo economico questa volta. Nel 2007 si lancia con entusiasmo nel progetto del PD, di cui anche è responsabile economico.
Sinceramente? Confusa ero e confusa rimango. Un uomo con la faccia sobria, so che piace a molti, “per lo meno è dei DS”, “tanto una persona per bene”, “e poi come ministro non s’è comportato male” (ma perché, qualcuno sa esattamente in che consistono Decreti che portano il suo nome, rispettivamente del 1999, sulla liberalizzazione del mercato elettrico, e del 2007, sulle liberalizzazioni?). Chissà che la sobrietà della sua vita familiare, evidentemente esibita in tempi di questione morale come principale virtù, non sia davvero la chiave di volta di una riabilitazione del PD in nome di valori che sembrano andati perduti – tra la sobrietà del modello del militante comunista e la morigeratezza cristiana – e che potrebbero chissà interrompere il circolo del “tanto sono tutti uguali” che tanti danni ha fatto alla partecipazione politica italiana. E comunque dalla sua ha una carriera politica decennale, forse il più “novecentesco” dei tre candidati, portatore di una visione politica che nella prassi sembra chiaramente non accettare “balle” e compromessi all’ora del confronto con l’avversario.
Resta infine Dario Franceschini, attuale Segretario-traghettatore del PD che dovrebbe condurre il partito dalla débâcle alla rinascita. Sul sito dariofranceschini.it non trovo una sua biografia, sono costretta a rivolgermi a Wikipedia, nella quale leggo che è nato a Ferrara nel 1958, da padre deputato per la DC negli anni Cinquanta. Laureato in giurisprudenza all’Università degli Studi di Ferrara con una tesi in Storia delle Dottrine e delle Istituzioni politiche, ha pubblicato alcuni studi sul Partito Popolare e alcuni romanzi. Dato che il privato al solito interessa più del politico, si nota che è sposato dal 1986 e ha due figlie. La sua biografia politica è ben più dettagliata, il che ovviamente non significa che di per sé sia migliore. La sua attività inizia a livello studentesco, con un’ispirazione cattolica e centrista, iscrivendosi alla DC dopo l’elezione di Zaccagnini e diventandone delegato provinciale giovanile. Nel 1980 diventa consigliere comunale. Dalla fase di trasformazione della DC in Partito Popolare Italiano si schiera per la via dell’alleanza tra centro e sinistra. Dopo le scissioni interne al PPI e l’adesione dello stesso all’Ulivo, rientra nel partito e, dal 1997 al 1999, ne è vicesegretario nazionale. Entra nel secondo Governo D’Alema e poi con Amato come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Tra i fondatori della Margherita, rieletto deputato alle elezioni politiche del 2006, è divenuto presidente del gruppo parlamentare dell’Ulivo alla Camera dei Deputati. Con la nascita del Partito Democratico e l’ascesa alla segreteria di Veltroni, ne è divenuto vicesegretario.
Sicuramente una biografia coerente, un personaggio pulito che anche come Segretario, in un momento tutt’altro che facile, sembra essere in grado di mantenere un certo carisma pacato, una tranquillità riformatrice che forse rispecchia proprio la vocazione del partito. Certo, vista la carriera, se il PD è Francheschini converrebbe chissà aggiungerci una C e sancire definitivamente quel sospetto che di un revival di democrazia cristiana si tratti, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, le sue spinte riformatrici-popolari e le sue correnti interne litigiose ed in eterno precario equilibrio, la sua sfida sostanzialmente al centro con venature di moderata socialdemocrazia.
Ma insomma, sarà il partito, base e congresso, a produrre una nuova forma del PD, e immagino ben consapevole che solo una definizione chiara ed efficace ne eviterà il tracollo e lo sottrarrà al rischio delle spinte centrifughe cui da sempre è esposto.
Michelangela Di Giacomo Nata a Roma nell’anno 1983, cullò dalla tenera età velleità da palcoscenico e da pennino a china. Dopo aver perso qualche diottria traducendo greco antico, scartate come possibilità di carriera le pulsioni all’arte, al design e al giornalismo, decise di diventare uno storico. Cinque anni in Sapienza, sette mesi a Madrid, si avvia ora in terre senesi per intraprendere un dottorato. Interessata a tutto, appassionata alla vita, tenta di cogliere spunti di riflessione nel caos comunicativo dell’era contemporanea. Tra i suoi svaghi, il ballo in tutte le sue forme, il teatro, il fumetto, l’arte e la lettura. Tra le sue ambizioni, un libro con Einaudi e la Presidenza della Repubblica. Ci sta lavorando su.
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