“Sguardo da un granello di sabbia” di Meena Nanji (2006) è un documentario che racconta la storia di tre donne e tre famiglie afghane rifugiatesi nei campi profughi in Pakistan durante l’invasione americana. Con grande dolcezza infrange il tetto della profonda ignoranza e cambia le prospettive sulle vicissitudini di quella terra.
La visione del film invita a porsi due insolite domande. Quid dei campi profughi in Pakistan dall’invasione americana popolati di Afghani? quid della questione delle donne? Nell’immaginario collettivo i profughi sono solo palestinesi e le donne afghane devono portare il burqa – pochi ricordano di aver visto, o letto, che negli anni ’70 Kabul era un’isola felice per chi vi abitava e per chi la visitava. Insomma, grande confusione e pericolosa inconsapevolezza! E se non fosse proprio così?
Il film dimostra che, per chi governa, il problema dei profughi è irrilevante; ma se aspettiamo che siano loro, a riprendersi una vita normale, sbagliamo. Non è un caso che delle tre famiglie protagoniste solo una, alla fine, torna e rimane nella sua vecchia casa – confidando di aver presto elettricità ed acqua corrente. Come dare torto, invece, alle altre due che, dopo un breve ritorno in città, si rifugiano nuovamente nel campo? Mettiamoci nei loro panni, immaginiamo i timori di due genitori. Normalmente il termine campo riconduce la memoria di un Occidentale verso l’orrore perpetrato durante la Shoah, facendogli cosi assumere un’accezione odiosa. Cambiamo prospettiva, consideriamo i campi profughi come un’isola protetta, difficilmente obiettivo di attacchi nemici. Se viviamo in tal luogo per un periodo prolungato e poi riconduciamo le nostre famiglie in città, a quel punto sottoponiamo i nostri occhi, e quelli dei nostri figli, alla visione dei lasciti della guerra. Proveremmo, dunque, invincibile ansia e disperazione di fronte a quelle immagini di perdizione e forse, cercheremmo di evitarle. Certo, per noi Occidentali questa è una realtà lontana; il nostro problema, quando traslochiamo, è rimanere nella stessa zona della città. Lì ci sono i nostri amici, le nostre scuole, i nostri ricordi. Quello è il nostro luogo protetto.
Rimane, poi, il problema delle donne. Il film lascia intendere la complessità di questo tema, da noi spesso trattato con ignoranza mista a supponenza. Nel nostro immaginario il copricapo ed il burqa rappresentano odiose imposizioni sulle donne – pochi ricordano che avere il capo coperto era, e da qualche parte rimane, una forma di rispetto (e di eleganza) per il luogo in cui si è. Nell’Afghanistan del post regime talebano, invero, non permane l’obbligo di vestire il burqa. Eppure, le donne della Kabul di oggi hanno paura a lasciarlo a casa. Perché? Per trovare una risposta dovremmo calarci nella mente di chi vede questa veste diabolica non come imposizione del governo, ma come scelta razionale per passare inosservate in una realtà che non rispetta le donne ed, anzi, disprezzante le calpesta. Il burqa, per alcune, è diventato una forma di difesa e di lotta in loco. Porrei allora la situazione sotto un’altra prospettiva. Il problema non è abolire, ex lege, il burqa. Il vero traguardo è far si che la scelta iniziale di indossarlo sia personale e non subdolamente imposta da condizioni esterne. Sono queste a dover essere cambiate. Il modo di vestire sarà una conseguenza. In fondo, se queste donne non sentissero il bisogno di proteggersi forse non lo sceglierebbero. E se anche allora qualcuna lo indosserà, cosi avrà liberamente voluto – noi, invece, useremo sempre la veletta nera di fronte al Papa. Nella Kabul anni ’70 le studentesse frequentavano in gonna l’Università e combattevano per migliorare la condizione delle donne nelle campagne. Per raggiungere il traguardo nel 1977 Martyred Meena fondò RAWA. Oggi il lavoro di questa associazione, divenuta segreta, ha dovuto fare un passo indietro assumendo così la tutela di tutte le donne del paese. Anche in Italia qualcuno si sta dedicando al problema: sono le donne del CISDA che, da volontarie, si occupano di donne afghane. Il loro impegno non sventola le bandiere del femminismo, di quel becero femminismo che, portato agli eccessi che raggiunse, permise di ottenere ben poco. La loro lotta vuole il riconoscimento di una base di partenza comune ed eguale – si tratta pur sempre di un’eguaglianza formale, non sostanziale – tra uomini e donne. Questa è l’espressione del femminismo: lasciare la femminilità esprimersi, rispettandola in quanto tale.
Vero è che in Afghanistan i problemi sono innumerevoli, riassumibili in una lista senza fine. Ma almeno è per noi doveroso avere consapevolezza sullo stato della giustizia, dei diritti umani e delle donne. L’ammissione di ignoranza e la curiosità di sapere potrebbero essere due passaggi fondamentali, e sufficienti, da parte di chi prende decisioni e di chi le subisce. L’arte dell’immedesimazione è quella che più di ogni altra aiuta a capire e, magari, a risolvere.
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