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Quando i maiali volano. Male.

16 maggio 2010
Pubblicato in Opinioni, Primo Piano
di Giuseppe Matteo Vaccaro Incisa

I PIGS non volano più.
Che fosse una favola, sovaldi sale in fin dei conti, lo si sapeva fin dall’inizio.
Un’analisi per sommi capi di alcuni protagonisti dello sfortunato acronimo mostra come gli eventi di questi giorni non abbisognavano dell’indovino per essere anticipati.

Come non iniziare dalla Grecia. Travolta da duemila anni di disgraziato destino, l’Ellade, conscia della bruttezza che oggi circonda l’Acropoli (in restauro dal tempo dei colonnelli o quasi), ha maturato una sindrome del brutto anatroccolo che non ha precedenti. Se i greci all’estero, per limitare i complessi, tendono ad elevarsi (battendo sulla consunta trimurti filosofia-repubblica-Atene prima del barbaro resto del mondo), così le loro istituzioni, non sapendo più dove sbattere la testa tra piazza in rivolta e Germania che con poca eleganza discetta di ‘fare i compiti’, invece che ammettere i passati strafalcioni (da mascherare per anni lo stato dei propri conti fino a rifiutare con sdegno, fino a pochi giorni orsono, l’ipotesi di ricevere aiuti dai vicini europei), passa ad uno sterile contrattacco sull’Italia e, per bocca del vice primo ministro, non si capacita di come mai questa non sia oggi al posto suo. La puerilità di simili argomenti, svolti però ai massimi livelli, rende poco utile approfondire l’analisi su un paese le cui modeste dimensioni (economiche, geografiche e geopolitiche) in ogni caso fanno sì che anche l’ipotesi peggiore non sia una colpo mortale per nessuno.

Passerò, quindi, alla Spagna. Già in tempi non sospetti avevo mostrato perplessità circa l’effettiva esistenza del ‘miracolo’ Iberico. Drogato di finanziamenti europei per due decadi e sommerso di facili investimenti stranieri per oltre un decennio, il cittadino medio spagnolo ha visto, dalla fine della dittatura (trent’anni orsono), più che raddoppiare il suo tenore di vita. Una sorta di piano Marshall degli anni ’90 dove, però, l’unico scopo di chi investiva era far quattrini. Lo sviluppo incontrollato – in un paese storicamente povero e senza una banca – ha provocato danni ben più gravi di qualche svista. Così, accanto ad alcune meraviglie architettoniche, sono spuntate città nel deserto – le più, disabitate o non finite -, autostrade dove pendenze da montagne russe generano d’estate code di tir in panne, costosissimi treni ad alta velocità con aria condizionata a singhiozzo, metrò senza bocchette per l’aria dove la gente collassa a go-go per la canicola.
La disoccupazione, scesa all’11% grazie all’overdose finanziaria, è riesplosa non appena i flussi monetari europei e quelli internazionali sono svaniti, tornando al 19%. Non solo. Gli spagnoli, come gli italiani, sono vecchi (e non fanno bambini). A differenza di questi ultimi, però, i primi non hanno mai avuto la possibilità di imparare a risparmiare. Ergo, arricchitisi all’americana, all’americana tornano poveri. Molto in fretta (e tra i debiti).

Portogallo e Irlanda (perché è chiaro, la ‘i’ di PIGS, nel contesto della crisi d’oggi, sta per Irlanda) sono fenomeni su cui, parafrasando le recenti parole della Banca Centrale Cinese, si può glissare.

Alla domanda su come sia possibile che quelle economie – che i soliti autolesionisti in salsa pomarola si erano affrettati a proclamare ‘modelli’ per il Belpaese – si siano ridotte in questo stato, la risposta è, forse, logica prima ancora che economica.
Imbottireste un bambino di vitamine perché cresca più in fretta?
L’interrogativo, in fondo, tanto banale non è, specie se traslato in campo economico ed in tempi in cui la speculazione finanziaria regna incontrastata – con buona pace degli occasionali anatemi di questo o quel capo di stato.
Ciò che è banale nello sviluppo umano, infatti, per lungo tempo (fino alla concezione – per tutt’altri motivi – dell’espressione ‘sviluppo sostenibile’) è stato considerato un’aberrazione a livello economico (‘sostenibile’ implica ‘controllato’, concetto imbevibile per il genio capitalista e globalizzato). Eppure, sembra che la ricetta sia sempre quella: perché una crescita sia armonica deve avvenire in modo graduale e coinvolgere tutti gli elementi di un organismo.

Tradotto in termini geo-economici, saltano subito all’occhio due falle che hanno caratterizzato la recente crescita dei PIGS.

La prima, è che investimenti di proporzioni immani – i mostruosi flussi monetari dell’economia globalizzata (e speculativa) – si sono concentrati in pochissimi punti: per la Grecia, Atene (e briciole per Salonicco); in Portogallo a Lisbona (con rimasugli a Porto); in Irlanda, tutto è iniziato e finito a Dublino. La Spagna, in virtù del suo diverso peso geografico, demografico e culturale (e quindi economico), è riuscita a spalmare il flusso di denaro in modo appena più organico – tuttavia limitato ai 3-4 centri urbani maggiori (e con gli strafalcioni ricordati).
Questo tipo di sviluppo – che vede gli investimenti concentrati soltanto nel centro urbano principale, tagliando fuori il resto del paese (che rimane culturalmente ed economicamente al palo) – è considerato ‘crescita da secondo mondo’.
I Paesi in questione, storiche Cenerentole d’Europa, nel momento in cui l’eterodirezione finanziaria si è data alle gambe si sono ritrovati d’amblé la zucca al posto della carrozza, registrando dissesti di bilancio che si è soliti associare alle economie sudamericane. Secondo mondo, appunto.

La seconda falla è che la crescita, così concentrata, è stata sostenuta in modo eccessivo da eccessivi investimenti esteri, attraverso marchingegni finanziari degni del miglior alchimista. Le economie dei PIGS erano dopate – a botte di steroidi. Paesi il cui reddito pro-capite era neanche due terzi di quello italiano si sono ritrovati in pochi anni a dichiarare – con malcelata soddisfazione – il ‘sorpasso’ sullo Stivale, ignari di aver raggiunto, però, il limite. Una situazione del genere non regge se non continuando con overdose dopanti – e comunque alla fine il gioco non vale la candela (vedi le conseguenze della crescita artificiale made in USA del secondo evo Bush).

La combinazione di questi due elementi è prodotta dall’inversione di un principio logico prima ancora che economico: invece che tramutare ricchezza reale in finanziaria, la ricchezza finanziaria – volatile e incerta per natura – ha fatto da sostituto (e non da sostegno) di quella reale. Il sintagma non regge, ché l’alchimia non è una scienza e due più due alla fine non fa cinque, alla faccia del principio della moltiplicazione monetaria.
In questo modo, la muscolatura orgogliosamente mostrata dai PIGS si è rivelata di botto per ciò che era, ovvero il frutto di una concimazione dopata, sospesa la quale i suini ritornano – in preda ai crampi – al loro peso naturale.

L’Italia, è evidente, poco ha a che spartire con questa ridda. Certo, l’idea che burocrazia farraginosa e sistema bancario primordiale, tenendo alla larga perfino la più bieca speculazione finanziaria e condannandoci al limbo della crescita zero virgola, siano stati una salvezza, è un po’ ringraziare di non essere trapassati mentre si è in coma.
Eppure, al di là dell’abisso economico e geopolitico che divide il Belpaese dai PIGS, a questo forse si deve buona parte della relativa stabilità che il sistema italiano è riuscito a mostrare nel periodo. Oltre che all’euro, si capisce. Senza di esso, la speculazione avrebbe preso di mira – di nuovo – la lira. A quel punto, chi oggi richiama – a vanvera – scenari argentini, sarebbe, probabilmente, già nel giusto.



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