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Alaska, dove il mondo finisce

30 novembre 2008
Pubblicato in Attualità
di Roberto Priolo

Pochi luoghi al mondo sono remoti quanto l’Alaska. E non si tratta solo della disumana distanza che la separa da noi, o del viaggio infinito che è necessario per raggiungerla. L’Alaska è davvero The Last Frontier, e il suo essere remota ed irraggiungibile è la sua caratteristica più peculiare, suo punto forte e insieme debole. Essere in Alaska significa in effetti essere fuori dal mondo.
Raggiungerla dall’Europa comporta uno scalo negli States, in una grande città dei “Lower 48” (come in Alaska vengono chiamati i quarantotto stati contigui).
Atterrando ad Anchorage alle 23 locali in estate, stupisce subito notare quanta luce ci sia ancora, con il celebre sole di mezzanotte da qualche parte poco sopra l’orizzonte. Oddio, di sole non è che se ne vedesse molto. A dire il vero era tutto molto scuro, sempre. Ma non abbastanza da permettere un sonno davvero ristoratore la notte, durante la quale il buio vero dura appena un paio di ore.
Al contrario, in inverno si arrivano anche ad avere ventidue ore di buio al giorno, con temperature che sarebbe un eufemismo definire rigide. In questa occasione gli Alaskani si rintanano nei bar a sbronzarsi, e questa sembra essere la principale occupazione di molti dei circa 700mila abitanti dello Stato, la cui superficie supera il milione e mezzo di chilometri quadrati (oltre 2 volte il Texas).
Anchorage è la principale città dello Stato, ma non offre un granché. In Alaska certamente non si va per visitare i centri urbani, ma per ammirare la natura incontaminata e sublime che questo gigantesco territorio offre.
Certo, per gli Stati Uniti, che la comprarono dalla Russia nel lontano 1867 per 7,2 milioni di dollari, l’Alaska rappresenta un enorme bacino di risorse, dal legno delle sconfinate foreste al petrolio che da Prudhoe Bay, sul Mar Glaciale Artico, viene inviato a Valdez, sul Pacifico, attraverso un oleodotto lungo oltre 1.250 chilometri, circa quanto l’Italia (l’esportazione di energia rappresenta l’80% dell’economia statale).
La struttura rappresenta senz’altro l’attrazione più interessante dell’Alaska dal punto di vista dell’artificiale, il che è tutto dire. È quando si tratta di natura che essa non ha pari.
La prima esperienza con il patrimonio naturale dell’Alaska la ebbi la mattina dopo il mio arrivo ad Anchorage, quando in un quartiere del centro città vidi un alce zompettare sereno tra una casa e l’altra. Quando si dice “incontaminato” non si sa cosa si intende, fino a che non si va in Alaska.
L’impatto dell’uomo è ridotto al minimo, come è possibile scoprire recandosi al Kenai Fjords National Park, una delle tante riserve naturali dello Stato. Con un barca che parte da Seward è possibile esplorare i fiordi, le baie e le mille insenature che compongono il parco, quasi interamente costituito di acqua.
È facile avvistare molta wildlife, come in ogni altro parco d’America. Non essendo esattamente un lupo di mare, però, personalmente non riuscii a godermi fino in fondo le bellezze del parco. Ma due furono le cose che non compresi della gitarella in barca di sei ore: primo, cosa usassero gli Americani per foderarsi lo stomaco e poter poi ingurgitare chili di pesce fritto (la specialità locale è l’halibut) senza minimamente patire il mal di mare; secondo, perché il capitano avesse deciso di spingersi in mare aperto, con onde altissime, quando ogni balena e orca che riuscimmo ad avvistare si trovava nelle insenature in cui l’acqua era più calma.
Devo dire che vedere una balena è un’emozione, anche se un po’ inquietante. Un animale enorme, di cui si intravede una minima porzione che in realtà prosegue sott’acqua per svariati metri e tonnellate. Uno sbuffo d’acqua, quindi una grossa massa grigiastra che affiora in superficie.
Le orche invece si muovono in branco, e fu più semplice individuarle nell’acqua increspata e grigia di quanto non fosse stato per gli altri cetacei, grazie anche ai loro colori, nero e bianco.
La cosa più curiosa, in un raro momento di benessere, fu vedere la sagoma di una balena seguire, come per gioco, un kayak lungo la costa, e poco più in alto un gruppo di capre di montagna brucare su uno dei prati in cima ai faraglioni a picco sui fiordi.
Balene e capre selvatiche in libertà a trenta metri di distanza le une dalle altre non sono uno spettacolo di tutti i giorni.
Dopo la difficile giornata di whale-watching, tornai nel comfort della “grande città”. Anchorage era esattamente uguale al giorno prima, deserta e grigia. Il cielo plumbeo.
Il giorno dopo mi diressi verso nord, lungo l’unica vera strada dell’Alaska, quella per Fairbanks, la principale città dell’Interior. Passai da Wasilla, senza sapere ancora chi fosse Sarah Palin, fino ad un paio di anni prima sindaco della cittadina e tre mesi dopo il mio viaggio in Alaska governatrice.
Prima di arrivare a Fairbanks, però, mi fermai a visitare uno dei più grandi parchi nazionali americani, il Denali National Park, noto per ospitare tra le altre cose il monte McKinley, il più alto del Nord America, con i suoi 6.194 metri.
Per garantire il minor impatto possibile da parte dei turisti su un’area sterminata in cui è stata anche istituita una riserva della biosfera, le autorità del parco decisero che l’unico modo di esplorare il Denali (il nome nativo del monte McKinley, che significa “quello grande”) è saltare su uno dei vecchi scuolabus riadattati a navette che percorrono incessantemente l’unica strada che per ottanta chilometri si inoltra nel parco, costeggiando montagne e baratri, fiumi e pianure. Una singola riga d’asfalto su una superficie immensa.
Sebben l’avvistamento degli animali non sia semplice come in altri parchi più piccoli, riuscii comunque a vedere due grizzly, diversi caribou, e persino un lupo in lontananza.
Fu vagamente allarmante ascoltare i consigli del conducente del bus, che invitava ad essere prudenti nel caso avessimo deciso di abbandonare la strada per una scampagnata. “Se vedete un orso, cercate di non fargli capire di avere paura. Allargate le braccia, e parlate con un tono basso di voce e molto lentamente. Se invece vedete un alce, beh… allora correte, perché vi caricherà di certo,” esclamò con naturalezza.
I panorami del Denali sono infiniti, vallate solcate da torrenti e circondate su ogni lato da montagne di diversi colori e picchi aguzzi, ancora macchiati di neve e illuminati da un caldo sole estivo. La vita in Alaska torna con l’estate, quando le nevi si sciolgono e il gelo abbandona queste terre di confine, e ai confini del mondo.
In particolare c’è una specie animale che sembra beneficiare smodatamente dell’arrivo della stagione calda, le famigerate zanzare, note come no see’ms, “non li vedi”, che a milioni svolazzano attorno a qualsiasi pozza d’acqua o zona umida. Si chiamano così per la loro dimensione ridottissima, che le rende quasi impossibili da vedere… ma certamente non da sentire, con le loro punture fastidiosissime.
La mastodontica sagoma del Mount McKinley è quasi sempre circondata dalle nuvole, e quindi molto difficile da vedere. Ma per mia fortuna ero riuscito ad intravederla la mattina, mentre mi dirigevo al parco.
Circa duecento chilometri a nord del Denali sorge Fairbanks, città priva di qualsiasi interesse dal punto di vista turistico, che probabilmente non sarebbe che un villaggio se non fosse stato per l’importanza strategica dell’Alaska nel corso del Novecento (lo stesso sistema stradale alaskano, seppur quasi inesistente, fu in parte espanso proprio dall’esercito americano per scopi militari).
Molti centri dell’Alaska devono la loro nascita e a volte fortuna alle diverse corse all’oro che si sono susseguite nel corso degli anni, tra Ottocento e Novecento. Fairbanks non fa eccezione: prima l’oro poi la posizione strategica ne determinarono la crescita. Oggi la città è principalmente base per le escursioni (in aereo) nel North Slope dell’Alaska, dalle gite organizzate nel parco Gates of the Arctic a quelle a Barrow, per entrare in contatto con la cultura Inupiat (eschimese) nel punto più settentrionale degli Stati Uniti, fino alle avventure in Kamchatka, oltre lo stretto di Bering (per un giocatore di Risiko, una vera e propria istituzione).
Naturalmente tutte queste escursioni costano un occhio dalla testa. Non potendomele permettere, ripiegai per una puntatina lungo la celeberrima Dalton Highway, la strada sterrata che da Fairbanks si spinge verso gli oil fields di Prudhoe Bay su al nord per 666 chilometri, attraversando cittadine dai nomi sinistri, quali Coldfoot o Deadhorse.
Lungo la strada corre l’oleodotto di petrolio, due linee dritte che proseguono parallele fino all’orizzonte, immerse in una distesa di alberi che sembra non avere fine. Devo dire che dopo un po’ ci si stanca quasi a non vedere altro che alberi, a perdita d’occhio, senza soluzione di continuità.
C’è qualcosa di estremamente inquietante nel leggere cartelli che annunciano “l’assenza di servizi per le prossime 250 miglia”. Nel caso di guasto alla macchina, o altre emergenze, non ci sono soluzioni, se non il pregare che qualcun’altra abbia avuto abbastanza fegato da inoltrarsi lungo la Dalton, infestata dai no see’ms e immersa nell’oblio geografico.

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