Immigrazione: alcune riflessioni
Di Erik Burckhardt • 2 feb 2009 • Categoria:Società • 2 CommentiLe crisi acute del cronico problema legato all’immigrazione si fanno sempre più frequenti, occorre dunque interrogarsi sul significato del fenomeno che tanto preoccupa gli italiani.
Il sogno è quello di un mondo cosmopolita talmente equilibrato quanto all’economia ed ai diritti sociali, da permettere ad ogni individuo di vivere dignitosamente nella e della propria terra.
Questa è tuttavia una riflessione indirizzata alle analisi ed alle proposte politiche, occorre dunque attenersi alle ingenti problematiche della nostra polis, della nostra società.
L’immigrazione è l’immediata conseguenza di un altro fenomeno: l’emigrazione. Entrare in un paese per stabilirvisi, significa abbandonarne un altro. Può apparire banale, ma in realtà questo particolare non è povero di significato. L’emigrazione-immigrazione esprime così una situazione dinamica, un movimento che rompe la staticità. Tale dinamicità sottende necessariamente un’energia, una causa.
Giungiamo così ad un elemento imprescindibile della nostra analisi. Un individuo per muoversi, per rompere l’inerzia, deve averne una ragione. Una causa che può concretizzarsi nelle più disparate forme e può risiedere tanto nella volontà di emigrare (volontà di fuggire dal paese di provenienza per noia, solitudine, disoccupazione, violenze, guerre, fame), tanto in quella di immigrare (essere attratti dal paese d’accoglimento per interessi culturali, affetti, opportunità di lavoro, sopravvivenza), tanto in entrambe le cose.
Tutto ciò appare scontato, ma va evidenziato poiché di frequente, politici e cittadini sembrano dimenticarlo quando riflettono e discutono sul nostro tema. I barconi pieni d’immigrati clandestini per noi indicano spesso solo il fenomeno ed il problema dell’immigrazione, e finiamo per dimenticare l’imprescindibile presupposto: quei clandestini hanno una provenienza, sono anche degli emigrati. E se dimentichiamo questo elemento complementare all’immigrazione, risulta assolutamente impossibile analizzare la problematica in ghisa completa, logica e lucida.
Per testare la veridicità del ragionamento prendiamo l’esempio di due tipi d’immigrati molto diversi: Bill, un milionario ingegnere americano immigrato a Roma perché affascinato dai capolavori dell’antichità, ed un disperato contadino somalo, Hamuda, immigrato a Milano per sopravvivere anche a costo di delinquere. Il milionario americano ha lasciato gli U.S.A. perché in pensione si annoiava di fronte al barbecue ed al televisore, il Somalo ha lasciato la sua terra a causa di pesanti soprusi subiti.
Ora, dal punto di vista dell’immigrazione, Hamuda non appare attraente; Bill, al contrario, non fa riscontrare alcun valido motivo per respingerlo. Se invece analizziamo il fenomeno emigrativo, Bill appare ragionevolmente meno giustificato a muoversi di quanto non lo sia Hamuda.
Tale ragionamento invita a distinguere l’immigrazione regolare da quella clandestina. Invita poi a considerare come la prima abbia incontestabilmente arricchito il nostro paese e come la seconda tenda invece ad impoverirlo, se non altro da un punto di vista prettamente economico. Va però sottolineato che il fenomeno dell’emigrazione può, allo stesso modo, risultare un enorme impoverimento per il paese: basta pensare alla fuga di capitali verso i paradisi fiscali, alla fuga di cervelli verso paesi dove la ricerca è socialmente ed economicamente considerata ed alla dislocazione delle imprese in terre che offrono braccia e sudore a prezzi più convenienti. Tutto ciò rappresenta un danno per il paese sicuramente più ingente di quello inflitto dalle migliaia d’individui che abbordano l’Italia nella speranza, spesso illusione, di un futuro migliore.
Tuttavia, il mio fine non è certo quello di attaccare le libertà, né quello di promuovere una vita esageratamente sedimentaria. Mi preme invece dimostrare come tutti gli spostamenti possano risultare legittimi ed al contempo illegittimi a seconda del punto da cui vengono messi a fuoco. E quale popolo più degli italiani, che in meno di un secolo si sono evoluti da popolo d’emigrazione a nazione d’immigrazione, dovrebbe assimilare e comprendere l’importanza di un’analisi globale del fenomeno?
Erik Burckhardt Erik Burckhardt, classe 1986, vive a Parigi dove segue un Master in “Filosofia del diritto e diritto politico” e si dedica ala stesura della tesi di Laurea franco-italiana in Diritto Comunitario e Internazionale. Di doppia nazionalità italo-svizzera - fusione di amabilità e rigore - ama sottrarsi al frastuono e ai ritmi frettolosi della vita parigina dedicandosi a lunghe passeggiate lungo la Senna, rimpiangendo di tanto in tanto il calore di un’Italia sempre presente nel cuore e nei pensieri. Ancora incerto sulla carriera professionale da intraprendere, sta lavorando a una crescita personale e culturale costante, reputata come base fondamentale su cui costruire il proprio futuro.
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Caro Erik, mi pare che tu metta a fuoco diversi problemi centrali della questione migratoria. Vanno senz’altro considerati i punti di vista di coloro che emigrano – e non solo delle persone che li “accolgono”, o che dovrebbero farlo. Tuttavia, credo sia importante aggiungere un elemento alla questione trattata – che personalmente ritengo imprescindibile, ovvero sia l’integrazione. Se gli immigrati non hanno come fine ultimo quello di integrarsi nella società che li “ospita”, la convivenza non potrà essere né facile, né pacifica – a prescindere dalla causa che li muove. Integrarsi può avere diversi significati, ma ritengo che il modello inglese offra un ottimo esempio d’integrazione, notevolmente migliore rispetto a quello francese – a mio sommesso avviso. Innanzitutto, in Gran Bretagna sono riconosciute le peculiarità etnico-culturali e vengono promosse l’autonomia ed il decentramento. In Francia regna ancora, nonostante tutto, l’universalismo: c’è l’assurda pretesa che gli immigrati di qualsiasi razza e cultura debbano necessariamente diventare francesi, dei veri e propri “enfants de la patrie” – e che dunque non possano continuare a mantenere viva la loro identità. Nel Regno Unito gli immigrati hanno la facoltà di rimanere ciò che erano nel loro paese di provenienza, a patto che rispettino le leggi e la sovranità di Sua Maestà. In Italia, invece, manca una politica seria, che miri all’integrazione. Non si capisce se si voglia “italianizzare” gli immigrati (spererei per loro di no) o se ci si aspetti da loro un mero rispetto delle regole, pur consentendo loro di mantenere quelli che sono gli usi, i costumi, le tradizioni e la religione del loro paese di origine. E’ un punto chiave quello dell’integrazione, poiché se manca, la società rischia di percepire l’immigrato come il “diverso”, lo “straniero”, l’elemento avulso – dal quale è meglio mantenere le distanze e non fidarsi. Se estremizzati, questi atteggiamenti conducono al razzismo ed alla xenofobia – che minano le basi della convivenza civile. Le prime vittime del razzismo e della paura del “diverso in quanto tale” sono proprio gli immigrati regolari ed onesti, di cui la nostra società ha un disperato bisogno, per ragioni di ordine economico e naturale: gli immigrati si adattano a fare i lavori più umili e sottopagati e – cosa ancor più importante – procreano, noi italiani tendiamo a fare sempre meno sia l’una che l’altra cosa. E’ superfluo ricordare che un paese che non fa figli e che ha un saldo naturale come il nostro non può che essere destinato al lento ed inesorabile declino, che nel lungo periodo può portare all’estinzione – a meno che non vi sia una solida e crescente presenza di immigrati, che nel frattempo diventano cittadini italiani e mettono al mondo bambini italiani. L’immigrazione è un fenomeno che si può e si deve controllare, anche in ragione delle reali possibilità che un paese ha di integrare e favorire l’occupazione dei migranti. Rimuovere le panchine dai parchi non è – a mio parere – la via più celere, né tanto meno la più saggia per favorire l’integrazione. E’ forse la via maestra per alimentare ciò di cui il nostro paese non ha affatto bisogno, ovvero sia l’intolleranza ed il pregiudizio: è riprovevole pensare che quattro rumeni abbiano stuprato una ragazza, dopo aver immobilizzato il suo fidanzato; ma è altrettanto folle ritenere che per questa ragione, tutti i rumeni siano sic et simpliciter dei pericolosi criminali – e nello specifico stupratori. E se posso concludere, trovo altrettanto intollerabile che quella stessa violenza sia stata subita – in altre circostanze – da una ragazza italiana, ad opera di un nostro connazionale. Per quanto mi riguarda, il passaporto dello stupratore non fa alcuna differenza.
Caro Roberto,
quando hai letto questo articolo, quello ad esso complementare (Immigrazione: alcune proposte) non era ancora stato pubblicato per ragioni tecnico-organizzative. Se avrai il tempo e la voglia di leggerlo ti renderai conto di come le tue parole abbiano provveduto a confermarne e svilupparne il contenuto. Nell’altro articolo mi sono infatti sforzato di sottolineare quanto sia necessario abbandonare le demagogie per promuovere l’integrazione. La tua comparazione dei due diversi modelli può suggerire una preferenza per l’uno o per l’altro, ma dimostra soprattutto come gli altri grandi paesi europei si siano quantomeno attivati. A differenza di un’Italia che ancora una volta si dimostra impreparata.
Grazie Roberto.
E.B.