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La fallace seduzione del progresso all’incontrario

21 agosto 2008
Pubblicato in Opinioni
di Giacomo Valtolina

pennelloSiamo circondati da continue e fastidiose interferenze che professano una sorta di «ritorno alla natura», presumendo che esista un ipotetico ordine naturale delle cose, quale armonioso Eden a cui la società tenderebbe.

La nostra società liberale, infatti, apparentemente fondata sul progresso, genera invece modelli antitetici, fondati sul benessere, sul piacere e sulla ricchezza; modelli radicalmente avversi ad una società realmente produttiva. E così, cori informi di voci confuse ogni giorno diffondono messaggi che esaltano l’aria pura, il silenzio, la solitudine, la quiete, la vita in campagna contro l’inquinamento, il rumore, il caos e la metropoli. Si va inoltre a caccia delle proprie pulsioni più nascoste, a cui la società «impedirebbe di manifestarsi». Si riconsiderano cioè le leggi morali e civili all’insegna di una presunta «libertà» (selvaggia?), oggi persa, che restituirebbe l’uomo ad un autentico equilibrio con il creato, grazie alla riscoperta di quell’animo incorrotto e genuino da tempo dimenticato.
Si risale cioè fino alla sorgente, in questo caso fino a una sorta di comunismo naturalista primordiale che, se mai è esistito, è stato in realtà irreversibilmente pervertito dalla storia. La natura sociale è essa stessa infatti una produzione storica e dialettica che si presenta già in sé come una rottura con lo «stato di natura». E non è possibile tornare indietro. Soltanto attraverso il progresso si può superare la natura, creando una struttura delle relazioni umane che non deve più niente alla natura, che è l’opera politica esclusiva dell’uomo e, quindi, la sua libertà.
Invece il frastuono di questa specie di concezione naturalista dell’essere umano è assordante. Con come fine un uomo assolutamente slegato dalla praxis, i novelli naturalisti propongono un ordine originario, anteriore all’uomo e a cui l’uomo deve sottostare, che suona molto come destino, come predeterminazione, come fato. E allora ecco l’intervento della società odierna, capitalista e materialista, libertaria e libertina: inghiottire tutto il terreno culturale che si interpone tra uomo e natura, per togliere il freno a questa società di mercato, schiava e ingorda, che s’illude di voler raggiungere lo stato di natura attraverso il progresso. Quale paradosso, quale contraddizione per una classe dominante che vuole il progresso soltanto perché gli permette di accedere al potere economico e politico ma che d’altro canto inneggia continuamente alla natura: non si tratta più di essere soltanto conservatori, quanto piuttosto «regressisti».
Le derive libertine, sensualiste, naturaliste e ecologiste (o addirittura animaliste) odierne hanno i loro antenati nei movimenti della Rivoluzione francese e del Sessantotto. Si può riassumere dunque l’essenza di questa ideologia in una breve formula: l’individuo ha accesso al benessere attraverso il piacere grazie al progresso che permette di ritornare alla natura. Ma quali sono i mezzi per delineare tale natura? Nientemeno che gli effetti «repressivi» della cultura, religiosa e morale. Bizzarro per un sistema fondato sul «permissivo». Pensiamo al piacere, al godimento, alla libertà sessuale: il compimento naturale (sessuale) è impedito? Bisogna dunque trasgredire. Il piacere è tanto più nella trasgressione che nel godimento stesso. «Distruggere l’artificialità culturale per ritrovare finalmente la profonda autenticità delle pulsioni naturali» (De Sade). Bene, un progresso che ha come fine la realizzazione libertina, è già evidentemente corrotto e paradossale.
La società spinge quindi a un processo d’individualizzazione culturale estremo attuato per mezzo della trasgressione. O il libertinaggio resta all’interno di un’amabile forma culturale e mondana di consenso (essere di buona famiglia, essere educati, essere ricchi), oppure diventa un’espressione selvaggia e bestiale che ha come suo culmine, addirittura, il crimine: «Se un uomo merita di essere picchiato, perché non posso farlo?». Crisi di onnipotenza liberali. Come nella Salò di Pasolini il materialismo borghese si rivela allora un oscurantismo diabolico, nichilista e apocalittico, così questa società di consumo e di libertinaggio contribuisce alla creazione del «mostro».
O, cioè, un mostro mondano da salotto, che detesta l’inquinamento, che ama perdersi nella «sana» natura, che quando visita l’Africa torna affascinato dalla genuina autenticità di alcuni suoi popoli selvaggi, che teme per lo scioglimento dei ghiacciai e che pratica il nudismo (o naturismo, come guarda caso si dice oggi). Oppure, in alternativa, un mostro individualista disadattato che ha sganciato tutti i freni, tutti i valori imposti dalla stessa società, fino a rifiutarli non riconoscendone più limiti, proibizioni e divieti. Valori e tabù che sono quindi soltanto un mezzo, simbolo della contraddizione tipica in seno alla società liberale, sempre in bilico tra «repressivo» e «permissivo». Una continua gestazione di tabù da sfatare. Tra mondanità e violenza. Tra potere e rabbia. Tra idiozia e follia.

(*) Riferimenti da Critique du libéralisme libertarie di Michel Clouscard, éd. Delga, 2005.



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