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Sulla tragicità di Edipo non cala mai il sipario

19 marzo 2009
Pubblicato in Opinioni
di Anita Galvano

foto-pezzoIl mio primo ricordo legato al teatro risale a circa vent’anni fa e, scritto così nero su bianco, è un brivido lungo la schiena. Ricordo una bambina di sette anni che sale su un pullman con la mamma e una miriade di liceali scalmanati. Direzione Siracusa, Teatro Greco. Non certo Gardaland, ma ero felice lo stesso, ho sempre amato le novità, e anche i viaggi in pullman, le soste in autogrill e guardare la strada fuori dal finestrino con le cuffie del walkman nelle orecchie. Parto da casa e non so cosa aspettarmi, ma basta arrivare al Teatro per capire che io, quell’esperienza, non la dimenticherò.
Tantissime persone sugli spalti, alti, immensi, gremiti di gente in attesa, chi ha portato un cuscino, chi l’acqua, chi qualcosa da mangiare. Io non ho un cuscino, sono una bambina e non ce n’è bisogno. Inizio immediatamente a respirare quel brivido sottile che provoca l’attesa, e ancora non so che lo amerò per tutta la vita, non so spiegarmi cosa stiamo aspettando, non so perché lo spettacolo non inizi ma, tutto sommato, va bene così, si sta bene. Mi guardo intorno e, di fronte a me, solo una testa altissima, credo sia di pietra, ha una benda intorno ad un occhio e mi sembra che, in quel preciso momento, niente sia più appropriato di una testa bendata che osserva il pubblico. Scende la sera, tramonta il sole, e ha inizio lo spettacolo. Entra in scena un uomo, una tunica rossa, i capelli bianchi, la cadenza lenta e un po’ monotona. È Glauco Mauri, chi è lo scoprirò con gli anni, in quel momento è soltanto un uomo canuto che dice parole che non comprendo del tutto ma che mi inchiodano al mio posto e mi costringono al silenzio per tutto la messinscena. Lo spettacolo è “Edipo Re” ed è, agli occhi di una bambina di sette anni, la storia del dolore di un uomo.

Oggi, vent’anni dopo, credo ancora che quella di Edipo sia la storia, tragica, di un uomo roso dal dolore, dal senso di colpa e dalla sofferenza. E credo che la vera essenza di questa tragedia stia nel fatto che l’uomo, Edipo in questo caso ma un qualunque altro uomo come lui, accetti il destino senza ribellarsi. Edipo si acceca, per non vedere più, per punirsi, e il vero avvertimento della tragedia sta proprio qui, in questo gesto. L’uomo davanti alla tragicità del proprio destino non si ribella, non prende posizione, si limita ad accettarlo. E decide di accecarsi per non dover più osservare l’orrore del mondo in cui vive. Negli anni ’60, periodo emblematico e di profondi cambiamenti, Pasolini ha ripreso, riletto e riscritto la tragedia di Edipo rendendola una metafora del vivere contemporaneo. L’Edipo di Pasolini è uomo profondamente solo, abbattuto dagli eventi, sconfitto dalla Storia, che si lascia andare illudendosi che, così, smetterà di soffrire. Oggi come allora la gente si acceca per non vedere, il mondo è un non-luogo dominato dall’immagine, dall’apparire, dalla necessità di esserci, è un mondo fatto di immagini a cui non apparteniamo sul serio, se non da spettatori. E c’è chi, approfittando di un momento buio, cerca di convincerci del fatto che, in Italia specialmente, la gente è cambiata, il pubblico è diverso, vuole staccare il cervello e bisogna dare alla gente ciò che vuole: l’effimero. Fortunatamente quell’uomo che vent’anni mi ha insegnato ad amare il Teatro, Glauco Mauri, e come lui tanti altri,  crede ancora, pirandellianamente,  che “il palcoscenico è quel luogo dove si gioca a fare sul serio” e non bisogna arrendersi alla volgarità dilagante, chiudere gli occhi e abbandonarsi al destino ma usare l’arma del teatro per combattere una guerra antica e sempre attuale. Mettere in scena, oggi, una tragedia greca è, soprattutto, una scelta civile.



One Response to “Sulla tragicità di Edipo non cala mai il sipario”

  1. [...] premessa: prima di leggere quest’articolo è probabilmente utile aver già visto l’articolo Sulla tragicità di Edipo nella sezione teatro del [...]

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