Riso Amaro
Di Francesca Manta • 22 feb 2008 • Categoria:Società • Un commentoIn tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare - Henri Laborit
Mi è stato chiesto un articolo d’opinione per questa prima uscita de Il Tamarindo. Un’opinione, perché secondo qualcuno sarei brava a darne, il che, a ben indagare, potrebbe voler anche dire che di opinioni ne do fin troppe. E visto il trend di opinionisti e narcisisti e improbabili editorialisti degli ultimi tempi, un po’ ho paura a entrare nella categoria.. Corriamo il rischio
Tema a libera scelta. Qualcosa di attuale. La chiacchiera facile è la mia specialità, ma non la sintesi, quindi per evitare prolissità e conservare una reputazione almeno nel primo numero, scelgo di non scegliere niente in particolare, ma di conversare a ruota libera, mentre il vento fuori spazza gli alberi, qui, in una terra lontana.
Io non vivo più in Italia, ormai da molte lune. Tuttavia, per dirlo nella metafora botanica cara a questo pamphlet, le radici che mi legano a questa terra scura, arida e fiorita, intrisa di storia, sangue, parole, quelle radici mi costringono a guardare sempre verso sud e a rimanere attaccata a casa anche se lontana. È una sofferenza. Non per il dolore della radice che deve allungarsi per migliaia di chilometri sotto terra senza poter staccarsi. La giovinezza è bella anche per le giunture elastiche.
No, piuttosto, per quella fitta di rabbia, vergogna, incredulità che ti schiaffeggia ogni volta che la mente volge a sud (o a nord, est, ovest, a seconda della propria rosa dei venti) e si sentono notizie e si leggono giornali (giornali?) uguali da anni. A chi non è capitato di pensare, tornando a casa dopo lunghi periodi di assenza, guardando il TG, di essere partito solo il giorno prima? It is not just a little bit of history repeating. È un modo perverso e sinuoso che ha il presente di ripetersi, come se non esistesse un passato diverso né un futuro, un passo avanti. Un Paese che vive nel presente, ma un presente da ipnosi, uno specchio cristallizzato nell’immagine in moviola dell’inazione camuffata, truccata, violentata in azione. Così mi trovo a pensare all’Italia e per quanto sia chiara la percezione, così è sofferta la consapevolezza di questa lontananza e questa estraneità.
Ecco una piccola opinione: ho le radici secche. Cerco la pioggia altrove perché anche quella poca che cade laggiù riesce sempre ad essere prosciugata dalla fame vampiresca di vecchi alberi millenari senza più frutti, ma con radici tentacolari. Queste radici stanno stritolando il poco spazio vitale che nell’ordine delle cose era destinato ad alberi giovani, pieni di linfa quanto basta per spiccare il salto verso cieli più alti, e comprometteranno i boccioli ancora timidamente verdi, perché chissà come sarà il futuro dei loro anni. Ci si accusa molte volte di essere scappati, di averla data vinta a “quelli lì”. C’è una bella battuta nel film Mediterraneo, che forse spiega (o giustifica, o almeno comprende) la fuga di una generazione. Non rimanere per non diventare complici. Ma è meglio essere andati via o essere complici? Meglio cercare la felicità, il riconoscimento, una normalità altrove o rimanere e aspettare, e lottare contro questi mulini a vento? Non è facile andare via. Non lo è mai, nemmeno se si parte per un posto migliore. Ma non è facile restare, se la condizione per farlo è ingoiare riso amaro e sopravvivere vuol dire assomigliare a quegli alberi senza frutti.
La nostra Italia è un Paese che somiglia a un mosaico e la sua bellezza è nella diversità e sfumatura delle sue tante tessere. La mia parte di mosaico è quella che entra in punta di piedi nel Mediterraneo, il sud, caro, violentato, abusato sud pieno di sole. Inutile dire che di alberi giovani lì non se ne trovano quasi più. Nonostante secoli di civiltà, una terra generosa come poche, il mare e pure il petrolio! Non ci sono più opportunità, si dice. Non si crea lavoro. Non ci sono risorse. Dal modesto punto di vista di una sudista espatriata, mancheranno anche tutte queste cose ma l’offerta di parassiti e sanguisughe non tentenna mai, sempre abbondante e disponibile in tutte le stagioni. Un esercito di salassatori che prima prosciuga e poi si batte il petto. Un formicaio che non raccoglie provviste mai, perché pensa che l’inverno si possa sempre fare aspettare.
Quell’inverno è arrivato per molti di noi, chi dopo anni di studio, impegno, distinzione, alla fine si è visto recapitare un invito ad aspettare che l’occasione arrivi. E nel frattempo perché non lavori gratis per qualche mese? Perché non prendi un’altra dozzina di lauree e diplomini, così tempo che arrivi ai trenta qualche posto si libera. E perché non mi voti anche, prometto di investire su di te, te che sei giovane e sei il futuro del Paese.
Perché no.
Perché da qualche altra parte si può stare meglio, si può cercare di costruire un futuro che non arrivi solo al 27 ma magari all’anno prossimo, si può avere fiducia in un contratto, in una parola, in una normalità facile da costruire. Costruire con impegno, lavoro, sogno, ma che esiste e non si fa aspettare. Forse è proprio questo che molti di noi cercano, un posto nel mondo che sia come ci è piaciuto immaginarlo e non come troppe volte siamo costretti ad adattarlo. E non è una colpa partire, ma un coraggioso battito d’ali.
La consapevolezza che ogni migrazione torna da dove è partita è la forza che ancora ci rende capaci di sperare, costruire, mettere da parte progetti e sogni. Ed è la stessa che è dietro questo albero di tamarindo, che forse crescerà nutrito da molto rancore all’inizio, da una voglia avida di parlare, di denunciare, o semplicemente di ritrovarci tra di “noi”, vicini e lontani. Crescendo poi produrrà nuova linfa, fresca dei nostri anni e di un testardo idealismo, e salirà verso l’alto, con larghe fronde e una corteccia forte e sarà l’immagine un po’ di tutti noi, se riusciremo nel nostro piccolo a coltivare il nostro pezzo di terra, renderlo migliore per chi torna e per chi resta. E magari far tornare ottimista chi per rabbia è diventato pessimista incallito.
E quindi benvenuto Tamarindo, e benvenuto raggio di sole.
Francesca Manta La mobilità (instabilità?)e la testardaggine caratterizzano la vita di Francesca, che pur nella sua brevità, è stata intensamente piena di scoperte, viaggi, passioni, pensieri, amori. Mediterranea di orgogliose origini lucane, si è guadagnata la cittadinanza romana durante frenetici anni di studio della politica, intervallando alla città eterna il Nord Europa, l’America, i viaggi in Oriente. Quando ormai credevamo di conoscerla, ha sorpreso tutti mollando una vita da stagista non pagata in Italia per volare in Danimarca, ammaliata da qualche vichingo e da un master in economia dei paesi in via di sviluppo.. e quando ancora credevamo di averla localizzata nelle algide lande nordiche, ecco che la scopriamo girare per le strade di Nairobi in matatu, farneticando in swahili, occupandosi di microcredito e lavorando in cooperazione internazionale. Per certo sappiamo che non si fermerà lì e sono aperte scommesse sulla prossima destinazione. Nel frattempo, ci scrive di politica, affari internazionali, instiga polemiche e crede di poter cambiare il mondo almeno un pochino.
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