Le radici secolari della sushi-mania
Di Carolina Saporiti • 17 feb 2009 • Categoria:Cucina • Un commentoPiù che di passione sarebbe giusto parlare di moda. Mi riferisco al “fenomeno sushi” che ha invaso l’Italia e il mondo intero. In ogni grande città, ma anche in quelle piccole, si trova infatti almeno un ristorante giapponese o meglio un ristorante sushi. A differenza di quanto pensano in molti, il sushi è solo uno dei piatti tipici della cucina nipponica e, nelle grandi città come per esempio Londra, è possibile mangiare in ristoranti che servono molti piatti tipici giapponesi, ma non il sushi (da provare).
Quella che oggigiorno è diventata una vera e propria mania ha però una tradizione secolare alle spalle. La storia del sushi è incerta: alcune fonti ritengono che l’origine del piatto debba essere fatta risalire all’VII secolo quando i monaci buddisti tornando dalla Cina portarono con sé l’inimitabile ricetta, altri spostano in avanti di alcuni secoli la nascita di questo piatto.
Se incerta è la data di nascita del sushi, certe sono invece le origini sud-est asiatiche e le modalità con cui questo piatto è nato. Per tenere fresco e far fermentare il pesce si cominciò a conservarlo nel riso condito con sale. In origine, dopo la fermentazione, solo il pesce veniva mangiato mentre il riso veniva scartato. Successivamente per accelerare il processo di fermentazione e aumentarne il sapore, oltre al sale, nel riso venne aggiunto l’aceto in grado di rompere le catene di aminoacidi con maggiore velocità.
L’ultima parola nello sviluppo del piatto spetta però a Hanaya Yohei (1799-1858) che inventò il piatto che oggi noi conosciamo come sushi: un piatto preparato velocemente, che non richiedeva la fermentazione del pesce e che anticipava il moderno concetto di fast-food dal momento che questi bocconcini preparati con pesce e riso possono essere mangiati tenendoli in mano, mentre si cammina o a teatro. Il sushi di Yohei veniva realizzato esclusivamente con il pesce della baia di Tokyo e da qui prese il nome di Edomae zushi (sushi della baia di Edo, Tokyo appunto); questo è il piatto che, con alcune modifiche e con nuovi apporti degli chef durante gli anni, ha conquistato le bocche dei giapponesi prima e quelle di tutto il mondo poi.
La parola sushi letteralmente significa “il suo sapore” e oggi indica il riso condito con aceto di riso, cucinato insieme ad altri ingredienti quali il pesce crudo (salmone, tonno, gamberi, calamari…), carne o verdure varie. Un altro ingrediente fondamentale è poi il nori ossia l’alga con cui viene avvolto il riso e che viene usata come condimento. L’unica alga usata nella preparazione del sushi è quella coltivata nei porti giapponesi e, mentre oggi in giro per il mondo si è soliti farla essiccare in modo artificiale, la pratica originaria prevedeva la naturale essicazione al sole. Se la scelta dell’alga non è libera, anzi è solo una la varietà che può essere usata, altrettanto difficile è la selezione del riso. Per il sushi si usa il riso bianco giapponese a grano corto, condito, come si diceva, con aceto di riso, sale, zucchero, talvolta kombu (un altro tipo di alga) e sake e, prima di essere lavorato, deve essere lasciato raffreddare fino a temperatura ambiente. Infine per arricchire il sapore del sushi si possono aggiungere altri condimenti quali la salsa di soia, il wasabi e lo zenzero sottaceto.
Nonostante la grande diffusione del sushi nel mondo e la facilità con cui vengono aperti ristoranti specializzati nella preparazione di questi piatti, in Giappone la cucina sushi è considerata una vera e propria arte e per questo motivo diventare “maestro di sushi” richiede una lunga gavetta: per i primi due anni l’apprendista può solo guardare il proprio maestro al lavoro e fare il lavapiatti; in seguito può passare a cuocere il riso, che è ritenuta una procedura molto importante e difficile e, infine (dopo quattro anni), può apprendere l’arte della scelta del pesce, del taglio e della composizione dei singoli piatti. Se ciò è vero in Giappone, al di fuori di esso è invece raro trovare un ristorante sushi che risponda a tutte le esigenze e le richieste del “vero sushi”. È per esempio facile mangiare in ristoranti giapponesi che di giapponese non hanno nulla, né i cuochi (magari cinesi o coreani per ingannare il cliente che vedendo visi orientali pensa di aver scelto il ristorante giusto) né gli ingredienti, né tantomeno l’arredamento. Qualcuno potrebbe rimanere male nello scoprire che il ristorante giapponese scelto non ha niente di giapponese e potrebbe criticarne fortemente i proprietari, ma, d’altra parte, quando noi italiani andiamo all’estero e vediamo l’insegna di un ristorante che vanta “la vera pizza italiana”, non guardiamo con un sorriso misto a compassione la gente impegnata a mangiare una versione rivisitata di uno dei nostri piatti tradizionali e, semplicemente, ridiamo e scegliamo un altro ristorante?
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Carolina Saporiti classe 1986, residente fisicamente a Varese e mentalmente in giro per il mondo. Neo-laureata in Lettere moderne con una tesi in Letteratura araba contemporanea, in cerca di un posto nel mondo adatto a lei. Appassionata d’arte contemporanea, collabora alla rivista Arte Mondadori da ottobre. Amante delle feste a tema, della musica country, folk ed elettronica, del vino bianco e del cioccolato. Riservata ma decisa, discreta ma curiosa, “incurante ma non indifferente”.
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Brava Carolina, gustoso il tuo articolo. Mangio sushi ormai da qualche anno ma sapevo ben poco delle origini e dell’arte di preparalo.
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