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Oreste, Edipo e Julianne Moore

19 luglio 2008
Pubblicato in Opinioni
di Giovanni Biglino

Lo sfondo di un mondo dorato, una bicicletta abbandonata nell’atrio di una villa a Majorca, una sigaretta e una chitarra sulla spiaggia di Cadaqués. Come scrisse in The merry month of May nel 1971 l’amico di famiglia James Jones (lo stesso James Jones autore di Da qui all’eternità e La sottile linea rossa): “Erano la perfetta famiglia americana felice: quella di cui uno sente parlare e della quale spesso vede le fotografie sul New Yorker e nelle riviste commerciali, ma che così raramente si incontra dal vivo. Certamente nulla indicava che nelle loro vite ci potessero essere profonde oscure tensioni che loro potessero mascherare”. Eppure.

Col suo secondo lungometraggio, il regista americano Tom Kalin riporta in scena, con linguaggio preciso e con fotografia accattivante, la sanguinosa e perversa storia della famiglia Baekeland. Una storia che nasce nelle alte sfere della grande aristocrazia americana e che si sfalda anno dopo anno, in un gioco incontrollato e incontrollabile di rancori, dolore, ambizioni, vizio. Come un meccanismo impazzito. E più che a James Jones rimanda a Eschilo e Sofocle.
La ricchezza dei Baekaland fu accumulata da Leo Hendrik (1863-1944), figlio di un analfabeta e di una donna di servizio, inventore della plastica comunemente chiamata – dal suo nome – Bakelite, che sta alla base dell’industria delle plastiche sintetiche. Nota anche come il materiale dai mille usi, dal telefono ai bottoni, dalla radio alla bigiotteria (Coco Chanel la introdusse negli anni Trenta), fu la Bakelite ad aprire le porte della “hall of fame” del business americano a Leo Baekaland che, come ricordato da Fortune (4 aprile 1983), poté così sedere accanto a John Pierpont Morgan, John David Rockfeller, Cornelius Vanderbilt, Pierre Samuel Du Pont, Andrew Carnegie e gli altri magnati d’America.
Brooks Baekaland, nipote di Leo, viveva quindi in una New York agiata e indolente negli anni Cinquanta-Sessanta, con un occhio rivolto alle buone maniere della vecchia Europa e l’altro a terre lontane da esplorare nei suoi viaggi. Nel caleidoscopio delle apparenze brillava sua moglie Barbara, di estrazione più umile, affascinante e svelta ad imparare, indipendente, ambiziosa. Ad interpretarla troviamo una splendida Julianne Moore, che sfoggia una fredda maschera da navigata signora di mondo e improvvisi sbalzi d’umore. E se al nome Barbara Baekaland Andy Warhol sospirava “Oh yeah, I remember her”, Jasper Johns commentava semplicemente “She was beautiful”. Il mondo soave delle conoscenze nel circuito dell’arte, un po’ bohème ma non troppo. Una pittura incerta. Un continuo vernissage.

E poi l’erede designato, il figlio unico, Antony, per tutti Tony. “Io ero il piccolo Tony. Ero il vapore che si crea quando il caldo e il freddo si incontrano”. E si innescano dinamiche mortali (letteralmente) che coinvolgono padre, madre e figlio – erranti fra Parigi e Majorca, Ansedonia e Cadaqués e Londra. Tony, cresciuto tra la tensione di essere all’altezza del padre fascinoso, le attenzioni pressanti della madre e le sue proprie inclinazioni, è il prodotto del suo nome: modi naturalmente eleganti e un garbuglio di sentimenti. Confusione resa perfettamente nel film dal volto interessante di Eddie Redmayne.

Il meccanismo scricchiola, dolorosamente, s’inceppa. Brooks abbandona la famiglia con la fidanzata di Tony, ventenne alle prese con la propria bisessualità. Barbara trova conforto nell’amico omosessuale Sam (Sam Green nella realtà fu direttore dell’Istituto d’arte contemporanea di Philadelphia) che, contraccambiato, guarda Tony. Se non fosse una storia vera, potrebbe essere un semplice eccesso di cattivo gusto. Barbara più tardi a Parigi tentò anche il suicidio: ancora impressione di teatralità. Poco dopo è a cena col figlio che cita confusa: “To say that someone is tired of Paris is in fact to say that someone is tired of life”, forse pensando a Hemingway (“If you are lucky enough to have lived in Paris as a young man, then wherever you go for the rest of your life it stays with you, for Paris is a moveable feast”).
Ma poi l’incesto, che aleggiava, si compie. Tony impazzisce. E in un pomeriggio qualunque, nel cupo appartamento londinese di Cadogan square, il figlio accoltella la madre durante una futile discussione. Era il 17 novembre 1972. Là dove il film si chiude, cominciò il calvario di Tony Baekaland prima in prigione poi in istituti di recupero, fino al suicidio che pose fine ad una tragedia moderna.

Il regista Tom Kalin, supervisionato dalla potente produttrice Christine Vachon, si basa fedelmente sui fatti, facendo riferimento soprattutto al libro (Savage grace, anch’esso), una sorta di cronaca curata da Natalie Robins e Steven Aronson. L’eccesso forse è colonna portante del suo film: l’eccessiva trasgressione, l’eccessiva ricchezza, i grandi nomi, i gesti plateali. La bellezza: dei luoghi, delle case, delle persone, dei momenti, dei gesti eleganti. Ma è troppo facile e scontato leggere la morale: i soldi non fanno la felicità.
La letteratura greca, l’Edipo Re di Sofocle. Freud denomina il complesso prendendo il nome della tragedia: “Due sono i fattori responsabili di tale complessità: il carattere triangolare della situazione edipica e la bisessualità costituzionale dell’individuo”.

L’Orestea di Eschilo, le Coefore. Nella tragedia Oreste, figlio di Agamennone e fratello di Elettra e Ifigenia, uccide prima Egisto, amante della madre, e poi la stessa madre Clitennestra. Il matricidio conduce Oreste sulla strada della follia e del rimorso e nelle Eumenidi viene perseguitato dalle Erinni, le temibili Furie, come raffigurato nel dipinto I rimorsi di Oreste, opera di William Adolphe Bouguereau (1862). Ma in chiave moderna Giorgio de Chirico ridipinge il mito, in opere quali Edipo e la Sfinge (1968) e – di nuovo – Il rimorso di Oreste (1969). Nella follia della geometria e della pittura metafisica, l’uomo fronteggia uno spettro, una sagoma frastagliata. È forse più su questo piano che si può leggere la pazzia di Tony Baekeland, che il 21 dicembre 1974 scrisse alla giornalista Rosemary Rodd Baldwin: “I was eating a tomato at teatime a few weeks ago and I suddenly realized that she is not dead at all, just very, very misterious”. Sono le parole che aprono il film.
Brooks Baekeland commentò in seguito in merito alla vicenda di sua moglie e di suo figlio: “Coloro che hanno visto la Nemesi nelle loro storie hanno avuto ragione”.

La tragedia moderna e antica, la saga dei Baekeland e degli Atridi. In fondo, nella fedeltà della narrazione che provoca nello spettatore una sensazione scomoda di voyeurismo e a tratti repulsione per le perversioni che prendono forma, Savage grace narra l’apice della tragedia, della bellezza distrutta, della follia, di un Tony Baekeland moderno Oreste e moderno Edipo. In questa tragedia si confondono i ruoli. La protagonista è Barbara, in quanto motore delle azioni, e l’antagonista è Tony, in quanto assassino della protagonista? Oppure Tony è il protagonista, dal momento che nel corso del film talvolta la sua voce fuori campo legge frammenti di lettere, dunque una sorta di narratore, e Barbara è antagonista in quanto fonte dei suoi problemi e infine della sua follia? Sono entrambi protagonisti di una tetra storia di ossessione e perdizione

Il film di Kalin colpisce per la fotografia, curata da Juan Miguel Azpiroz, e in particolare è il “capitolo spagnolo” a prestarsi ad un indugiare sulla bellezza dei luoghi e delle persone, risultando quasi un film nel film, un capitolo così ben strutturato e complesso che, qualora venisse sfilato dal contesto del romanzo, costituirebbe un interessantissimo racconto breve, particolarmente intrigante forse perché, pur intuendo la tragedia finale, si tratta del momento in cui il meccanismo è fuori controllo. Nel sole e nei colori le relazioni si aggrovigliano e il risultato è letale.
Inoltre il film si regge essenzialmente sulle interpretazioni di Stephen Dillane (Brooks Baekeland), Julianne Moore e Eddie Redmayne. Julianne Moore è rabbiosa e affascinante, sfiorisce ma intriga, ora distaccata ora morbosamente provocante, moglie succube del marito ma al contempo vendicativa e forte, madre ossessionata e infine vittima della propria ossessione (o come disse la principessa Elizabeth di Yugoslavia: “concepì il suo assassino”). Rispetto ad alcune sue interpretazioni precedenti (pensiamo a The hours, ma non solo) in cui Julianne Moore lascia intuire il disagio interiore del personaggio e rende benissimo la maschera e il contegno, la sua Barbara Baekeland perde il controllo, urla, piange – forse una donna che ha voluto giocare troppo, illusa e delusa dal bel mondo: “This society is sick!”. Quanto a Eddie Redmayne, classe 1982, etoniano attore quasi per caso dopo una laurea in Storia dell’arte a Cambridge, è forse lui la vera sorpresa del film. Dopo ruoli minori in The other Boleyn girl, The good sheperd e Elisabeth: the golden age, nasconde il suo accento britannico per calarsi nei panni di Tony Baekeland, un personaggio drammatico del quale rende l’incertezza. Tony è perso, soffocato, ma anche, a tratti, brillante.
In sintesi, si tratta di quella che John Fowles definì: “A fascinating contemporary morality tale from vivid real life”.



One Response to “Oreste, Edipo e Julianne Moore”

  1. misha scrive:

    Giovanni, perbacco!

    Che articolo, che eleganza, che virtù!

    é stato un piacere leggerti, grazie!