Il momento di svolta è stato l’autunno del 2012. Nella primavera precedente si erano tenute le prime elezioni dalla modifica costituzionale imposta dal governo Berlusconi che aveva fatto dell’Italia una repubblica presidenziale fortemente federalista. Le elezioni le aveva naturalmente vinte lo stesso Berlusconi, ormai settantaseienne. Il candidato del partito democratico era arrivato soltanto terzo dietro a Di Pietro e questo aveva portato allo scioglimento del partito. Il misero 3% raccolto da Gianfranco Fini aveva dimostrato, casomai ce ne fosse stato bisogno, l’impraticabilità del suo progetto politico. L’Unione Europea sembrava rappresentare l’ultima speranza dell’Italia antiberlusconiana ma in quel fatale 9 ottobre 2012, in un discorso a reti unificate, il Presidente aveva annunciato l’intenzione di ritirare l’Italia dalle istituzioni comunitarie e tornare alla lira. Quello di Berlusconi era stato l’ennesimo colpo da maestro. La Commissione Europea stava diventando il centro di gravità di un’eterogenea coalizione di forze ostili al nuovo regime politico. Ne erano parte la Banca d’Italia, il gruppo editoriale L’espresso-Repubblica, molti intellettuali e professori universitari, alcuni grandi manager, settori della chiesa cattolica e importanti figure pubbliche come Romano Prodi, Mario Monti e Carlo Azeglio Ciampi. Quelli che Berlusconi era solito chiamare “i poteri forti”.
Fu Berlusconi stesso ad indire una consultazione popolare su questa decisione. La battaglia referendaria si annunciava difficile in partenza ma ciò che tolse ogni speranza di vittoria fu la spregiudicata decisione di Antonio Di Pietro di schierarsi a favore del SI sposando la propaganda populista e nazionalista di Berlusconi in difesa del popolo italiano e contro gli interessi dei banchieri e dei governi stranieri.
Il 23 novembre 2012, con il 65% di si, l’Italia usciva dall’Unione Europea.
Gli anni che seguirono furono fenomenali. La previsione di alcuni economisti secondo cui l’uscita dall’euro avrebbe segnato il collasso economico dell’Italia fu clamorosamente smentita. La svalutazione della lira rese i nostri prodotti competitivi sul mercato europeo e, libera dalle regole e dalle restrizioni di Bruxelles, l’Italia intraprese una politica economica e commerciale che garantì al paese anni di straordinaria crescita economica. L’artefice di questa politica, da molti definita degna di una banda di pirati piuttosto che di una grande nazione, fu Giulio Tremonti. Egli applicò, sia pure con sensibili modifiche, la ricetta cinese, un inedito mix di neoliberalismo sfrenato e rigido dirigismo statale.
Il settore creditizio tornò sotto lo stretto controllo del Ministero del Tesoro, che acquisì in tal modo anche ampie partecipazioni in gran parte dell’industria nazionale. Alitalia venne rifondata con capitale interamente pubblico, la Banca del Sud, gestita con logiche strettamente politiche, fornì i capitali necessari alla ripartenza del meridione d’Italia e la nuova IRI diventava ogni anno più potente.
Gran parte delle regolamentazioni che fino ad allora avevano frenato gli animal spirits del capitalismo italiano al fine di difendere l’ambiente, la sicurezza dei consumatori o il benessere dei lavoratori furono abolite. L’imposizione fiscale fu drasticamente ridotta grazie a forti tagli operati nei settori dell’istruzione e della sanità, dove sempre di più ci si affidava all’intervento dei privati. Queste politiche naturalmente favorirono l’arrivo di ingenti capitali stranieri dalla Russia, dalla Libia e da numerose società offshore. Il Pil cominciò a crescere con tassi decisamente superiori a quelli degli altri paesi europei, trainato soprattutto dalla crescita apparentemente inarrestabile delle regioni meridionali. L’improvviso ingresso nell’economia legale di capitali, risorse umane ed aziende fino allora relegate nel mercato nero dell’economia mafiosa sancì finalmente il decollo del nostro Meridione. Il boom edilizio in Sicilia e Calabria fu probabilmente superiore a quello degli anni del sessanta. Non più edilizia popolare ma enormi grattaceli di vetro e cemento, Palermo divenne nota come “La Shanghai del Mediterraneo”.
Nel frattempo l’Italia conduceva una politica estera spericolata, fantasiosa ma sicuramente efficace. Dopo l’uscita dall’Unione Europea il nostro paese si liberò anche degli imperativi morali che ingessavano da decenni la politica internazionale dell’occidente abbracciando una realpolitik di stampo russo o cinese. Ci liberammo delle pregiudiziali su democrazia o diritti umani che limitavano la libertà di manovra dei nostri concorrenti europei e portammo avanti una politica estera, commerciale e soprattutto energetica spregiudicata e a tratti corsara che ci permise di tornare ad essere uno dei grandi paesi rilevanti nello scacchiere internazionale. L’alleanza con la Russia di Putin fu naturalmente cruciale. Venimmo accusati di tutto, di essere centro di riciclaggio del denaro sporco delle mafie e del narcotraffico internazionale, di essere corresponsabili dei genocidi e delle violazioni di diritti umani che avvenivano in paesi nostri partner come il Sudan o la Libia, di venderci al miglior offerente cambiando continuamente bandiera… forse in molte di queste accuse vi era qualcosa di vero ma d’altronde Roma era tornata ad essere quella della Dolce Vita, meta di sceicchi mediorientali, miliardari latino americani, principesse armene e spie venute dal freddo, la Sicilia era finalmente tornata al centro del Mediterraneo, i capitali russi, arabi e cinesi finanziavano il boom economico… fatti tacere i pochi scrupoli morali che ancora ci rimanevano dovevamo ammettere che, per citare il vecchio Macmillan «we never had it so good».
Il popolo italiano era decisamente soddisfatto, l’Italia era finalmente tornata ad essere un paese rilevante, il Pil cresceva, la nazionale di calcio nel 2018 si era laureata campione del mondo per la quarta volta di fila… Soltanto una manciata di intellettuali rancorosi avevano lasciato il paese, si ritrovavano ogni primo giovedì del mese a casa di Umberto Eco su l’Ile de St. Louis a Parigi e stendevano, sempre più stancamente, appelli ora al popolo italiano, ora alla comunità internazionale. Le loro denuncie di regime suonavano sempre più inutili e ripetitive. Il paese teneva regolarmente libere elezioni, Piero Sansonetti, noto critico del Presidente, dirigeva il Telegiornale della prima rete, Di Pietro e Diliberto portavano avanti liberamente la loro opposizione, le libertà fondamentali erano garantite. Certo alcuni dicevano che l’opposizione dei Sansonetti e dei Di Pietro fosse in realtà funzionale al regime berlusconiano, si cibasse di esso e lo tenesse in vita ma non era certo colpa né di Berlusconi né di Di Pietro se la sinistra democratica italiana si era autodistrutta. L’opposizione ormai era più uno snobistico esercizio estetico e forse morale che un serio impegno politico. Ci si indignava per l’arroganza dei nuovi potenti: Stefano Ricucci, nuovo proprietario del Corriere della Sera e sua moglie Anna Falchi, ormai presenze fisse sul palco reale della Scala; Geronimo La Russa nuovo (per altro apprezzatissimo) sindaco di Milano; Bruno Vespa, direttore della Rai e padre padrone della cultura italiana; Michela Vittoria Brambilla, presidentessa del Senato della Repubblica e regina dei salotti romani, Flavio ed Elisabetta Briatore venerati dalle folle vacanziere non appena si degnavano di scendere dal loro yacht per mettere piede sulle spiaggie frequentate dai comuni mortali… non ci si capacitava insomma che quella fosse diventata classe dirigente del paese.
Eravamo però così sicuri che la vecchia classe dirigente fosse davvero migliore della cosiddetta “nuova razza padrona”? Citando Giolitti ci limitavamo a dire che quelli almeno sapevano stare a tavola…
Nel 2020 il Presidente Berlusconi morì serenamente nel suo letto. Alcuni sostengono che non stesse esattamente dormendo.
I funerali furono grandiosi. La prova generale era stata fatta pochi anni prima in occasione della morte di Umberto Bossi (cui venne poi intitolato il Bossi International Airport a Malpensa) e poi del ritorno in Italia della salma di Bettino Craxi, sepolto con tutti gli onori al Monumentale di Milano.
Questa volta però ad essere scomparso era il Padre della Patria, il De Gaulle italiano, l’Ataturk di Arcore, il miglior Presidente del Consiglio che l’Italia avesse avuto dalla sua nascita come stato unitario, il Cavalier Silvio Berlusconi. I grandiosi funerali di Stato si tennero tre volte, a Palermo, Roma e Milano. Il Mausoleo di Arcore dove fu seppellito venne dichiarato monumento nazionale così come Villa Certosa, ove fu allestito un museo sulla vita dello statista, di cui fu nominato direttore scientifico l’ex ministro Bondi e che contiene tra le altre cose il famoso lettone di Putin. Da allora torme di scolari in gita possono ammirare la celeberrima collezione di ibiscus e rari esemplari di cactus e soprattutto i magnifici spettacoli del vulcano artificiale.
A portare la bara al funerale furono gli amici di sempre: Marcello dell’Utri, Fedele Confalonieri, Flavio Briatore, Emilio Fede. Dietro la bara, novella Jaqueline Kennedy l’inconsolabile vedova: Mara Carfagna Berlusconi. Sposata pochi anni dopo il divorzio da Veronica, la Carfagna si era dimessa da Ministro degli Esteri per stare vicino al marito e dedicarsi ad attività di beneficenza. Se il discorso più commovente fu probabilmente quello di Giuliano Ferrara, gran parte dell’attenzione dei media fu attirata da quello del figlio Luigi che, per impostazione, toni e richiami ideali, sembrava più un discorso di auto-investitura politica che un’orazione funebre. La poesia A Silvio, composta per l’occasione da Bondi è poi diventata un classico della letteratura italiana. Al termine della settimana di lutto nazionale decisa dal governo ci fu, come richiesto dal defunto nelle sue volontà testamentarie, una lunghissima festa al Billionaire.
Nel 2018 Berlusconi, battendo alle elezioni Antonio Di Pietro, Niki Vendola e Fabrizio Corona, quest’ultimo a capo di un nuovo raggruppamento di destra, si era assicurato un nuovo mandato di sei anni. Alla sua morte si pose quindi il problema della successione che, a norma di Costituzione, era demandata al Gran Consiglio della Repubblica, organo di 25 membri alcuni di nomina presidenziale ed altri eletti in modo indiretto su base territoriale. Dopo due settimane di lotte intestine che lasciarono l’Italia con il fiato sospeso e fecero temere ad alcuni che la Nuova Repubblica non sarebbe sopravvissuta al suo fondatore, venne finalmente trovato un compromesso. Nei quattro anni restanti si sarebbero alternati al potere Giulio Tremonti e l’Avvocato Ghedini cosicché, nel frattempo, si sarebbe potuta preparare la candidatura di Luigi Berlusconi alle elezioni del 2024. Il piano funzionò, sia pure con quale piccola modifica. Tremonti venne infatti liquidato prima del tempo e l’avvocato Ghedini gli successe già a partire dall’aprile ‘22. Le vere dinamiche di questa congiura di palazzo non sono ancora state del tutto chiarite anche se pare che un ruolo importante nella vicenda sia stato giocato dai servizi segreti russi e dal gruppo Fiat, ormai presieduto da Flavio Briatore. Nel dicembre 2024 comunque si tennero regolari elezioni e Luigi Berlusconi venne eletto alla Presidenza della Repubblica sconfiggendo al secondo turno proprio Giulio Tremonti. Poche settimane dopo, con il consueto discorso di Capodanno a reti unificate, il nuovo Capo dello Stato augurava alla nazione un sereno 2025.