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Leopardi e l’infinito: il naufragar m’è dolce nella scienza

27 agosto 2009
Pubblicato in Fiori, Opinioni
di Daria Piacentino

LeopardiGiacomo Leopardi è noto per l’attività di “letterato”: di poeta dell’Infinito, di Alla Luna, del Sabato del villaggio, o, tutt’al più, di prosatore delle Operette morali e dello Zibaldone. Meno noti sono gli aspetti scientifici della sua riflessione intellettuale: egli scrisse a soli quattordici anni, con il fratello Carlo, un Saggio di chimica e di storia naturale; e a quindici una Storia dell’Astronomia, prodotto del vivace dibattito con il padre Monaldo, fiero avversario delle teorie copernicane, che Leopardi invece abbracciò prontamente. Queste teorie erano condannate dall’Indice e tali rimarranno fino al 1835, anno in cui Gregorio XVI renderà lecita la pubblicazione del De Revolutionibus Orbium Coelestium di Copernico.
Inoltre, una parte cospicua della vasta biblioteca paterna (16.000 volumi), situata nel palazzo di famiglia presso il comune marchigiano di Recanati, era composta da testi di filosofia, scienze naturali, medicina e matematica.
Una risonanza delle conoscenze scientifiche è avvertibile in quasi tutte le sue opere e in special modo nello Zibaldone. Lo stesso concetto di infinito, uno dei più suggestivi della poetica leopardiana, si nutre di matematica, fisica, astronomia.

Ma che cosa è, per lo scrittore recanatese, l’infinito?

Vi è l’infinito inteso come aspirazione verso qualcosa di inattingibile, la Sehnsucht, il “desiderio del desiderio” – caratteristico non solo di Leopardi, ma più in generale della cultura romantica – destinato a rimanere inappagato e a causare uno stato di infelicità e privazione. Difatti, scrive Leopardi, “L’infinito non si possiede, anzi non è”.

Vi è l’infinito inteso come vaghezza, immaginazione, che interviene quando l’esperienza sensibile è bloccata da impedimenti di spazio o di tempo e mette in atto una finzione – l’”io nel pensier mi fingo” – che libera dalle costrizioni della finitudine e suscita un sentimento di piacere illimitato (R. Bodei, Il percepito e l’immaginato: Leopardi tra romantici e neoclassici).

Ma vi è anche l’infinito delle scienze, quello che Newton – il “grande Isacco Newton” – e Leibniz, nella seconda metà del 1600, avevano introdotto nella matematica, o più in generale, vi è l’infinità dell’universo e dei mondi possibili, che le teorie cosmologiche avevano spalancato da tempo. Leopardi, parlando di questo infinito, menziona la “matematica sublime”, ossia il calcolo infinitesimale, che all’idea di infinitamente grande affianca quella di infinitamente piccolo, conducendo al concetto di limite.

L’interesse di Leopardi per le scienze, in particolare per la matematica, risale alla giovinezza e rientra in una visione del sapere di tipo enciclopedico, intesa però non come necessità di sapere tanto su tutto, quanto piuttosto come necessità di sapere tanto per sapere bene una cosa, ossia per raggiungere l’esattezza nella disciplina direttamente coltivata, come è scritto nello Zibaldone.
Con riguardo alla matematica, nell’opera di Leopardi, sono frequenti i riferimenti a Newton, Leibniz, Huygens; sono invece assenti riferimenti a Pitagora, Euclide, Archimede e ai matematici greci in genere. Alla luce di quanto detto sopra, l’assenza di alcuni grandi matematici, esclusi in blocco dall’scrittore recanatese, è significativa quanto la presenza di altri ed è rivelatrice del suo pensiero.
Viene ignorata quella matematica, quale è quella greca (che Leopardi ebbe modo di conoscere da giovane), che cerca una teoria della misura e dei rapporti finiti in contrapposizione all’infinito (l’apeiron, il “non essere” dei pitagorici), sentito come minaccia, negatività, imperfezione. La dimostrazione dell’impossibilità del movimento data dal filosofo Zenone con il suo celebre paradosso di “Achille e la tartaruga” si fondava proprio su questa concezione negativa dell’infinito. Ciò ovviamente si scontra con la “filosofia” di Leopardi e con la sua sensibilità di poeta dell’infinito. L’animo umano non vuole il giusto mezzo, ma il vago. Senza vaghezza non c’è poesia.
Inoltre, la matematica greca cerca l’esattezza, ma tale ricerca va contro natura, la quale di per sé non è esatta, ma irregolare: “La macchina della natura”, afferma Leopardi, “(…) non risponde all’esattezza matematica”.
Leopardi intuisce che solo una matematica, e, più in generale, una scienza “inesatte”, che ammettono l’incertezza e l’errore, sono in grado di descrivere in maniera plausibile la natura.
Queste considerazioni sono di grande interesse, poiché gli sviluppi scientifici successivi, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, sembrano dare ragione a Leopardi: vengono messi in luce gli elementi di debolezza della geometria euclidea e della meccanica newtoniana; emerge il problema dei fondamenti nelle scienze matematiche; viene introdotto il concetto di fallibilità della scienza, che può difficilmente sbarazzarsi dell’imprevedibilità e dell’errore, cioè di quella componente di irregolarità che Leopardi sospettava fosse ineliminabile (P. Zellini, Leopardi, il pensiero matematico e il linguaggio dell’infinito).

Per concludere, si può affermare che Leopardi, il quale si pose con lo stesso rigore di fronte alla poesia e alla prosa, alle dissertazioni di fisica e astronomia, allo studio della matematica, alla riflessione filosofica, appartiene a una specie rara, quella degli uomini di straordinaria apertura mentale.
Sarebbe naturalmente beyond the point pensare che se Leopardi avesse dedicato la sua attenzione prevalente alle scienze naturali o alle scienze fisico-matematiche sarebbe diventato uno studioso insigne anche in questi campi, ma certo padroneggiò con competenza le discipline scientifiche. E d’altronde vi fu anche un riconoscimento contemporaneo di questo fatto – un illustre medico della sua generazione, Giacomo Tommasini, pensò addirittura di offrire a Leopardi una cattedra universitaria di scienze naturali presso l’Università di Parma!



One Response to “Leopardi e l’infinito: il naufragar m’è dolce nella scienza”

  1. Rocco scrive:

    super anche questo come quello di antea, il tamarindo finalmente vola alto tra scienza e cultura filosofico letteraria, fra un po ci penso a io a reinabbissarlo nella melma della politica italiana

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