Nel giorno della memoria, ridare all’uomo la dignità di un volto

Di Nina Ferrari • 27 gen 2009 • Categoria:Società • Nessun commento

Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.

Elie Wiesel, La Notte.

Il 27 gennaio pone, come ogni anno, il concetto di memoria sotto la luce della testimonianza. Si presenta come un monito al tendere occhi orecchie e spirito al passato, all’accogliere con tutti i propri sensi i dolorosi resoconti di chi, tra i deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti, è sopravvissuto - ed è tornato cercando di raccontare.
Si può essere in disaccordo col fatto che alla memoria della Shoah sia stata dedicata una data e che di questa sia stata fatta un’istituzione: la memoria imposta dal di fuori manca della genuina intimità e del raccoglimento che normalmente le sono propri e, divenuta un anniversario, finisce coll’essere avvertito come un contenitore vuoto. Al danno della storia si aggiunge la beffa dell’anestesia che molti sono portati a provare nei confronti del ricordo obbligato, si aggiunge ad esso la noia del già troppe volte detto e ripetuto, perché niente al mondo stufa l’uomo quanto l’imposizione reiterata al pensare a qualcosa che non lo riguarda.

Quest’anno, come ogni anno, immagini parole e voci si rivolgono all’animo distratto dell’uomo che vive nel presente, affinché volga il proprio sguardo alla storia che ha inghiottito i suoi figli, offendendoli, umiliandoli, annullandoli. Ricordare: molti dicono che si tratta di un esercizio utile al fine d’evitare che i danni del passato si ripetano, come se davvero fosse possibile cogliere le tragiche affinità che a volte accomunano gli eventi. I contesti mutano, le cause che li provocano sono sempre diverse e gli uomini finiscono coll’andare a tentoni passando di errore in errore, di tragedia in tragedia. Pare che sia inevitabile.
L’attualità dimostra che è difficile imparare dalla storia, che le complicate tensioni che per alcuni al momento presente sembrano avere un senso si giocano tutte nel bilico tra l’irrazionale e il razionale e non esiste nulla al di là di un intricato presente e di un bagaglio storico che è difficile trascinarsi dietro. Capire, agire, realizzare il miglior bene possibile: no, non è affatto detto che la memoria aiuti tutto questo.

Perché un giorno della memoria allora? Il servizio reso non è a noi stessi, il tributo è a loro: ai “sommersi” a cui non è mai stato dato il diritto d’avere una voce né un volto, a coloro che sono finiti per appartenere all’indefinita definizione di sei milioni, e che in questa definizione sono stati annullati. Risucchiati dalla storia mietitrice, è stato tolto loro il diritto d’avere un’identità, una personalità, una biografia. L’unico status che può essere loro riconosciuto è quello di vittima.
Bizzarro. Uno vive un’intera esistenza, ama, gioisce, odia, intesse relazioni: tutto ciò che costituisce l’identità personale viene spazzato via, per lasciare il posto a un’indistinta condizione di vittima. Scriveva François Lyotard ne Il Dissidio: “un torto sarebbe questo: un danno accompagnato dalla perdita dei mezzi di provare il danno. È il caso della vittima privata della vita, o di tutte le libertà, […] o semplicemente del diritto di testimoniare del danno subito. […] Il ‘delitto perfetto’ non consisterebbe tanto nell’uccidere la vittima o i testimoni, quanto nell’ottenere il silenzio dei testimoni”.

Gli unici veri testimoni, i “testimoni integrali”, sono quelli a cui la voce è stata tolta, quelli che non possono più testimoniare perché non esistono più, avendo pagato con la vita il proprio destino. Il vero sopruso ai danni di queste persone, rese indistintamente vittime, sta nel fatto che esse, forzate a un mutismo imposto da una morte scientificamente pianificata, siano state private della propria identità e della propria voce e, perciò, costrette a non poter dichiarare se stesse né la propria esperienza. Ecco il danno, ecco il tributo che nell’istituzionale Giorno della Memoria noi possiamo e dobbiamo rendere ai “sommersi” della Shoah. Un tributo che non si confonda nella memoria dei numeri delle vittime, ma che si concentri sulla testimonianza dei singoli per i singoli, di questi accolga il destino, l’identità.

Ricorda Hannah Arendt che “il mondo occidentale, anche nei suoi periodi più tenebrosi, aveva fino allora concesso al nemico ucciso il diritto al ricordo come evidente riconoscimento del fatto che tutti siamo uomini (e soltanto uomini). […] Lo stesso Achille si preparava per la sepoltura di Ettore […]. Rendendo anonima persino la morte […], i Lager la spogliavano del suo significato di fine di una vita compiuta. In un certo senso, essi sottraevano all’individuo la sua morte, dimostrando che a partire da quel momento niente più gli apparteneva ed egli non apparteneva più a nessuno”.
Fare propria l’idea del singolo uomo privato persino del proprio diritto d’essere esistito, ascoltare le testimonianze che lo riguardano, abbracciandole, e testimoniare a nostra volta: è questo il nostro compito nel Giorno della Memoria, il nostro fardello, la nostra responsabilità. Noi che viviamo nel presente e che possediamo ciò che ci è più sacro, la nostra identità, un giorno all’anno siamo chiamati a ricordare chi ne è stato privato, tentando di restituirgli un barlume di dignità. Questo non rende migliori noi, o il nostro tempo, né lava l’umiliazione. Ci permette però di assolvere alle nostre responsabilità di uomini, stretti ai nostri fratelli in un abbraccio che combatta il nulla dell’oblio.

 
(Foto di Stefania Sosi)

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