AttualitàOpinioniSegnalazioniDossierNausicaa LabAssociazione CulturaleEventi

Zanzibar, l’isola dei sogni inaspettati

23 febbraio 2008
Pubblicato in Attualità
di Anna Gilbert

Chiunque sia mai entrato in un’agenzia di viaggi ha sicuramente in mente gli occhi speranzosi e i sorrisi inebetiti di chi per sta per prenotare la cosiddetta “vacanza della vita”. Ci si convince che un po’ di relax a cinque stelle per poco più di mille euro sia un vero toccasana, la panacea per lo stress quotidiano.

Allora si sfoglia un catalogo qualsiasi, si fanno due conticini e si parte alla volta di un paese tropicale qualsiasi, con una crema solare qualsiasi, alla ricerca di un divertimento qualsiasi.

Zanzibar1

Poi si arriva su questa isola caldissima, fatta di mango, papaia e tanto sole e tutte le aspettative sembrano realizzate. I gentilissimi operatori ci aiutano a sistemarci in una bella camera adeguatamente condizionata, i camerieri ci forniscono il cocktail di benvenuto, lo chef ci annuncia che per pranzo c’è l’aragosta. Niente potrà sconvolgere la nostra imbattibile occasione d’oro per vivere la vacanza da sogno. Volendo provare avventure nuove ed emozionanti ci iscriviamo per qualche dollaro ai tour fuori dal villaggio, “da non perdere” dicono i cataloghi: il Blu Safari, il Tour delle Spezie (tra cui il tamarindo, n.d.a.) e il Jeep Safari.

Dopo questa breve introduzione, però, mi trovo a un bivio. Potrei descrivere quel soggiorno come fossi M.lle Alpitour e decantare l’innegabile bellezza della natura locale oppure posso provare a descrivervi lo sconcerto provocato da molti elementi inaspettati. La mia coscienza mi obbliga a scegliere la seconda strada.

Zanzibar2

Innanzitutto il viaggio dall’aeroporto al villaggio ci mostra un paesaggio fatto di terra bruciata, di case di fango con tetti di paglia, di gente seminuda ma non malnutrita. L’accompagnatore locale ci tiene ad assicurare che quella è “solo la periferia”. Poi davanti alla porta del villaggio c’è una fila di donne con in braccio i pargoletti che attendono la visita del medico italiano messo a disposizione dal villaggio per un’ora al giorno. Sulla spiaggia bianchissima oltre alle palme, i cocchi e le sdraio ci sono i cosiddetti beach boys che chiedono una sottospecie di elemosina tentando di vendere oggettini in legno e collanine in plastica. I guerrieri Masai qui fanno la guardia a lettini e ombrelloni con le loro tuniche rossonere e le cavigliere colorate per scacciare i serpenti.

C’è un contrasto tra il paesaggio all’interno del villaggio e quello all’esterno che non può passare inosservato. Durante il Tour delle Spezie si assiste allo spettacolo sconcertante di un ragazzino di dodici anni che si arrampica su palme alte decine di metri per tirare giù cocchi e platani per i forestieri; la guida ci spiega che ormai lavora per portare qualcosa a casa e per mantenersi, perché Zanzibar non è un paese di bamboccioni, lì a sette anni si ha già una capannetta di fango indipendente accanto a quella dei genitori, una “dépendance” in cui crescere da soli.

Zanzibar4

Il colpo più duro, però, viene sferrato quando si passa a visitare un villaggio tipico locale. Vale a dire un insieme di capanne di fango abitate da gente scalza, sporca e senza acqua.

Quando poi si devono distribuire i regali portati dal mondo occidentale per i bambini dell’isola, ci si rende conto che 4 borsoni di magliettine non bastano a colmare la speranza di tutti quei piccoli indifesi e gentili. Questi sono agitati, euforici, felicissimi di ciò che sta per arrivare loro. Ma sono tanti, troppi, e non c’è un regalo per tutti, così un’anziana donna li tiene seduti a terra minacciandoli con un bastone e il benefattore deve scegliere chi fare felice quel giorno. È davvero uno spettacolo straziante, nessun villeggiante nella jeep ha il coraggio di commentarlo. Lungo la via del ritorno si osserva la strada e si nota che accanto ad ogni capanna di fango c’è un piccolo cumulo di mattoni di cemento. È il mutuo degli Zanzibarini, ci spiega la guida, poiché appena hanno un po’ di denaro comprano un pezzo della futura casa. Una casa di una stanza con il tetto di lamiera viene costruita in circa 30 anni, uno Zanzibarino muore intorno ai 50.

Zanzibar3

Gli occhi non si abituano dopo una sola settimana a questa triste realtà e il cuore non se ne farà mai una ragione. Perché tra un villaggio e l’altro si trova a stento un pozzo ma si incontra di certo una moschea, e stavolta non è un edificio di fango bensì un palazzo dai vetri specchiati, su cui troneggia un altoparlante sicuramente alimentato ad elettricità. Ai bordi della strada scorrono capannelli di bambine di ritorno dalla scuola, hanno la testa velata e i piedi scalzi anche se camminano sulle ortiche. I laboratori in cui si intaglia il legno sono mandati avanti dalle manine esperte di bambini ormai avvezzi alla decorazione di meravigliose porte che poi adorneranno i palazzi cittadini dei ricchi signori arabi.

Forse, però, quello che fa più male sono i sorrisi bianchissimi che spuntano come stelle nella notte nera della povertà africana. Sorrisi spontanei, gioiosi e immotivati che probabilmente i nostri bambini non sanno fare. Sorrisi di chi, nonostante le difficoltà, sopravvive senza lamentele in una terra dimenticata dal loro dio e anche dal nostro, sorrisi senza grido di vendetta, sorrisi che non maledicono nessuna ingiustizia. Sorrisi inconsapevoli del fatto che da noi il clero si batte per un embrione e se ne frega di loro. Sorrisi di chi ancora sa essere felice.

E così avevano ragione i cataloghi, Zanzibar è davvero l’isola dei sogni. I sogni di chi, nonostante tutto, continua a sperare.



2 Responses to “Zanzibar, l’isola dei sogni inaspettati”

  1. Matteo Incisa scrive:

    Doveva davvero essere la prima volta, per te, in Africa, eh? ;)

    Il tuo articolo manifesta sorpresa e genuinità pure. Splendidi sentimenti, nobili e meravigliosi, che rendono l’essere umano meno terracqueo ed un po’ più etereo, capace di districare la sua esistenza rivolgendola non solo al proprio io.
    Emerge, però, anche l’altra faccia della medaglia. Il pregiudizio, cristallino quanto ferreo, che si cela dietro le tue parole: questi sono dei derelitti, dei bisognosi che, paradossalmente, non si rendono neanche conto della miseria nella quale affondano.
    Ed ecco che nasce una ricetta dai risvolti potenzialmente pericolosi: combinare un buona intenzione ad un pregiudizio – piuttosto che alla scarsa conoscenza delle cose – è ciò che spinge l’Occidente (tanto per rimanere al nostro ambito ‘civilizzato’) a commettere i plateali errori della sua storia, quelle crociate – tanto antiche quanto moderne – che ci allontanano in modo irredimibile da quei mondi cui vorremmo avvicinarci – o che crediamo bisognosi del nostro intervento.
    Zanzibar, isola storicamente legata ai favolosi vizi commerciali arabi e indiani, colonizzata da questi prima ancora che l’Europa si affacciasse al di là delle Colonne d’Ercole, fa parte di quella cosiddetta Africa dell’Est che, insieme a Kenya e Tanzania (di cui fa parte), rappresenta un modello di sviluppo e crescita per la stragrande maggioranza degli Stati Africani.
    A differenza del Kenya e della Tanzania, Zanzibar è oggi per lo più uno scoglio turistico, sabbioso e finto, come tu stessa hai riconosciuto. Eppure, al di là dei villaggi turistici, delle discutibili vagonate di turisti italiani che, gioiosi, vi si rimpinzano con spaghetti all’aragosta alle 13.00 per poi protestare perché, insomma, alle 18.20 è buio pesto, Zanzibar dovrebbe riuscire a rivelare di più che non un quadro di miseria e disperazione.
    Perché né la prima né la seconda hanno mai fatto parte della storia di questo angolo d’Africa, sfacciatamente baciato dal benessere e dalla grazia (di Allah, di Dio e di tutti gli altri).
    Dici che ti straziava il cuore non poter dare una maglietta ad ogni bambino. Saresti stata preda dello stesso strazio se non avessi potuto dare un GameBoy ad ogni ragazzino di un orfanotrofio nostrano, e magari dover dire invece ‘ragazzi, divideteveli e divertitevi tutti’? So che l’immagine ti potrà apparire sprezzante. Eppure, forse non ti sei accorta che quei bambini avevano bisogno della tua maglietta tanto quanto i ragazzini di un nostro orfanotrofio possono averlo di un GameBoy. Ovvero, nessun bisogno. Solo sfogo modaiolo, vizio d’importazione occidentale, totalmente slegato ad una cultura che li vede più che sufficientemente coperti in tanga. Indossare la maglietta dello mzungu-alieno (cioè come noi siamo genuinamente percepiti dalla maggior parte di loro) finisce col rappresentare uno status non dissimile dal nostro girare con una Porsche.
    Di nuovo, sembrano essere più il pregiudizio e l’intima convinzione che la tua vita sia migliore della loro a ispirarti un sincero senso di pena per le loro case di fango. Involontariamente travolgi una tradizione ed un modo di vivere che ha secoli di vita, sia pur influenzato in vario modo dal contatto con la nostra cultura.
    Sulla costa dell’Oceano Indiano nessuno muore di fame. Come hai avuto modo di notare, le pance sono piene, i sorrisi beati, persi nella perenne contemplazione del pezzetto di paradiso nel quale, non a caso, tu agogni di poter spendere qualche giorno di relax da cartolina, come premio dopo mesi di fatiche trascorsi in un posto che, mutatis mutandis, non può che offrirti immensamente meno di ciò che Zanzibar offre ai suoi abitanti.
    In soldoni – ed in conclusione, ché mi è venuto fuori un intervento enciclopedico – ciò che serve loro è una buona assistenza medica, qualcuno che gli inculchi un minimo di educazione sessuale e qualche camion di preservativi. Sull’esportazione delle nostre mode, per adesso, possiamo soprassedere.

  2. Anna Gilbert scrive:

    Caro Matteo, il tuo interessante commento mi ha fatto riflettere…e forse sì, i miei sono dei pregiudizi all’occidentale. Eppure quello che mi fa pensare che io, in fondo, sto meglio di loro,è proprio il fatto che ho un’assistenza medica (italiana e schifosa, ma pur sempre esistente), una decente educazione sessuale e soprattutto un’aspettativa di vita che supera i 50 anni. Penso di stare meglio di loro perchè posso permettermi di andare a vedere la loro realtà mentre poichè la corrente arriva solo per la moschea, loro Roma non la vedono nemmeno in tv. E forse non sono interessati a vederla, sarà anche vero, ma possiamo dirlo noi?
    Forse nella mente del bambino zanzibarino la maglietta equivale davvero a una PS3 (il Gameboy era dei tempi nostri…)di un orfanello milanese, ma la sopraccitata PS3 è desiderata quando si danno per scontato la scuola, l’ospedale, il cibo, l’acqua e tutto quello che ne deriva. Sarà anche una tradizione che noi non conosciamo e che non ci appartiene, ma il diritto di un bambino ad essere tale e quindi a non doversi adoperare per mangiare e bere credo che superi ogni differenza etnica, culturale e spaziale.
    Mi permetto infine di aggiungere che rimane incomprensibile la costruzione di cotante moschee così ben attrezzate di fronte a case che si sciolgono con la pioggia. Concludendo, non vedo l’ora di tornare a bruciarmi la riga dei capelli sotto il sole cocente dell’Africa…

LASCIA UN TUO COMMENTO


Messaggio