“Parigi è morta, non c’è niente da fare”
Di Miša Capnist • 2 set 2008 • Categoria:Società • Un commentoEsuberante inizio di discussione, che più che rompere il ghiaccio erige muri di cemento, in cui mi sono trovato coinvolto ieri sera, sul tetto dei grandi magazzini Printemps, diretti concorrenti de les galeries Lafayette, in cui, estivamente seduti ai tavolini - Sacré Coeur all’orizzonte mancino, Notre Dame de Paris e guglie gotiche a perdita d’occhio sulla destra – sorseggiavamo champagne. Raccapricciante presa di posizione tipica degli autoctoni, questa frase riunisce in sé tutti i misteri della storia, e la storia delle pigre menti che concepiscono e mettono in parola questo pensiero.
Presa di posizione che capisco e condivido, quando si parla della propria città non in senso fisico del termine, ma nella più ampia e complessa accezione di propria città in quanto creata da sé. Creati da sé o dai genitori sono l’entourage, create da sé sono le scelte di vita che si conduce, creato da sé il piacere o la noia di doversi spostare dal proprio quartiere a quello dell’amico, della scuola, o del lavoro.
Con un “Parigi è morta perché sei pigro”, liquido l’avventore incuriosito dal mio accento, dai cui virtuosismi intellettuali non posso che definirmi infastidito.
Parigi non può essere morta perché la festa nazionale della presa della Bastiglia dura due giorni, perché tutte le caserme dei pompieri, la vigilia, aprono le loro porte ai cittadini, proponendo balli e aperitivi fino a notte inoltrata. Parigi non può essere morta perché il giorno dopo i fuochi celebrativi di quest’infausta rivoluzione, sono sontuosi visti dall’esplanade della tour Eiffel che, per tradizione, sono presi d’assalto fin dalle prime molle ore del pomeriggio.
Parigi non può essere morta perché gli argini dei canali si trasformano in terrasses dei café, in luoghi da pic-nic, in campi da bocce, in mercatini serali, e le loro acque così calme sono terreno di sfida in canoa.
Parigi non è morta perché nelle sue fontane ci si bagna, durante queste giornate afose di fine luglio.
Parigi non è morta perché negli ultimi piani dei palazzi, seduti ad un tavolino o su un tetto di lamiera, ci si prende l’aperitivo godendosi i non ultimi raggi di questo altissimo sole che lusinga fino alle dieci.
Parigi non è morta perché agli angoli delle strade spuntano gli scarti dei traslochi e chi - fra studenti squattrinati e squattrinati - deve arredarsi casa, lo può fare con delizia e creatività.
Anche se comprensibilmente una calda giornata parigina può portare a momenti di flânerie che è uno stato meno elegantemente - non per sensualità - tradotto dall’italiano cazzeggio, la città si offre, impudica nella sua avidità di piaceri: al parc de la Villette il comune propone cinema all’aperto gratis, e le rive della Senna ospitano livellate spiagge di sabbia finissima con docce, piscine sulle zattere in mezzo al fiume, anche là mercatini a non finire.
Considerando i concerti che ogni dipartimento comunale (e a Parigi ce ne sono 20) offre a rotazione fino a fine estate ai cittadini, tutti i bar e i ristoranti che comunque restano aperti, i musei, le istallazioni all’aperto nei giardini delle tuileries, l’immenso e fiabesco parco des buttes Chaumont con le sue cascate artificiali su rocce altrettanto artificiali e la sua allure da panorama secentesco, i giardini di Versailles con gli spettacoli delle Grandes eaux musicales (che consiste nell’azionare tutte le fontane del giardino, i cui zampilli seguono le note delle opere di Lully, restando illuminate da fasci di fuoco, e profumando l’aria di essenze pregiate), considerando, dicevo, queste ricchezze, la stimolazione della sfera sensoriale nella sua totalità, possiamo credere di stare assistendo al funerale di Parigi o al nostro?
Le nostre città natali non ci sembrano loro stesse migliori ogni volta che ci rientriamo? Non sono queste le città in cui abbiamo mosso i primi passi sociali, in cui abbiamo vissuto le nostre prime esperienze estetiche? Ci dicevamo che erano morte; eppure, ecco che quando rientriamo ci accorgiamo di tutta una serie di personaggi nuovi, ma che nuovi non possono essere, poiché ci sono coetanei, che fanno parte di tutta una serie di altri mondi con i quali non eravamo mai entrati in contatto fino al giorno del nostro rientro. Solo quando ce ne andiamo ci accorgiamo che delle vite parallele scorrevano nelle nostre strade, e noi non le avevamo viste mai, perché le abitudini ci facevano fare il contrario, perché il senso dell’avventura non era ancora il nostro forte, perché non ci veniva neanche in mente la possibilità dell’esistenza di Altro.
Non è forse vero che, prendendo un aperitivo con gli “amici di sempre”, ogni tanto ne arriva uno con una new entry dall’aspetto interessante, e noi pensiamo “lui sì, vedi che ganzo, lui si butta sull’estero”, e poi scopriamo che abita nella nostra stessa città-mummia da sempre, e che il suo percorso è stato da sempre differente dal nostro, e che conosce luoghi mai immaginati proprio dietro l’angolo, e che partecipa ad iniziative entusiasmanti e impensate ospiti della nostra provincia (spesso, per l’onor del vero, non troppo ben illuminate dalle nostre giunte comunali così estranee al marketing, come dice M.I. Corradi nel suo articolo)?.
E quel bar, in cui per anni i nostri genitori ci hanno proibito di metter piede e noi, ligi e noiosi abbiamo seguito gli ordini, è proprio una figata.
Ecco quindi, tornando al progetto primordiale che animava questo spazio che il Tamarindo ha concepito con lusinga rivolgendosi a me, il primo consiglio che oso darvi, nel suggerirvi un’estate magnifica e piena di nuovi incontri: non ci si lamenta.
Anche se devo ammettere che in francese suona tanto meno fastidioso.
Miša Capnist Rarissimo esemplare di mésaillance fra Paris Hilton e Buddha, fra la monaca di Monza e Bonifacio VIII, fra Nilla Pizzi e Rodolfo Valentino, ancora confondendo Joan Crawford e Dio, questo militante quasi ventenne del Tamarindo, spinto dalla peculiare leggiadra schizofrenia e dal suo florido intelletto, vive a Parigi dal 2005, dopo essere stato imprenditore, dopo essere passato dalle pubbliche relazioni di L’Oréal, bazzicato pizzerie italiane in qualità di valet de salle (cameriere), approda in ottobre in accademia teatrale, insegna le buone maniere e crea gioielli post-atomici piegando ferro e sbriciolando specchi al suono del sordiano “Lavoratori…PRRRRRR!”. Profondamente diviso fra l’ideale di una vita volgarmente appariscente e un sereno eremitismo, il Capnist studia l’umane genti con attenzione meticolosa, alla ricerca dell’art de vivre. Evidente la spiritosa mancanza d’altruismo. Lavora in questo momento all’embrione di una nuova lotta sociale, che chiama temporaneamente “la rivolta delle corone”, vera e legittima rivoluzione democratica svolta alla destituzione del popolo in favore dell’antica aristocrazia (facciamo un po’ per uno – si giustifica). Di formazione accademica, legato ad un passato immerso nelle comodità, questo periodo parigino lo ha confinato in un mondo di bohème da cui trova difficile staccarsi. Il suo studio “in un quartiere popolare situato in piena Parigi” – dice lui – “mi aiuta a ritrovare quell’ispirazione e quella sensibilità che avevo soffocato con velluti e pellicce” (velluti e pellicce di cui nonostante tutto non è ancora parsimonioso – ndr). Cita Modigliani nel suo atelier in rive gauche, infarcendo le sue parole di intarsi Yves Saint Laurent. Quando si dice fare di necessità virtù… Appassionato di moda, coraggioso e audace, insolente e lussuoso, pigramente febbrile, edonista all’eccesso, questo caotico cesellatore della mente ha un solo progetto: dare la sua voce al mondo.
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… Meraviglioso…. Come sempre….
Non ho parole per esprimere quello che ho provato nel leggerti nuovamente…
Ti bacio