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Dal teatro di massa al teatro “borghese”

21 dicembre 2008
Pubblicato in Opinioni
di Riccardo De Santis

I duemila e cinquecento anni che separano il teatro greco da quello moderno possono essere una sufficiente spiegazione per riuscire a comprendere l’abisso concettuale tra questi due mondi: infatti, se dovessimo metterci a fare dei paragoni, è più plausibile raffrontare “l’andare a teatro nell’antica Grecia” con “l’andare a messa” oggi.
Il teatro è in primo luogo un fatto religioso e, non a caso, le principali performance avvenivano durante le Grandi Dionisie e le Lenee, feste in onore di Dioniso.
Dioniso è a tutti gli effetti il dio del teatro e uno dei suoi simboli è proprio la maschera che permette dei cambi d’identità che nel mondo greco erano visti come catartici e liberatori dalle pressioni del quotidiano.

Religione e psicologia sono due aspetti essenziali per comprendere il teatro greco: ma bisogna ancora insistere sul carattere sacro questi spettacoli. In primo luogo durante i giorni delle Grandi Dionisie e delle Lenee era come se il tempo si sospendesse e non esistesse più. Nessuno in quei giorni avrebbe lavorato. L’intera comunità cittadina si riversava nel teatro e ci stava dal mattino fino la sera: si portava dietro da mangiare o un cuscino e la giornata trascorreva sugli spalti. In sintesi potremmo definire tutto ciò un rito di massa a un punto tale che lo stato per tutto il quinto secolo finanziava i cittadini meno abbienti affinché riuscissero a parteciparvi.

Nel teatro moderno nulla di tutto ciò. In primo luogo è un fenomeno elitario: ci vanno poche persone che studiano o hanno studiato, di solito benestanti, allo scopo di vedere qualcosa che emotivamente (unico aspetto comune al teatro greco) o culturalmente le possa stimolare.
Oggi, purtroppo, il teatro è un fatto quasi di nicchia: paragonare la capienza di San Siro con la grandezza dei nostri teatri ci può dare un’idea di quanto stia dicendo.
Di religioso, infine, c’è ben poco.

Questa netta differenza tra due mondi così lontani può essere una delle cause dello scarso successo che hanno i drammi antichi messi in scena oggi: salvo qualche eccezione, spesso ci lasciano l’amaro in bocca. Lo vedo quando porto i miei studenti a teatro a vedere qualche tragedia o commedia antica: partono, per così dire, “lanciatissimi”, ma poi restano spesso delusi. Alle volte è imputabile l’abilità del regista, ma non sempre: sono due mondi veramente lontani e per cercare di arrivare a un compromesso veramente soddisfacente ci vuole una capacità registica notevole.

Proprio a causa della religiosità di cui si è detto sopra, il teatro greco è un teatro statico e dove in scena non succede assolutamente niente: lo sventramento (sparagmòs) di Penteo nelle Baccanti, Clitemnestra  che uccide suo marito nell’Agamennone, Giocasta e Deianira che si uccidono rispettivamente nelle Edipo re e nelle Trachinie e via dicendo  sono tutte azione che non avvengono in scena, ma che gli attori si limitano a raccontare (rhesis). Questo succedeva sia per la convenzionalità alla quale era legato un teatro “senza effetti speciali” sia perché il teatro è un luogo sacro dove non può essere messo in scena il sangue che nella visione greca è un elemento contaminante.

Domanda spontanea: e che succede allora a teatro? Semplice: a teatro si parla, si ragiona e si riflette. Il teatro greco non mette in scena un mito, ma solo una parte di esso. La storia che esso narra è già nota a tutti gli spettatori: essi non sono lì per vedere che cosa succede, ma come succede. E proprio questo il vero concetto di tragico: vedere qualcosa che si sa già come andrà a finire e a noi non resta che sperare che questo non succeda o limitarci a vedere come questa volta il drammaturgo interpreterà il mito.
Il tragico non è un finale con morti e disperazione, ma essere spettatori impotenti di una storia drammatica che già si conosce.

A noi può sembrare noioso, quasi inutile, ma nella mentalità greca ciò era di una drammaticità sconvolgente: pare che nel momento in cui si viene a scoprire dell’uccisione della madre da parte di Oreste nelle Coefore accadde che circa dieci donne abortirono spontaneamente o durante la rappresentazione della Presa di Mileto di Frinico gli spettatori, così coinvolti emotivamente, scapparono dal teatro in preda al panico. Forse sono solo aneddoti, ma qualcosa di vero c’è: i Greci vivevano il teatro come un momento assolutamente reale e in cui erano completamente immersi psicologicamente (ancora una volta, il paragone con lo stadio può esserci utile). E questo avveniva, paradossalmente, con strumenti rudimentali e convenzionali, ma soprattutto grazie alla parola (il logos) e al suo spettacolare potere che riusciva a tenere in pugno migliaia di persone per intere giornate.

Il teatro greco è, dunque, una fucina d’idee, di concetti e ragionamenti: su ogni dramma si potrebbe stare a discutere notti intere. Perché gli dei si abbattono su Edipo? Che ha fatto di male Eracle per impazzire e uccidere la moglie e i figli? Che cosa spinge Antigone a volere seppellire suo fratello? Lo fa per convenzione o per amore? Moltissimi di questi dubbi, domande e stimoli si nascondono tra i versi di una tragedia.

Com’è stato notato più volte, l’esperienza del teatro greco è stata unica e irripetibile proprio a causa del contesto politico in cui era sorto. Con il crollo di Atene non ci stupisce vedere anche la morte di quel teatro. Le opere della commedia mezzo e della commedia nuova nel quarto secolo a.C. iniziano a rendere il teatro più “borghese”, più elitario: inizia a diventare un’esperienza per pochi. E’ nel quarto secolo che nasce il teatro come lo intendiamo noi.

Un mondo romano troppo legato alla tradizione circense, sacre rappresentazioni nel Medioevo e il teatro di corte nelle epoche successive renderanno sempre più esigua la partecipazione a questo genere di spettacoli. E oggi, come è già stato detto tra gli articoli del Tamarindo, il cinema fa una concorrenza spietata nei confronti del teatro.
Ma continuo a credere nel suo potere catartico sia per chi recita sia per chi assiste e nella sua unica vera forza che gli ha permesso di sopravvivere per più duemila e cinquecento anni: l’unicità dell’atto teatrale, che come un atto d’amore, rimarrà irripetibile per sempre.



2 Responses to “Dal teatro di massa al teatro “borghese””

  1. Giacomo Marconi scrive:

    Caro Riccardo,
    complimenti! Dopo ogni periodo mi veniva spontaneo fermarmi per risponderti. Condivido in pieno ciò che hai scritto, in particolare l’ultima frase. Uno spettacolo teatrale non sarà mai uguale ad un altro, non solo per le differenti scelte del regista, ma, anche se queste fossero le medesime (come ovviamente accade nelle repliche), perché ogni volta gli attori regalano al pubblico qualcosa di diverso, che spesso viene dalla loro stessa vita, dalle loro esperienze più recenti, dallo stato d’animo del momento (almeno in questo il cinema non potrà mai sostituire il teatro). La contaminazione che avviene tra l’attore ed il personaggio che interpreta, durante lo spettacolo, diventa assoluta, il pubblico la vive davanti ai suoi occhi, chi la prova ne è quasi spaventato. Evidentemente l’attore va a pescare dentro di sé il personaggio e, stordito, conosce alcuni suoi lati che, a seconda della parte assegnatagli, forse avrebbe preferito non conoscere mai: scopre di essere pazzo (anche se forse gli altri non se ne sono ancora accorti), di essere un incompreso ed emarginato (o almeno di esserlo stato), di poter essere oggetto di torture, di poter essere un carnefice, un assassino, un ladro, un carcerato, un senza tetto… Ogni ruolo lo arricchisce, gli fa conoscere realtà che prima non aveva presenti ed una parte di sé che ignorava; il palco gli permette di trasmettere la sua scoperta agli altri, mostrarla loro. Che coraggio e che regalo meraviglioso che fa l’attore al suo pubblico! Ecco una possibile traccia per un futuro articolo: il rapporto tra l’attore ed il suo personaggio.

  2. Riccardo De Santis scrive:

    Caro Giacomo,
    sono molto contento che ti sia piaciuto l’articolo. Ho cercato di condensare tante idee che mi passavano per la testa e infine ho cercato di mettere in chiaro l’arma che ha in più il teatro rispetto al cinema, dando così una risposta alla domanda se ha ancora senso il teatro in un mondo molto orientato verso il cinema. Hai spiegato benissimo tu l’idea di unicità di spettacolo. Essa dipende dal regista, ma soprattutto dall’attore. E l’attore in quanto uomo è unico. Unico rispetto agli altri. Unico in quel determinato momento della sua vita e della sua crescita personale. Assolutamente d’accordo :il rapporto tra attore e personaggio è un tema da svolgere. Pirandello ci potrebbe aiutare…

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